Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, gennaio 03, 2006

Beethoven: i tormentati Quartetti

La casa del conte Razumovsky era diventata un covo di melomani nella Vienna di fine Settecento. Alle serate di questo ambasciatore di Russia si potevano conoscere i violinisti del momento, i compositori più o meno noti, i teorici dell'armonia. E poi belle donne, naturalmente.
Tanto fecero gli amici musicofili che il nobile russo nel 1808 si decise a dar vita a un quartetto d'archi stabile. Partiture per il lavoro dei quattro non mancavano, anche perchè da un paio di anni erano nelle mani del conte tre quartetti scritti da Ludwig van Beethoven. Tre gioielli acustici per quel tempo. Ma anche qualcosa in più: si potevano onorevolmente considerare i genitori spirituali dei quartetti "quasi orchestrali" del tardo Ottocento.
E' certo che i quattro musicisti stipendiati da Razumovsky - erano Schuppanzigh, Sina, Weiss e Kraft - non avvertirono pienamente quel che eseguivano. Da bravi virtuosi capivano che quelle partiture stavano strette in un salotto, ma certo non avevano inseguito sino in fondo l'ultimo movimento del Quartetto in do maggiore che i musicologi catalogheranno nell'opera 59. Quell'Allegro molto era da solo una piccola sinfonia. Sfuggiva ai limiti della musica da camera: l'attacco dopo la cadenza sospesa, in forma di fuga, agitato da uno slancio, portava l'ascoltatore troppo lontano. Le pareti di un salotto vengono scavalcate dall'incalzante do maggiore. E le note si confondono con la confessione che Beethoven consegna a un abbozzo: "Come tu ti getti oggi nel turbine della società, così è possibile scrivere delle opere nonostante tutte le contrarietà sociali. La tua sordità non sia più un mistero, neanche per l'arte".
Ora chiediamo al lettore un salto nel tempo. Rimaniamo sempre a Vienna l'anno è il 1825. Un altro nobile russo versa quattrini a Beethoven per comporre quartetti: si tratta del principe Galitzin, che a sua volta aveva fondato a Pietroburgo - strana coincidenza - un quartetto (lui stesso ne faceva parte come violoncellista). Ma la risposta del musicista ormai prossimo alla morte, sofferente, straziato dal lavoro di creazione sulle partiture è ben diversa.
Egli consegnerà al principe tre quartetti - le opere 127, 130 e 132 - per quel tempo completamente incomprensibili. Eppure in essi c'è il riassunto della musica moderna.
Diremo pià semplicemente che senza gli ultimi cinque quartetti di Beethoven - ai ricordati vanno aggiunte le opere 131 e 135 - non avremmo avuto le analoghe composizioni di Bartok nè le intuizioni che dominano i lavori maggiori di Schoenberg e di Berg. Il sordo Ludwig si liberò dalle forme. Anzi: le spazzò via. Per accostarsi a queste estreme creazioni, conviene pazienza e umiltà. La musica non è più un passatempo, è un'indagine acustica dell'universo. Egli presenta una forma sonora e poi l'abbandona, quasi non avesse tempo di spiegarla. E nella fuga verso altre forme esalta tutto ciò che tormenta la tranquilla visione.
Nel Quartetto in si bemolle maggiore si è già avvertiti al primo tempo di quel che incombe. Ecco l'Allegro dalla struttura tortuosa: c'è una figurazione di movimento del primo violino su quella ritmica del secondo, ma il tema collaterale è ricavato da una trasformazione lucente del primo. I due violini non danno tregua alle orecchie. Vi accorgete che tutta la struttura dell'Allegro che state inseguendo si scontra con un suono che vi appare grave, che bussa continuamente nella partitura. E mentre cercate di capire quel che sta succedendo, senza curarsi di voi Beethoven si è già lasciato alle spalle le compenetrazioni tematiche e si avvia verso una zona di suono dove tutto viene pacificamente ricomposto.
Non inseguiremo il maestro nella parte finale, in quella Grande Fuga che originariamente suggellava con un mistero note ancor più misteriose. Diremo semplicemente che Arnold Schering nel suo Beethoven in neuer Deutung (edito a Lipsia nel 1934) paragonò tale partitura al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.
Senonchè non riuscì a far collimare la Fuga scritta in origine da Beethoven con una delle scene proposte dal drammaturgo inglese e preferì accettare anch'egli l'Allegro con cui si sostituì lo sconvolgente brano della Grande Fuga. Altrimenti, per sua ammissione, occorreva cercar ragione di queste note nel Faust di Goethe, precisamente nel Sabba del Brocken. Quelle note erano talmente ardite che per spiegarle con la letteratura a disposizione occorreva mescolare un sogno e un sabba e poi ricavarne una serena conseguenza.
Ora l'integrale dei quartetti di Beethoven - se si escludono alcune composizioni del biennio 1794-95 quali il Minuetto in la bemolle maggiore, i due Preludi e Fughe in fa maggiore e do maggiore, il frammento del Preludio in re minore - viene riproposta a Varese nel primo Festival di musica da camera che si tiene dal 16 maggio al 6 giugno nel Salone Estense di quella che fu la splendida villa di Francesco III d'Este. Esegue il Quartetto Academica. Sono previste sei serate, la prima delle quali si è svolta ieri sera ed è stata aperta dal Quartetto in sol maggiore op.18 n.2.
Ci sembra superfluo aggiungere quanto sia intelligente questa iniziativa. Un'integrale dei quartetti di Beethoven permette di presentare l'anima di quel che fu uno dei più tormentati uomini della musica. Permette anche un itinerario singolare tra i brani commissionati da Razumovsky e quelli consegnati a Galitzin. E' una panoramica tra il piacevole e l'assurdo. Non a caso ancor oggi non abbiamo capito gli ultimi quartetti, così come non riusciremo mai a stilare un giudizio definitivo su Amleto. Occorre consegnare queste musiche all'eterno. E' lì il loro posto.
Esse furono possibili grazie al ricordato principe Galitzin. Ma il merito va dato al violinista Zeuner. Fu lui a consigliare il nobile russo. Lo convinse a elargire una sovvenzione a Beethoven, anzichè far copiare la partitura del Freischutz di Weber. Gli disse semplicemente: investiamo meglio questi quattrini. E così Beethoven in quegli ultimi e tristi momenti poté lavorare. Anche se, va ricordato, i banchieri del principe non avevano premura a onorare l'impegno. In una delle ultime lettere del musicista, datata 21 marzo 1827, questi soldi vengono implorati: "La prego di inviarmi la somma di 125 ducati che, stando all'assicurazione datami da Sua Eccellenza il principe Nikolas Galitzin, egli dovrebbe aver versato presso di lei a mio nome... Lei voglia trasmetterla sul mio conto a Vienna... e io potrò utilizzare la somma della quale ho estremo bisogno, specialmente a seguito della mia ormai lunga malattia".

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 17/5/1987)

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