Nonostante il 500tenario sontuosamente celebrato, Cristoforo Colombo di Alberto Franchetti è un grande assente italiano. L'opera, frutto di una commissione del Teatro Carlo Felice (i genovesi s' erano rivolti in prima battuta a Verdi, che li aveva indirizzati al trentenne compositore torinese) venne rappresentata il 5 ottobre 1892. Seconda d'autore, Cristoforo Colombo era al centro di una stagione straordinaria: concerti, balli, Otello di Verdi e Wally di Catalani. L'ingegnosa e romanzesca narrazione librettistica della vicenda colombiana, suddivisa in tre atti e un epilogo (Salamanca 1487, Oceano 1492, Xaragua 1503, Medina del Campo 1506) e due parti (La scoperta, La conquista), era di un altro giovanotto di belle speranze, Luigi Illica, che aveva vinto un concorso bandito per l'occasione. Restaurato e modernizzato (con illuminazione elettrica e riscaldamento) il Carlo Felice festeggiò insieme l'eroe locale, i 400 anni della scoperta dell'America, se stesso, e il presente d'una scuola musicale nazionale che esisteva oltre Verdi, e che in ambito interpretativo contava già su Toscanini (subentrò a Mancinelli nella direzione del Colombo), di Franchetti sincero sostenitore. Nonostante le svariate e ghiottissime coincidenze, il Carlo Felice d'oggi ha ignorato il dovere d'una riesumazione. Cristoforo Colombo è stato eseguito in vari teatri del mondo (a Francoforte, l'anno scorso, è stata realizzata anche una pregevole edizione discografica) mentre l'Italia, affetta da provincialismo culturale, ha dato spazio soltanto a una riduzione per marionette, seppure insigni, il cui merito spetta unicamente ai Colla che hanno voluto così allargare il loro repertorio e la diffusione popolare della sontuosa opera. E' toccato al festival meno futile d'Europa di farci riflettere a esecuzione calda su Colombo. La grandiosa partitura, proposta nell'edizione ridimensionata da Toscanini, è stata presentata al Festival di Radio France & Montpellier, che nella sezione opera quest'anno ha proposto l'Aida nella versione 1871 del Cairo, l'Edipo a Colono di Sacchini, Jephte di Haendel, Edgar di Puccini, La prova di un'opera seria di Gnecco e la prima di Le chateau des Carpathes di Philippe Hersant. Con un protagonista di straordinaria intensità e classe (Paolo Coni), una compagnia di canto equilibrata e efficiente (Mariana Cioromila, Michèle Lagrange e Claudia Clarich, quindi Claudio Di Segni, Daniel Galvez-Vallejo, Laurent Naouri, Gabriele Monici e l'opaco Enrich Knodt) e la lettura appassionata di Gianfranco Masini (neodirettore della talentosa Filarmonica locale) che ha aizzato l'immaginazione sonora potente del Coro di Radio France, Colombo non poteva lasciare indifferenti. L'opera è affascinante nella storia. La musica di Franchetti, un compositore di famiglia abbiente che aveva scelto di studiare a Monaco e Dresda, rappresenta un documento notevole delle tendenze operistiche più avanzate della generazione attiva tra Verdi e il verismo. In Cristoforo Colombo, complice una sceneggiatura librettistica non convenzionale e attratta dalle 'deviazioni' narrative scapigliate, troviamo sintetizzata con più sostanza compositiva e consapevolezza teatrale la lingua di Gioconda e di Mefistofele, per citare gli unici due superstiti del repertorio epigonico verdiano. La spregiudicatezza musicale di Franchetti è evidente nella concezione delle scene di massa (non il solito concertato, ma pagine sinfonico-corali di amplissimo respiro, tumultuose e avvincenti nell'intrico abile delle parti: il secondo atto è esemplare), nella strumentazione che impiega a fini espressivi gli impasti piuttosto che i temi, nell'utilizzazione d'una vocalità flessibile, non congelata nel declamato né ancora spostata verso l'urlo verista. Il taglio dell'opera ci ricorda un grand-opèra postumo: monumentali quadri d'assieme, un atto (il terzo) disutile alla vicenda del baritono santo navigatore ma che dà corpo a una fugace vicenda amorosa (con regolamentare duetto tenore-soprano) e una rievocazione esotica di poco interesse drammatico ma sagace invenzione turistico-pompieristica, mentre negli altri atti - prologo e epilogo alla scoperta del Nuovo Mondo - il gesto cinematografico del libretto passa rapidamente dalla descrizione realistica e particolareggiata all' epica in campo lungo. Nelle pagine collettive e in quelle solo orchestrali, Franchetti si rivela originale, liberato dai fardelli della tradizione operistica d'imitazione verdiana. Un segno di sincera emozione viene poi dal tratteggio del malinconico e solitario Colombo, che culmina nel vaneggiamento che occupa il quarto atto, come nel Torquato Tasso donizettiano. Epico ma mesto, a tratti lugubre, Colombo è un protagonista a tutto tondo: inquieto, fatalista ma metafisico. Calato in una sorta di esaltazione panica dell' impresa rivelata in sogno e in adorazione (ricambiata) di Isabella: la notizia della sua morte gli toglie il senno. E l'ultima scena, tenuta in equilibrio tra rievocazioni eroiche e ondate nostalgico-emotive sospinte regolarmente come il tema musicale marino che le tende, è un saggio di grande teatro. Quasi verdiano.
Angelo Foletto (Repubblica, 11 agosto 1992)
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