Nella ricchissima galleria dei ritratti che compongono la biografia mussoliniana, quello dell’appassionato cultore di musica classica e violinista per diletto occupa uno spazio marginale ed è sconosciuto ai più. La scarsa divulgazione di questo inconsueto duce musico non è solo il prodotto del limitato interesse rivolto dalla saggistica all’argomento, ma è anche il non meno importante riflesso di un accostamento che nei contenuti e nei richiami appare quantomeno inusitato. Chi mai, evocando Mussolini, se lo figurerebbe alle prese con un violino o assorto ad ascoltare quartetti di Beethoven? Cosa si può pensare di più lontano dal fascismo, dalla violenza che ne era anima e nutrimento, dall’armamentario di teschi, manganelli e pugnali, dalla mistica del «credere obbedire combattere» o dai bellicosi proclami del suo demiurgo? La musica, senza dubbio, il linguaggio universale per eccellenza, l’arte che con maggior efficacia sa raggiungere il cuore di tutti gli uomini e, proprio per questo, il vettore meno adatto per messaggi politici, a maggior ragione se imbevuti di aggressiva intolleranza. Ma, paradossalmente, tanto profondo è l’abisso che parrebbe dividere - e non solo in un accademico esercizio di associazioni mentali - il duce del fascismo dall’armonioso metalinguaggio, tanto forte, travolgente e fecondo fu il legame tra Mussolini e la musica. Siamo di fronte a un Mussolini minore? A prima vista il dubbio potrebbe apparire legittimo e sicuramente i momenti di intimità con il violino così come la sensibilità o i gusti musicali non possono neanche lontanamente essere avvicinati per importanza a scelte e azioni che hanno segnato i destini della nazione marcandone la vita ben oltre il Ventennio. Tuttavia anche dall’analisi di questo Mussolini poco conosciuto si possono trarre indicazioni che contribuiscono a restituire un’immagine ancor più completa e a tutto tondo del dittatore, svelando i meccanismi che contribuirono alla costruzione del suo mito e le contraddizioni che incrinavano la lucente facciata del regime fascista. In altri termini, la marginalità che il violino del duce parrebbe ben meritare se ridotto a mero addobbo o a ennesimo episodio di un’infinita aneddotica, cessa di esser tale nel momento in cui si fa di questo violino un ulteriore e imprevedibilmente efficace strumento di lettura, un aspetto in grado di evidenziare e confermare elementi interessanti, anche se poco visibili, presenti in quella complessa e composita miscela che fu l’Italia del Ventennio. L’amore di Mussolini per la musica infatti, fu inserito a pieno titolo nel processo mitopoietico messo in opera per costruire e consolidare quel culto della personalità che avrebbe fatto del duce l’imprescindibile chiave di volta e l’insostituibile incarnazione del fascismo. Una chiave di volta che rimossa il 25 luglio 1943 avrebbe comportato senza via d’uscita il crollo del regime; un’incarnazione fondamentale per comprendere come gli ultimi fuochi di Salò non avrebbero mai potuto ardere senza il magico carisma, la capacità di catalizzare emozioni ed entusiasmi che ancora emanava da quel capo al tramonto. Nella "fabbrica del consenso" il peso assunto da elementi irrazionali rivelatisi nella percezione del duce come mito fu tutt’altro che secondario e rappresentò un complemento essenziale alle motivazioni più oggettivamente tangibili che a quel consenso potevano concorrere: dalla "pacificazione" nazionale al ritorno dell’impero sui «colli fatali di Roma», dalle bonifiche pontine ai treni proverbialmente in orario. Indipendentemente dalla questione se questo culto fosse stato imposto attraverso un’efficace macchina propagandistica o fosse già presente sotto forma di desiderio latente e irrealizzato, di attesa messianica in una società bramosa di nuovi «capi selvaggi», esso rappresenta un sigillo essenziale dell’esperienza fascista. Fra gli strumenti che Mussolini aveva a disposizione per diffondere e far prosperare il suo mito («Il capolavoro di Mussolini non è l’Italia fascista ma Mussolini stesso», aveva intuito con perspicacia Curzio Malaparte già nel 1926) uno dei più originali fu certamente quella sorta di lanterna magica che modificava e moltiplicava la sua immagine, creando un seducente richiamo adattato di volta in volta in funzione delle molteplici categorie e dei multiformi vissuti che animavano la società italiana. L’immagine di principesco protettore della musica insieme a quella di appassionato esecutore ed ascoltatore finì così per campeggiare tra le tante altre (contadino, ex combattente, intellettuale, emigrante, giornalista, padre di famiglia, grande amatore, sportivo, condottiero, e molte altre ancora) proiettate da questa lanterna magica, manovrata ad arte da un Mussolini illusionista e seduttore di folle, incredibilmente somigliante alla grottesca metafora del moderno dittatore che nel 1930 - in tempi di osannanti e non solo italiche acclamazioni - Thomas Mann aveva celato nella surrealtà favolistica del racconto breve Mario e il Mago.
Un altro aspetto del politico che l’amante della musica può svelarci, evidenziando e confermando prassi peculiari nella gestione del potere, è rappresentato dal ruolo di arbitro e moderatore assunto da Mussolini nell’ambito delle dispute che opponevano i compositori d’avanguardia a quelli più tradizionalisti; unico vero punto d’incontro tra gli "armoniosi" contendenti era infatti una entusiastica fedeltà al duce che veniva ricambiata da favori e interessamenti dispensati a tutti indifferentemente, confermando quanto fosse contraddittoria, e non solo in campo musicale, la politica culturale del regime e quanto riflettesse l’ambigua e mai risolta convivenza tra l’anima conservatrice e quella rivoluzionaria del fascismo (contraddittorietà e ambiguità che peraltro si tradussero per gli artisti italiani in una libertà - solo ed esclusivamente "operativa" beninteso - tanto più straordinaria se raffrontata al soffocante clima censorio patito dai loro colleghi nella Germania di Hitler o nell’Unione Sovietica di Stalin).
Ma se si procede nell’osservare il duce attraverso questa lente pentagrammata analizzando i suoi rapporti con la musica, emerge anche la maniacale e per certi versi patologica vocazione all’accentramento che costituì una cifra inconfondibile del mussolinismo. Forse sull’onda della smisurata ammirazione per quell’archetipo di accentratore - e a ben vedere anche di moderno capo dai connotati mitici - che fu Napoleone, Mussolini, fin dai primi anni di governo, si interessò in prima persona ad ogni minimo dettaglio attinente la vita della nazione in un delirio onnicomprensivo che, dal pittoresco eclettismo degli inizi, si tramutò inesorabilmente in maldestro pressappochismo proprio in occasione delle svolte che avrebbero segnato tragicamente la storia d’Italia .
La musica fu naturalmente uno dei campi privilegiati per l’azione diretta di Mussolini. Il violinista di Palazzo Venezia, unico uomo di Stato italiano (gliene va dato atto) ad occuparsi di quest’arte con passione, competenza e assiduità, agì a trecentosessanta gradi curando in prima persona i rapporti con compositori ed esecutori, promuovendo e patrocinando la nascita di festival (il Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia e il Maggio Musicale fiorentino) ed enti lirici, subordinandone al proprio placet gestione e programmazione artistica, elargendo protezione e consigli ma anche favori di più immediato riscontro: dal lancio di giovani talenti alla creazione di cattedre ad personam, dall’autorevole e autoritario interessamento per la messa in scena di nuove opere alla scelta dei compositori che avrebbero varcato l’ambitissima soglia dell’Accademia d’Italia.
«Il Fascismo [è] un grande orchestra, dove ognuno suona uno strumento diverso». Nella sua «resistibile» ascesa, Mussolini si era impadronito di podio e bacchetta dirigendo quell’orchestra dalla rivoluzionaria ouverture squadrista al truce finale della guerra civile passando per le «oceaniche» e fastose sonorità di un regime all’apice del consenso. Ma anche nel clangore e nei fortissimo delle strombazzature littorie, si cominciò a udire qualche suono stonato o fuori tempo, qualche nota non scritta sulla nera partitura del capo, in un crescendo che ricorda il coro degli oppressi fatti irrompere dal sovversivo lacchè («Quel Gérard!... L’ha rovinato il leggere!») a troncare le incipriate gavotte nel primo atto di Andrea Chénier.
Le stecche, le entrate fuori tempo, venivano da quei pochi italiani che ben prima del 1943 avevano testimoniato con la vita, il carcere, il confino, l’esilio o anche "solamente" con l’autodistruzione professionale, il loro coraggioso No al fascismo. Questa piccola e nobile orchestra era idealmente guidata da uno tra i più grandi direttori di tutti i tempi: Arturo Toscanini. Il duello tra i due mitici maestri, infiammato ulteriormente dalle loro molteplici affinità (sociali, culturali, regionali e non ultimo caratteriali) si caricò di significati e valenze che andavano ben oltre la vicenda privata dei contendenti. Toscanini e Mussolini finirono così per rappresentare i due voti inconciliabili di un’italica erma bifronte, campioni di quelle visioni antitetiche che si erano contese l’eredità risorgimentale e l’egemonia sul compimento del processo di unificazione nazionale fra crescita democratica e autoritarismo, maturazione politica e uso strumentale delle masse, Stato di diritto e Stato di polizia.
L’11 maggio del 1946, dopo lunghi anni di volontario esilio, Toscanini tornava a dirigere nella sua Italia liberata, nella sua Scala ricostruita. Mussolini e la sua orchestra non erano più in cartellone e tre settimane più tardi l’eco di quello storico concerto avrebbe tenuto a battesimo la neonata Repubblica.
Un altro aspetto del politico che l’amante della musica può svelarci, evidenziando e confermando prassi peculiari nella gestione del potere, è rappresentato dal ruolo di arbitro e moderatore assunto da Mussolini nell’ambito delle dispute che opponevano i compositori d’avanguardia a quelli più tradizionalisti; unico vero punto d’incontro tra gli "armoniosi" contendenti era infatti una entusiastica fedeltà al duce che veniva ricambiata da favori e interessamenti dispensati a tutti indifferentemente, confermando quanto fosse contraddittoria, e non solo in campo musicale, la politica culturale del regime e quanto riflettesse l’ambigua e mai risolta convivenza tra l’anima conservatrice e quella rivoluzionaria del fascismo (contraddittorietà e ambiguità che peraltro si tradussero per gli artisti italiani in una libertà - solo ed esclusivamente "operativa" beninteso - tanto più straordinaria se raffrontata al soffocante clima censorio patito dai loro colleghi nella Germania di Hitler o nell’Unione Sovietica di Stalin).
Ma se si procede nell’osservare il duce attraverso questa lente pentagrammata analizzando i suoi rapporti con la musica, emerge anche la maniacale e per certi versi patologica vocazione all’accentramento che costituì una cifra inconfondibile del mussolinismo. Forse sull’onda della smisurata ammirazione per quell’archetipo di accentratore - e a ben vedere anche di moderno capo dai connotati mitici - che fu Napoleone, Mussolini, fin dai primi anni di governo, si interessò in prima persona ad ogni minimo dettaglio attinente la vita della nazione in un delirio onnicomprensivo che, dal pittoresco eclettismo degli inizi, si tramutò inesorabilmente in maldestro pressappochismo proprio in occasione delle svolte che avrebbero segnato tragicamente la storia d’Italia .
La musica fu naturalmente uno dei campi privilegiati per l’azione diretta di Mussolini. Il violinista di Palazzo Venezia, unico uomo di Stato italiano (gliene va dato atto) ad occuparsi di quest’arte con passione, competenza e assiduità, agì a trecentosessanta gradi curando in prima persona i rapporti con compositori ed esecutori, promuovendo e patrocinando la nascita di festival (il Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia e il Maggio Musicale fiorentino) ed enti lirici, subordinandone al proprio placet gestione e programmazione artistica, elargendo protezione e consigli ma anche favori di più immediato riscontro: dal lancio di giovani talenti alla creazione di cattedre ad personam, dall’autorevole e autoritario interessamento per la messa in scena di nuove opere alla scelta dei compositori che avrebbero varcato l’ambitissima soglia dell’Accademia d’Italia.
«Il Fascismo [è] un grande orchestra, dove ognuno suona uno strumento diverso». Nella sua «resistibile» ascesa, Mussolini si era impadronito di podio e bacchetta dirigendo quell’orchestra dalla rivoluzionaria ouverture squadrista al truce finale della guerra civile passando per le «oceaniche» e fastose sonorità di un regime all’apice del consenso. Ma anche nel clangore e nei fortissimo delle strombazzature littorie, si cominciò a udire qualche suono stonato o fuori tempo, qualche nota non scritta sulla nera partitura del capo, in un crescendo che ricorda il coro degli oppressi fatti irrompere dal sovversivo lacchè («Quel Gérard!... L’ha rovinato il leggere!») a troncare le incipriate gavotte nel primo atto di Andrea Chénier.
Le stecche, le entrate fuori tempo, venivano da quei pochi italiani che ben prima del 1943 avevano testimoniato con la vita, il carcere, il confino, l’esilio o anche "solamente" con l’autodistruzione professionale, il loro coraggioso No al fascismo. Questa piccola e nobile orchestra era idealmente guidata da uno tra i più grandi direttori di tutti i tempi: Arturo Toscanini. Il duello tra i due mitici maestri, infiammato ulteriormente dalle loro molteplici affinità (sociali, culturali, regionali e non ultimo caratteriali) si caricò di significati e valenze che andavano ben oltre la vicenda privata dei contendenti. Toscanini e Mussolini finirono così per rappresentare i due voti inconciliabili di un’italica erma bifronte, campioni di quelle visioni antitetiche che si erano contese l’eredità risorgimentale e l’egemonia sul compimento del processo di unificazione nazionale fra crescita democratica e autoritarismo, maturazione politica e uso strumentale delle masse, Stato di diritto e Stato di polizia.
L’11 maggio del 1946, dopo lunghi anni di volontario esilio, Toscanini tornava a dirigere nella sua Italia liberata, nella sua Scala ricostruita. Mussolini e la sua orchestra non erano più in cartellone e tre settimane più tardi l’eco di quello storico concerto avrebbe tenuto a battesimo la neonata Repubblica.
di Stefano Biguzzi ("Musicalmente", Anno 4, Numero 1, Febbraio 2008)
2 commenti:
E' certamente un saggio recente, l'autore aveva già pubblicato le stesse cose in un libro (ed. Utet) del 2003
Vero vero
Posta un commento