La stessa tecnica si ritrovava in Wagner, Mahler, Bruckner: il che conferma quanto genio formale ci fosse in Puccini.
La bohème non è "Che gelida manina" e "Mi chiamano Mimì". Tosca non è 'Vissi d'arte" ed 'E lucevan le stelle". Detto altrimenti: Puccini non è Puccini solo in virtù d'una manciata di irresistibili blockbusters da fischiettare sotto la doccia. A garantirgli la sopravvivenza sulle tavole del palcoscenico è piuttosto la capacità di inchiodarci per un'intera serata allo schienale della poltroncina, e d'irretirci, atto dopo atto, in una trama senza smagliature di gesti, musica e parole. E tuttavia, sono occorsi decenni per sganciarlo dall'immagine di cinico e facile 'praticone' delle scene teatrali. E' ben vero che il Lago (di Massaciuccoli) ispirava al lucchese la caccia alle folaghe e ai beccaccini, piuttosto che le centinaia di pagine nelle quali Wagner, esule su altro Lago (quello di Zurigo), aveva messo a fuoco la sua riflessione su Opera e dramma. Eppure è proprio una lucida e sofisticata visione della forma drammatico-musicale a far giganteggiare Puccini nel panorama dell'opera italiana postunitaria. Nei paraggi del suo primo grande anniversario (1958), René Leibowitz e Mosco Camer additarono indipendentemente l'uno dall'altro un'identica architettura a quattro 'tempi' sinfonici nei primi atti di Manon Lescaut e Turandot - le due opere che (a distanza di trent'anni) incorniciano il canone pucciniano. La scoperta non era esente da ingenuità, eppure fu tra gli inneschi di un'attenzione crescente per le strutture del teatro di Puccini. Ai giorni nostri, Steven Huebner si concentra su un dispositivo all'apparenza elementare: la pratica delle 'cornici', ovvero il ritorno di certi materiali tematici a inquadrare, racchiudere porzioni più o meno ampie del flusso musicale. Luso di questi 'telai sonori' (talvolta incassati gli uni negli altri) è duttile e inesauribile: attraverso di essi Puccini modula la nostra percezione degli snodi del dramma. Ve ne sono di ogni scala: si va dalla citazione della bandiera a stelle e strisce che cinge di eloquente patriottismo l'aria introduttiva di Pinkerton (Madama Butterfly, I), all'Allegro dissonante che incornicia l'episodio di Benoit (Bohème, I), fino ad arrivare a quelle due enunciazioni del tema della 'principessa sanguinaria' che delimitano come massicci pilastri il primo 'tempo' dell'atto inaugurale di Turandot, o addirittura al gesto desolato che chiude a cerchio l'intero atto IV di Manon Lescaut. Prospettive ancora più intriganti ha recentemente dischiuso James Hepokoski analizzando le 'rotazioni' musicali di Suor Angelica: dalla notizia della "ricca berlinw", la partitura è infatti saturata dalla ripetizione ciclica di quattro blocchi musicali, che tracciano il destino della protagonista fino all'ambiguo miracolo conclusivo. La stessa tecnica, incidentalmente, fa bella mostra di sé in Wagner, Mahler o Bruckner. Non è poco: finalmente cominciamo a trovare al genio formale di Puccini interlocutori adeguati.
di Riccardo Pecci ("il giornale della musica", Anno XXIV, n.254, dicembre 2008)
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