Delman che dirige l'Orchestra Rai di Torino in un programma tutto ciaikovskiano: Romeo e Giulietta e Quinta Sinfonia. Nella memoria, due sensazioni: la prima è quella di aver raramente ascoltato quell'orchestra suonare con tale luminosità, precisione e sensibilità (tanto da scoprire quanto, in Romeo e Giulietta, contino i colori prima ancora che le figure melodiche, per resuscitare tutto quel mondo, resuscitarlo fino all'estremo di far riudire - miracolo - il fruscio della veste di Giulietta - che è chiaro, se si dovessero salvare cinque rumori dal silenzio terminale di una qualche apocalisse, uno dei cinque sarebbe, certo, il fruscio della veste di Giulietta). Seconda sensazione: Delman dirige Ciaikovsky come se nessuno, prima, l'avesse ancor ascoltato: prima della catastrofe del suo successo, prima della sua sistematica e progressiva mutazione in jingle per vendere lacrime, in colonna sonora di romanticismi d'accatto, in lubrificante per gratuite commozioni. Ci deve pur esser stato un istante in cui la musica di Ciaikovsky è stata eleganza innocente, autentico scivolamento dei sentimenti, nobile danza di commiato... Delman mette in scena quell'istante.
Immagino che riesca ad ottenere simile magia grazie alla somma di tanti istintivi e sapienti gesti interpretativi: dalla scelta dei tempi (poco rigida ma mai manierista), alla cura nel cesello del particolare, alla certosina creazione di un "suono" particolare. Ma sento di poter spiegare consapevolmente solo uno dei suoi trucchi: il modo in cui porge le più ritrite folate melodiche ciaikovskiane. A loro sì appoggiano, i direttori mediocri, concedendole senza pudore alla fame del pubblico e guadagnandosi così facili entusiasmi. Delman, lui, le nasconde. 0 meglio fa qualcosa di ancora più sottile, che occorre spiegare. C'è, soprattutto nel Ciaikovsky della Sinfonia, una rudimentale dialettica che tiene insieme il tutto: il respiro perfetto e compiuto dei grandi gesti melodici e il tentennante logorio strumentale che le prepara, le attende, le annuncia. Secondo una logica tanto ovvia quanto difficilmente contestabile, la maggior parte degli interpreti fa cadere il baricentro del discorso musicale (e quindi dell'emozione) sul momento "forte" dell'escursione melodica facendo regredire tutto il resto a materiale gregario e subordinato. Delman capovolge questo rapporto. Carica di intensità e di vitalità teatrale tutto il materiale sonoro che di solito è considerato come interlocutorio, lo trasforma in un ragionato edificio di frammenti e lo presenta come il momento di massimo sforzo creativo, della composizione: quei lunghi istanti di frizione tra l'immaginazione e la realtà del materiale sonoro diventano il gesto "forte" del discorso ciaikovskiano, il luogo in cui esso produce l'immagine di un mondo: disperso eppur non sconfitto, lacerato ma ancora sempre coerente, impotente eppur attaccato con feroce ostinazione ai frammenti del proprio desiderio. Nell'elaborazione di quel mondo, la macchina orchestrale compie il massimo dello sforzo, gira al massimo della sua potenza: e in quella performance cristallizza il nocciolo dell'alchimia ciaikovskiana. E a quel punto potrebbe anche non esserci più null'altro: quel che conta, c'è già tutto. Ma una cosa succede: che al culmine della sua fatica, quando finalmente stringe ciò che cerca, l'orchestra di Delman smette di suonare, si lascia andare in folle, ammaina le vele e si concede alla corrente: e lì, come il silenzioso scivolare oltre il traguardo di una barca che ha ormai vinto, arrivano da lontano le mitiche, irresistibili folate melodiche del Ciaikovsky più amato. Arrivano da sé, come se evaporassero dallo sfinimento dell'orchestra, leggere e commoventi come lettere arrivate dopo la morte di chi le ha scritte, nobili come medaglie alla memoria. Quando a dirigere sono altri, si impennano come volitivi e solenni trionfi sonori. Le dirige Delman e sono note in discesa, musica che reclina il capo e sottovoce lascia scivolare segreti scaduti.
Alessandro Baricco
(Musica Viva, Anno XVI n.1, gennaio 1992)
Nessun commento:
Posta un commento