Federico Maria Sardelli (1963) |
Chi, per sapere qualcosa sulla biografia di Federico Maria Sardelli, si imbattesse in quella leggibile sul sito del Vernacoliere, la storica rivista satirica livornese di cui il Maestro è prestigiosa firma da molti anni, faticherebbe a vedere in lui l'esperto studioso vivaldiano, il musicologo e il raffinato direttore d’orchestra. Sardelli è flautista, compositore, disegna-tore, direttore e scrittore: una moderna ipostasi dell’homo faber cinquecentesco, potrei dire, pur temendo - con questa pomposa definizione - di finire bonariamente trafitto dalla sua caustica penna! Penna, tra l’altro, che ha appena dato alle stampe, per Sellerio (304 pagine, 14 euro), un romanzo dal titolo L’affare Vivaldi, un vero gioiello che ricostruisce la storia - quasi completamente reale - del ritrovamento dei manoscritti di Vivaldi, fra la Venezia dei decenni successivi alla morte del Prete Rosso e la Torino del Ventennio, in cui ha luogo la. preziosissima opera di riscoperta degli stessi ad opera di due studiosi appassionati, Gentili e Torri, musicologo dell’Università di Torino il primo, e direttore della Biblioteca Nazionale della città il secondo. Ed è da questo libro che parte la mia conversazione con il Maestro, impegnato a Valencia nelle prove dell’opera Narciso di Domenico Scarlatti.
Da cosa nasce l’idea di un libro del genere?
Le vicende che vi sono narrate sono note, nei documenti e nelle biografie vivaldiane, da tempo: ma la storia era cosi bella e rocambolesca, così - per l’appunto - romanzesca (pensi ai due bambini ebrei morti, nel cui nome le collezioni si riuniscono!) che non volevo scriverla in forma di saggio, con tanto di documenti originali, lettere, telegrammi, ritagli di giornali e un rigoroso apparato di note. Ho creduto che la forma romanzo mi avrebbe garantito un pubblico molto maggiore, e quindi mi sono anche divertito a ricreare un lessico para-storico, che riecheggia Goldoni,
Con tanto di supercazzola ante litteram!
Beh, di Francesco Vivaldi (fratello di Antonio) non si sa quasi nulla, eccettuato l’incredibile episodio in cui fa vedere in pubblico il pene: e quindi ho pensato che un tipo del genere potesse parlare come un Conte Mascetti dell'epoca!
Mi è parsa abbastanza ambigua, nel romanzo, la figura di Casella: come valuta storicamente il suo lavoro di recupero dei "classici italiani"?
Nel testo è un attore secondario, che appare alla fine nella "scuderia" del Conte Chigi Saracini: spero che non ne sia venuto fuori male, perché ebbe un'importanza certamente notevole, benché il suo approccio alle musiche italiane riscoperte fu equivoco, mancandogli gli strumenti paleografici per capire i manoscritti. All’epoca c'erano due fazioni, per così dire, che rispecchiavano altrettanti approcci verso questo repertorio: gli uni, guidati da Malipiero, sostenevano un’esecuzione fedele, "purista", gli altri, invece, fra cui Casella e Respighi, preferivano adattare le composizioni agli strumenti e alle forme moderne, ritenendo che la loro scrittura originale non sarebbe stata capita.
Che è anche la posizione, nel romanzo, di Ezra Pound...
Certamente: Pound fu, in musica, un totale dilettante, che vedendo i righi vuoti pensava che andassero riempiti con improvvisazioni!
Senza tornare a quei remoti esperimenti, è pero cambiato molto, nell'approccio al repertorio antico e barocco, negli ultimi 30-40 anni: penso al suo Orlando furioso in paragone con quello di Scimone! Ma cosa è cambiato, soprattutto?
Io sono cresciuto ascoltando i Musici, i Solisti Veneti, i Virtuosi di Roma, che hanno svolto un`opera benemerita: non capisco, quindi, chi oggi critica o deride quei gruppi o le vecchie edizioni a stampa curate da Malipiero. Lo voglio ribadire: con tutti i limiti del caso, fu un’epoca gloriosa, caratterizzata dal fuoco della riscoperta, in cui l’Istituto Vivaldi sfornava una media di 3-4 partiture al mese! Negli anni ’70 si è poi cominciato capire che, senza considerare i trattati che illustravano le prassi esecutive, si sarebbe andati poco lontano: non contava più solo il cosa, ma anche il come suonare. E un approcciarsi all'indefinito, a una realtà che ci sfugge, poiché la macchina del tempo non ce l’ha nessuno: ed è quello che anch’io con il mio gruppo Modo Antiquo ho sempre cercato di fare, chiedendomi sempre, per qualsiasi repertorio - da Perotino ai Beatles - come la facevano in quell'epoca, cosa si aspettava il pubblico, qual era il gusto corrente.
Ed è questo, quindi, il senso della filologia.
Esattamente! Spesso si usa quella parola. in maniera sprezzante, intendendo qualcosa di freddo, polveroso, saccente, ma in realtà è la lente per interpretare qualsiasi musica, qualsiasi periodo storico.
La provoco: so che lei è allergico al termine Ba-Rock, ossia quella proposta un po’ ruffiana della musica antica con una prassi quasi isterica: cosa ne pensa?
La parola mi fa rizzare i capelli, è un atteggiamento che mi fa infuriare tanto è l’amore per quel periodo storico, la cura che metto nel cercare di capire, con la massima cautela e lo scrupolo dell'approccio storico, quanto non sopporto di vedere svillaneggiare questa musica in modo circense, per compiacere il gusto presente. Si sentono gruppi di musica antica che fanno commistioni con la new age, oppure che introducono continuamente effetti speciali come picchiettati d’arco e di legno, pizzicati, rallentando e accelerando, corone, accentuazioni improvvise: ma quello che fanno è pop, non musica antica! Deve essere chiaro, altrimenti è una truffa in commercio se fossimo in una pasticceria, i NAS li avrebbero già fatti chiudere, ma purtroppo non ci sono i NAS nella musica barocca!
I principi con cui affronta Vivaldi li applica anche nel repertorio più tardo, ad esempio con l'Orchestra Filarmonica di Torino di cui è direttore principale ospite?
Il tratto comune è l'interessarsi a cosa facevano, cosa mangiavano, di cosa godevano i contemporanei di quel compositore, ossia entrare in un gusto e in uno spirito: qual era il contesto, come veniva recepito un brano, come gli esecutori dell’epoca lo suonavano, cosa era per loro rottura e cosa tradizione e di tutto questo cerco di fare una "traduzione sonora".
Lei ha un ruolo chiave negli studi musicologici vivaldiani: qual è lo stato dell'arte?
Con il convegno veneziano del 2007 - momento storico della musicologia vivaldiana degli ultimi anni - Peter Ryom si è ritirato lasciandomi la "patata bollente" del catalogo vivaldiano: dico così perché il musicologo danese ci ha lavorato dal ’68 a quell’anno senza far trapelare nulla tra un aggiornamento del volume e l’altro. Potevano quindi passare 15 anni senza notizie ufficiali, cosa che io, in accordo con l’editore Breitkopf & Härtel, ho deciso di cambiare, pubblicando un bollettino annuale con le revisioni del catalogo. Una sorta di glasnost vivaldiana!
Lei ha anche un ricco catalogo come compositore (molte partiture sono disponibili su IMSLP) e il suo ultimo CD (recensito sul numero 263 di MUSICA) è un raffinato esercizio di stile alla maniera barocca: ma che senso ha oggi, non è un modo ingegnoso di sottrarsi ad un linguaggio contemporaneo?
Sarebbe un discorso molto lungo. Compongo da quando ho 11 anni, è una mia necessità interiore, e ho scritto tantissima musica, sia seguendo linguaggi contemporanei che à la maniére de: detto che non esiste un linguaggio contemporaneo, ma tante strade possibili, mi rendevo conto che la mia esigenza principale era di parlare ai miei contemporanei in maniera intelligibile. E se ogni volta mi creo un linguaggio che non è universalmente riconoscibile, mi precludo questa possibilità, mentre la koiné barocca funziona, veicola ancora emozioni, e mi è familiare. La domanda "che senso ha scrivere in una lingua morta" è lecita, ma ha maggior valore, per me, se questa lingua emoziona, comunica qualcosa.
Cosa distingue il suo complesso Modo Antiquo dai tanti, italiani e non, che frequentano lo stesso repertorio?
Sarebbe un discorso molto lungo. Compongo da quando ho 11 anni, è una mia necessità interiore, e ho scritto tantissima musica, sia seguendo linguaggi contemporanei che à la maniére de: detto che non esiste un linguaggio contemporaneo, ma tante strade possibili, mi rendevo conto che la mia esigenza principale era di parlare ai miei contemporanei in maniera intelligibile. E se ogni volta mi creo un linguaggio che non è universalmente riconoscibile, mi precludo questa possibilità, mentre la koiné barocca funziona, veicola ancora emozioni, e mi è familiare. La domanda "che senso ha scrivere in una lingua morta" è lecita, ma ha maggior valore, per me, se questa lingua emoziona, comunica qualcosa.
Cosa distingue il suo complesso Modo Antiquo dai tanti, italiani e non, che frequentano lo stesso repertorio?
Non mi piace fare confronti, né vorrei fare nomi di colleghi, ma la caratteristica principale, che poi coincide con la mia visione estetica, e l'aderenza non già al testo scritto - che nella musica barocca non è mai completo o esaustivo - ma a quella congerie di informazioni che vengono dalle branche più differenti, dalla pittura alla poesia, ai resoconti di viaggio. Insomma, l'attenzione al contesto, che produce esecuzioni più pulite, più classiche, aliene dall'effettismo facile.
Ma tutto il coté tagliente e caustico del vignettista e dell’autore del Vernacoliere in qualche modo finisce nella sua attività di musicista?
Sono due mondi completamente separati, quando dirigo al massimo faccio qualche battuta con l'orchestra, né mi metto a fare vignette su Vivaldi. Ma fare ridere in musica è difficilissimo e, forse, anche inutile.
Ma tutto il coté tagliente e caustico del vignettista e dell’autore del Vernacoliere in qualche modo finisce nella sua attività di musicista?
Sono due mondi completamente separati, quando dirigo al massimo faccio qualche battuta con l'orchestra, né mi metto a fare vignette su Vivaldi. Ma fare ridere in musica è difficilissimo e, forse, anche inutile.
intervista di Nicola Cattò ("Musica", n.267, giugno 2015)
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