Nascita e morte del grande musicista austriaco:un ritratto inedito del suo mondo di ieri secondo Stefan Zweig
Gustav Mahler non fu mai così vivo e vivificatore per questa città come ora che è lontano, e quella che ingrata abbandonò il creatore ora gli è patria per sempre. Quanti lo amavano hanno atteso questo momento, ma ora che è arrivato non ci rende lieti. Perché i nostri desideri sono mutati: finché fu attivo, il nostro desiderio era vedere ben viva la sua opera, le sue creazioni. Ora che queste hanno raggiunto la fama, abbiamo di nuovo nostalgia di lui, che non tornerà più. Perché per noi, per un’intera generazione, fu più che un musicista, un maestro, un direttore d’orchestra, più che semplicemente un artista: fu ciò che la nostra giovinezza non può dimenticare. [...]
A quell’epoca noi giovani abbiamo imparato da lui ad amare la perfezione, abbiamo compreso grazie a lui che alla volontà intensa, demoniaca, è sempre possibile, nel mezzo del nostro mondo frammentario, costruire per un’ora o due l’eterno e senza macchia dal fragile materiale terreno, e ci ha così insegnato ad attenderlo sempre. È stato per noi un educatore e un sostenitore. Nessuno, nessun altro all’epoca ha avuto altrettanto potere su di noi.
E questo demone della sua natura interiore era così forte che penetrava come un dardo in fiamme attraverso lo strato sottile del suo essere esteriore: egli era tutto ardore, difficile da trattenere nella fragile scorza carnale. Lo si poteva conoscere bene vedendolo una sola volta. Tutto in lui era tensione, era eccesso, passione debordante; intorno a lui vi erano lampi come le scintille intorno alla bottiglia di Leida. Il furore era il suo elemento, l’unico adeguato alla sua forza; a riposo appariva sovreccitato e se restava fermo emanava come scariche elettriche. Non si poteva immaginarlo ozioso, a passeggiare tranquillo; il surriscaldarsi di una caldaia interna richiedeva sempre forza per fare, per portare avanti qualcosa, per essere attivo. Era sempre in movimento, verso un obiettivo, come trascinato da una grande tempesta, e ogni cosa era per lui troppo lenta; forse odiava la vita reale perché era fragile, stentata, indolente, una massa dotata di forza di gravità e resistenza, mentre egli mirava a quell’altra vita reale dietro alle cose, sulle nevi eterne dell’arte, dove questo mondo tocca il cielo. [...]
È impossibile descrivere che cosa rappresentasse per noi giovani, che sentivamo fermentare dentro di noi la volontà di fare arte, lo spettacolo fiammeggiante, che qui si offriva a tutti, di un uomo del genere. Sottometterci a lui era il nostro desiderio; ci impediva di avvicinarci a lui un timore, incomprensibile e misterioso, come non si osa accostarsi al bordo di un cratere e guardare la lava in ebollizione. Non cercammo mai di creare un contatto stretto con lui: il suo semplice essere, il suo esistere, la consapevolezza della sua esistenza accanto a noi, in mezzo al nostro comune mondo esteriore era sufficiente a renderci felici. Averlo visto per strada, al caffè, in teatro, sempre da lontano, era già un evento, tanto lo amavamo e lo ammiravamo. Ancor oggi la sua immagine è viva in me come quella di poche persone; ricordo ogni singola volta in cui lo vidi da lontano. Era sempre diverso e sempre lo stesso, perché sempre animato dalla veemenza dell’espressione del suo spirito. Lo vedo durante una prova: iroso, tremante, urlante, stizzito, sofferente per tutte le imperfezioni come per un dolore fisico; lo vedo un’altra volta chiacchierare allegro da qualche parte per strada, ma anche là in modo istintivo, di una allegria così naturalmente infantile, come Grillparzer descrive quella di Beethoven (e di cui è punteggiata qualche pagina delle sue sinfonie). Era sempre in un certo qual modo trascinato da una forza interiore che lo animava totalmente.
Ma per me resterà indimenticabile una volta, l’ultima in cui lo vidi, perché non avevo ancora mai percepito in modo così profondo, con tutti i sensi, l’eroismo di un uomo. Tornavo dall’America e lui era sulla stessa nave, affetto da una malattia incurabile, in fin di vita. Una primavera precoce era nell’aria, la traversata procedeva tranquilla in un mare blu, increspato da deboli onde; avevamo costituito un piccolo gruppo, Busoni faceva omaggio a noi amici della sua musica. Tutto ci spingeva a essere lieti, ma sotto, da qualche parte nel ventre della nave lui sonnecchiava, vegliato dalla moglie, e per noi era come un’ombra sulla leggerezza delle nostre giornate. A volte, mentre ridevamo, qualcuno diceva: «Mahler! Il povero Mahler!» e diventavamo muti. Lui giaceva là sotto, un uomo perduto, arso dalla febbre, e solo una piccola fiamma luminosa della sua vita guizzava sopra sul ponte, all’aperto: sua figlia, che giocava spensierata, felice e inconsapevole. Noi, però, noi lo sapevamo: sentivamo la sua presenza là sotto, sotto i nostri piedi, come se fosse stato nella tomba. E poi all’arrivo a Cherbourg, nel rimorchio che ci trasportò, alla fine lo vidi: giaceva immobile, di un pallore mortale, con le palpebre chiuse. Il vento gli aveva spostato di lato i capelli ormai grigi, la fronte arrotondata sporgeva alta e ardita; sotto, il mento severo, dove risiedeva la forza della sua volontà. Le mani emaciate giacevano incrociate sulla coperta, piegate dalla stanchezza; per la prima volta quell’uomo ardente mi apparve debole. Il suo profilo – indimenticabile, indimenticabile! – si stagliava su un’infinità grigia di cielo e mare; in quella scena vi era una tristezza sconfinata, ma anche un qualcosa che, trasfigurato dalla grandezza, risuonava per spegnersi nel sublime come musica. Sapevo che lo vedevo per l’ultima volta. La commozione mi spingeva ad avvicinarmi, la timidezza mi tratteneva; non potei fare altro che continuare a guardarlo da lontano, come se in quello sguardo avessi potuto ancora ricevere qualcosa da lui ed essergli grato. In me risuonava cupamente una musica, dovetti pensare a Tristan, mortalmente ferito, che ritorna a Kareol, la rocca paterna, ma era diverso, più profondo ancora, più bello, più radioso. Finché poi trovai la melodia e le parole nella sua composizione scritta molto tempo prima, ma che solo in quell’istante giungeva a compimento, la melodia quasi divina, segnata dalla beatitudine della morte, di Das Lied von der Erde sulle parole: «Ich werde niemals in die Ferne schweifen. / Still ist mein Herz und harret seiner Stunde» ([Vado verso la mia terra ..]e non me ne allontanerò mai più. / Silenzioso il mio cuore / Ansiosamente aspetta la sua ora). [...]
Questo fu l’effetto del suo demone su di noi, su un’intera generazione. La nuova generazione che lo incontra ora, senza conoscere la sua biografia, e che può amare solo quanto del suo fuoco misterioso si è sublimato in musica, non conosce tutto il suo essere. Per loro l’opera di Mahler risuona già dall’irreale, dagli alti cieli dell’arte tedesca; per noi è sempre presente il modo esemplare con cui strappò alle cose terrene la loro infinitezza. Quelli conoscono soltanto l’essenza, il profumo del suo essere, mentre noi abbiamo conosciuto ancora il colore ardente che circondava questo calice.
A quell’epoca noi giovani abbiamo imparato da lui ad amare la perfezione, abbiamo compreso grazie a lui che alla volontà intensa, demoniaca, è sempre possibile, nel mezzo del nostro mondo frammentario, costruire per un’ora o due l’eterno e senza macchia dal fragile materiale terreno, e ci ha così insegnato ad attenderlo sempre. È stato per noi un educatore e un sostenitore. Nessuno, nessun altro all’epoca ha avuto altrettanto potere su di noi.
E questo demone della sua natura interiore era così forte che penetrava come un dardo in fiamme attraverso lo strato sottile del suo essere esteriore: egli era tutto ardore, difficile da trattenere nella fragile scorza carnale. Lo si poteva conoscere bene vedendolo una sola volta. Tutto in lui era tensione, era eccesso, passione debordante; intorno a lui vi erano lampi come le scintille intorno alla bottiglia di Leida. Il furore era il suo elemento, l’unico adeguato alla sua forza; a riposo appariva sovreccitato e se restava fermo emanava come scariche elettriche. Non si poteva immaginarlo ozioso, a passeggiare tranquillo; il surriscaldarsi di una caldaia interna richiedeva sempre forza per fare, per portare avanti qualcosa, per essere attivo. Era sempre in movimento, verso un obiettivo, come trascinato da una grande tempesta, e ogni cosa era per lui troppo lenta; forse odiava la vita reale perché era fragile, stentata, indolente, una massa dotata di forza di gravità e resistenza, mentre egli mirava a quell’altra vita reale dietro alle cose, sulle nevi eterne dell’arte, dove questo mondo tocca il cielo. [...]
È impossibile descrivere che cosa rappresentasse per noi giovani, che sentivamo fermentare dentro di noi la volontà di fare arte, lo spettacolo fiammeggiante, che qui si offriva a tutti, di un uomo del genere. Sottometterci a lui era il nostro desiderio; ci impediva di avvicinarci a lui un timore, incomprensibile e misterioso, come non si osa accostarsi al bordo di un cratere e guardare la lava in ebollizione. Non cercammo mai di creare un contatto stretto con lui: il suo semplice essere, il suo esistere, la consapevolezza della sua esistenza accanto a noi, in mezzo al nostro comune mondo esteriore era sufficiente a renderci felici. Averlo visto per strada, al caffè, in teatro, sempre da lontano, era già un evento, tanto lo amavamo e lo ammiravamo. Ancor oggi la sua immagine è viva in me come quella di poche persone; ricordo ogni singola volta in cui lo vidi da lontano. Era sempre diverso e sempre lo stesso, perché sempre animato dalla veemenza dell’espressione del suo spirito. Lo vedo durante una prova: iroso, tremante, urlante, stizzito, sofferente per tutte le imperfezioni come per un dolore fisico; lo vedo un’altra volta chiacchierare allegro da qualche parte per strada, ma anche là in modo istintivo, di una allegria così naturalmente infantile, come Grillparzer descrive quella di Beethoven (e di cui è punteggiata qualche pagina delle sue sinfonie). Era sempre in un certo qual modo trascinato da una forza interiore che lo animava totalmente.
Ma per me resterà indimenticabile una volta, l’ultima in cui lo vidi, perché non avevo ancora mai percepito in modo così profondo, con tutti i sensi, l’eroismo di un uomo. Tornavo dall’America e lui era sulla stessa nave, affetto da una malattia incurabile, in fin di vita. Una primavera precoce era nell’aria, la traversata procedeva tranquilla in un mare blu, increspato da deboli onde; avevamo costituito un piccolo gruppo, Busoni faceva omaggio a noi amici della sua musica. Tutto ci spingeva a essere lieti, ma sotto, da qualche parte nel ventre della nave lui sonnecchiava, vegliato dalla moglie, e per noi era come un’ombra sulla leggerezza delle nostre giornate. A volte, mentre ridevamo, qualcuno diceva: «Mahler! Il povero Mahler!» e diventavamo muti. Lui giaceva là sotto, un uomo perduto, arso dalla febbre, e solo una piccola fiamma luminosa della sua vita guizzava sopra sul ponte, all’aperto: sua figlia, che giocava spensierata, felice e inconsapevole. Noi, però, noi lo sapevamo: sentivamo la sua presenza là sotto, sotto i nostri piedi, come se fosse stato nella tomba. E poi all’arrivo a Cherbourg, nel rimorchio che ci trasportò, alla fine lo vidi: giaceva immobile, di un pallore mortale, con le palpebre chiuse. Il vento gli aveva spostato di lato i capelli ormai grigi, la fronte arrotondata sporgeva alta e ardita; sotto, il mento severo, dove risiedeva la forza della sua volontà. Le mani emaciate giacevano incrociate sulla coperta, piegate dalla stanchezza; per la prima volta quell’uomo ardente mi apparve debole. Il suo profilo – indimenticabile, indimenticabile! – si stagliava su un’infinità grigia di cielo e mare; in quella scena vi era una tristezza sconfinata, ma anche un qualcosa che, trasfigurato dalla grandezza, risuonava per spegnersi nel sublime come musica. Sapevo che lo vedevo per l’ultima volta. La commozione mi spingeva ad avvicinarmi, la timidezza mi tratteneva; non potei fare altro che continuare a guardarlo da lontano, come se in quello sguardo avessi potuto ancora ricevere qualcosa da lui ed essergli grato. In me risuonava cupamente una musica, dovetti pensare a Tristan, mortalmente ferito, che ritorna a Kareol, la rocca paterna, ma era diverso, più profondo ancora, più bello, più radioso. Finché poi trovai la melodia e le parole nella sua composizione scritta molto tempo prima, ma che solo in quell’istante giungeva a compimento, la melodia quasi divina, segnata dalla beatitudine della morte, di Das Lied von der Erde sulle parole: «Ich werde niemals in die Ferne schweifen. / Still ist mein Herz und harret seiner Stunde» ([Vado verso la mia terra ..]e non me ne allontanerò mai più. / Silenzioso il mio cuore / Ansiosamente aspetta la sua ora). [...]
Questo fu l’effetto del suo demone su di noi, su un’intera generazione. La nuova generazione che lo incontra ora, senza conoscere la sua biografia, e che può amare solo quanto del suo fuoco misterioso si è sublimato in musica, non conosce tutto il suo essere. Per loro l’opera di Mahler risuona già dall’irreale, dagli alti cieli dell’arte tedesca; per noi è sempre presente il modo esemplare con cui strappò alle cose terrene la loro infinitezza. Quelli conoscono soltanto l’essenza, il profumo del suo essere, mentre noi abbiamo conosciuto ancora il colore ardente che circondava questo calice.
Stefan Zweig
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