Anner Bylsma |
Con il passare degli anni sembrano aver acquistato in distensione ed allegria. Durante la prova del concerto che la sera eseguiranno a San Maurizio, a Milano, sorridono e ridono spesso, per qualche misteriosa battuta in olandese detta dall'uno o dall'altro. Prima della prova, in attesa che arrivassero i leggii, Leonhardt aveva salito la scaletta del superbo organo Antegnati e si era abbandonato a un'esibizione estemporanea, illuminando il coro cupo e freddo del monastero di un tripudio di note. Non si presentano più, a concerto, nell'abbigliamento dignitoso ma anonimo che una decina d'anni fa siglava la loro condizione alternativa di musicisti "antichi": hanno optato per l'eleganza più esuberante del frac e dello sparato candido.
Frans Brüggen, Gustav Leonhardt e Anner Bylsma, i tre padri olandesi della filologia, amici e compagni di strada da tanti anni, sono tornati a suonare insieme in Italia nell'autunno scorso. I loro concerti in trio sono occasioni rare che si teme ogni volta di non veder ripetere, data la quantità di impegni imposta dalle singole carriere: in questa tournée hanno mostrato i frutti di una maturità armoniosa, che fonde la loro rinomata maestria strumentale in un'espressività sempre più calorosa e comunicativa. Hanno allo stesso tempo confermato l'indole mobile ed esigente che li spinge a interrogare ancora la musica, ripensando le interpretazioni già date e studiando pagine sempre nuove da proporre al pubblico.
Artisti raffinati e variamente estrosi, hanno anche personalità diversamente attraenti: in Brüggen c'è il mistero, l'inquietudine umbratile e la fantasia del nato sotto Saturno; Leonhardt, gelido e altero nella sua austerità sacerdotale, sorprende spesso per l'ironia impertinente di un'occhiata o di una frase; Bylsma, dall'accogliente immagine di solida bonomia, è un conversatore brillante e arguto.
Prima di tutto, due domande sul programma di questa tournée: Anner Bylsma, come mai per il suo assolo ha scelto pezzi poco noti come i due Exercices di Jean-Louis Duport?
"Personalmente li amo molto, e Jean Louis Duport per il violoncello è come Agostino per la Chiesa: un Padre, un santo capostipite. Duport ha creato le regole per la diteggiatura dello strumento, inventandone un tipo che utilizza tutte le posizioni di tutt'e quattro le corde; da quel tempo tutti i violoncellisti hanno iniziato a usarla, però nessuno si leva il cappello per dire "Grazie, Monsieur Duport": tutti usano questo doigté ma ormai non c'è più chi si ricordi che è una sua invenzione. Quindi è stato anche un po' per fargli omaggio che ho pensato di suonare questi due Exercices che per l'esattezza costituiscono, con altri studi, l'ultimo capitolo di un trattato apparso nel 1800 e intitolato Essai sur le Doigté du Violoncelle".
Avete proposto un altro pezzo di autore francese poco noto, il Concerto "La Paix" di Michel Pignolet de Montéclair...
Interviene Brüggen: "Non è da molto che l'abbiamo in repertorio. E' un'opera interessante soprattutto dal punto di vista storico. In quel periodo, nel primo '700, in Francia si scrivevano molti pezzi del genere, dove il compositore immagina una specie di piccola opera lirica con suoni di pace e di guerra, sonno, tumulti, feste campestri e cose del genere. A quei tempi pensavano di essere in grado di strumentare perfino la voce; chiaramente non è possibile, ma era un'idea tipica dell'epoca".
Visto che avete ancora arricchito il vostro repertorio in trio, pensate magari a nuove incisioni discografiche? Ormai da molti anni non realizzate dischi insieme.
E' Leonhardt a rispondere che lo escludono, che per nuove incisioni manca proprio il tempo, vista l'estesa attività di ciascuno dei tre. Che d'altronde il loro non è un vero trio, e la riprova è che non ha nemmeno un nome. Che lui, Bylsma e Brüggen si conoscono da molto tempo e qualche volta decidono di suonare assieme, e tanto basta.
C'è fra di voi uno in particolare che si assume il ruolo di mediatore?
Sorridono e smentiscono energicamente. Leonhardt continua spiegando che quando suonano in trio praticamente non discutono. Guardano la partitura insieme e, se il collega che in quel pezzo è protagonista vuol fare una cosa in un certo modo, gli altri si adeguano. In tutti i piccoli ensemble, dice, è così; ci si adatta. Bylsma interviene a bassa voce: "Viva la musica d'assieme. Abbasso i direttori". Gli altri ridono.
Ma lei, Bylsma, non ha mai pensato a dirigere?
"No, mai, non voglio nemmeno provare".
E' l'unico dei tre, visto che non solo Brüggen lavora ormai soprattutto come direttore, ma anche Leonhardt si è prodotto diverse volte sul podio.
Frans Brüggen, lei ha iniziato dirigendo la sua orchestra di strumenti originali e poi, in diverse occasioni, è passato sul podio di orchestre "normali". Lo stesso percorso hanno seguito altri illustri nomi della musica antica come Harnoncourt. E' il segno di un modo diverso, meno rigido, di interpretare il credo filologico?
"Ha visto sui giornali di questi giorni le foto del corpo imbalsamato di Lenin? Ecco, una volta l'interpretazione della musica antica era un po' così. Ora è diversa, è come il corpo di un soldato in guerra, vivo, che si può toccare. Il fatto è che si parla tanto di autenticità, ma l'autenticità non esiste". Interviene Bylsma: "Autentica è una cosa che ti tocca. La musica tocca sempre nella stessa maniera, e una pagina di Perotin da questo punto di vista è come un pezzo dì Stockhausen. Quello che voglio dire è che il modo in cui si suona di per sé non è affatto importante".
Ecco la risposta alle accuse che in passato sono state fatte a chi come voi seguiva la strada dell'esecuzione filologica: accuse di eccessiva speculazione intellettuale, di mancanza di calore e di adesione alle vere ragioni espressive della musica.
Ridono. Evidentemente si tratta di un tormentone che li perseguita da decenni. "E' vero risponde, Brüggen, "cose del genere sono state dette, vengono ancora dette da molte persone ostili a questo modo di far musica".
Ancora? Credevo che fossimo un po' più avanti, in quanto a tolleranza.
"Ah no", insiste Bylsma, "si figuri. La stampa internazionale, per la maggior parte, è ancora contraria. Tanti grandi, famosi critici non capiscono niente... è per questo che sono famosi".
Eppure c'è stata una sorta di normalizzazione. All'inizio - e ancora pochi anni fa se ci riferiamo all'Italia, che è stata un po' il fanalino di coda - la musica preclassica, soprattutto se eseguita secondo certi principi, era qualcosa di nuovo, in qualche modo un po' fuori dalle regole, e i suoi esecutori avevano un impegno forte, speciale. Ora che è più accettata, mi chiedo se non si corra anche un rischio di banalizzazione; se non possa nascere anche in campo filologico una generazione di esecutori meno motivati, propensi alla routine.
"E' senz'altro un rischio", conferma Bylsma. "Non è un problema per noi, però", sorride, "semmai per i giovani che si stanno formando adesso". Leonhardt considera molto positivamente il nuovo stato delle cose: vede infatti che ci sono molte più proposte, e che ormai la situazione è quasi analoga a quella della musica romantica; esistono, cioè, esecutori buoni e meno buoni e il pubblico ha finalmente la possibilità e la capacità di scegliere. Una volta, dice, non era così: vent'anni fa nel campo della musica antica si ammirava tutto, qualsiasi esecutore veniva applaudito dagli appassionati; ora invece si hanno possibilità e criteri di scelta ed è una cosa buona, positiva. E, concludono i tre, sarà vero che per certi versi sulle questioni legate alla musica antica l'Italia è arrivata per ultima, "ma per altri versi non è vero, non è affatto stata l'ultima. Non lo è mai stata, soprattutto, per la qualità del pubblico".
Patrizia Luppi (Musica Viva, Anno XVI n.2, febbraio 1992)
Nessun commento:
Posta un commento