Edwin Loehrer (1906-1991) |
L’attività che, dal 1936 al 1981, Edwin Loehrer (Andwil/SG, 1906 - Orselina, 1991) condusse con il Coro della Radiotelevisione della Svizzera italiana, nato e sviluppato sotto la sua direzione, è qualcosa che, grazie alle sue scelte, è sempre appartenuto al suo paese d’accoglienza. Creando dal nulla un complesso vocale e il suo repertorio, al giovane maestro svizzero tedesco sarebbe stato facile trapiantare su quel terreno vergine modelli culturali estranei. Reduce da severi studi di musicologia a Zurigo e a Monaco, ciò che Loehrer vi incorporò fu il rigore delle scelte (l’organizzazione ciclica dei programmi secondo il concetto di “monumenta”, “Denkmäler”, cioè di un’esemplarità storica e morale): le due lunghe serie di trasmissioni riunite sotto i titoli di “Monumenti musicali della polifonia vocale italiana” e “Rarità musicali dell’arte vocale italiana”, poste al servizio del ritrovamento di un filone culturale che, nelle innumerevoli e pregiate produzioni che hanno fatto la fama della radio luganese, oggi acquisiscono alla nostra coscienza e al nostro gusto la prospettiva storica necessaria a individuarle in una loro specifica ragion d’essere.
Più delle consacrazioni discografiche, dell’aver legato il nome di Lugano alla Società cameristica divenuta un punto di riferimento internazionale, più del fatto di aver indicato tra i primi le modalità interpretative di grandi autori del passato richiamati a nuova vita (Monteverdi soprattutto), il vero merito di Loehrer è stato quello di non aver mai deflesso da un compito che ha aiutato a chiarire il concetto dell’italianità a una regione di tradizione musicale scarsa e poco significante.
Giunto nella Svizzera italiana, Loehrer si rese immediatamente conto di poter fare da ponte fra due culture, fra quella italiana e quella tedesca all’avanguardia nello sviluppo dei metodi di indagine storica necessari alla restituzione di quel patrimonio. Egli svolse quindi un’azione pionieristica, indicando una linea di ricerca esemplare, se teniamo conto che l’Italia sarebbe giunta con estremo ritardo ad essere competitiva nell’ambito della riproposta esecutiva della propria musica antica.
In verità, per fare tutto ciò non bastava un’operazione d’innesto; occorreva coraggio, come ha sottolineato Lorenzo Bianconi ( “Rendimento di grazie a Edwin Loehrer” in: Bloc Notes n. 13 / 1986), “ci voleva del coraggio a trapiantare l’idea stessa di ‘monumento’, intesa come ‘ammonimento’ del passato storico alla posterità, come lascito e monito artistico ma anche morale e ideale rivolto al presente, in un mezzo antimonumentale come quello radiofonico e in un paese dal passato ben poco monumentale come il nostro”. Lo sforzo e la tenacia dell’uomo supplirono alle carenze delle condizioni in cui si trovò ad operare.
D’altra parte tra quei “monumenti” ha fatto notare Bianconi “c’erano poi cose per loro natura tutt’altro che monumentali, come le carnevalesche, giocose, ‘commedie armoniche’ di Adriano Banchieri e Orazio Vecchi, opere alle quali Loehrer è ritornato nelle sue ultimissime produzioni discografiche, roba dell’altro ieri, quasi le avesse covate e ricovate per trenta e passa anni, come per suggellare un suo ciclo interiore e per delibare tutta la vitalità che ancora racchiudono quei suoi ‘monumenti’ null’affatto statuari e così eccitatamente presenti davanti a noi, dentro di noi”.
In altre parole la visione dell’Italia da parte di Loehrer non fu mai a senso unico, anzi egli seppe scavare nel profondo come raramente capita di constatare.
In proposito mi piace riportare un aneddoto che egli mi confidò con discrezione e che ritengo illuminante, cioè la reazione del giovane maestro al primo contatto fisico con l’Italia, avvenuto parallelamente al suo arrivo in Ticino. Ciò che sembra si sia indelebilmente impresso nella memoria di Loehrer alla frontiera di Chiasso fu la figura impennacchiata di due carabinieri come allora si presentavano, che gli apparvero a un tempo come simboli dell’ufficialità e della severità dello stato e come arlecchini variopinti. In quel preciso momento, sosteneva Loehrer, compresi il significato della commedia dell’arte e il modo in cui essa ancora impregna la vita e l’arte italiane.
In verità, a decifrare i simboli non basta la loro chiarezza bensì anche la disposizione di chi li legge. La personalità di Loehrer è anche da considerare nella congiuntura che lo portò, in quanto allievo di Cherbuliez presso l’Università di Zurigo, a una tesi di laurea sulle messe di Senfl e in seguito a curarne l’edizione critica. Secondo Bianconi si trattava di una ricerca tutt’altro che neutra, collegandosi essa nell’ambito della rivendicazione svizzera di un compositore originario della Brisgovia, vissuto per un decennio dell’infanzia a Basilea ed entrato stabilmente alla corte imperiale di Massimiliano I. L’elvetismo da tempo strisciante, posto a confronto con la minacciosa ascesa del nazismo stava portando il nazionalismo elvetico (inteso come arma di difesa spirituale) alla più alta temperatura con precise conseguenze culturali, tra cui la questione della cittadinanza di Senfl veniva ad assumere portata non indifferente. Orbene Loehrer, nella sua tesi di laurea, dedicata a Senfl, ne usciva con un contributo lineare, sobrio, fedele al documento musicale e privo di implicazioni ideologiche. La stessa sua situazione di musicista di formazione cattolica, occupato intorno alla figura di uno dei primi compositori luterani della storia, è sintomatica di una posizione di spiazzamento (per usare il termine di Bianconi) che avrebbe per sempre accompagnato l’esperienza di Loehrer. Nel 1936 (anche per l’irrespirabile situazione politica a Monaco, dove era impegnato come curatore dell’edizione critica delle messe di Senfl), abbandonò il “compromettente” argomento “elvetico” per assumere l’incarico di dirigere a Lugano “un coro italiano in un paese di dubbia elveticità privo però di qualsiasi aggancio profondamente vissuto con la tradizione corale d’oltralpe né con quella canora d’Italia”.
Da allora Loehrer trovò la propria strada grazie al rifiuto di facili integrazioni, al fatto di organizzare ogni sua ricerca a partire dal distacco anziché dal coinvolgimento, nella maturazione solitaria di idee tanto più cariche d’intensità quanto più sottratte al contatto epidermico con il pubblico. Egli fu un artista unico nel suo genere, per essere riuscito ad emergere in virtù dell’esclusiva forza delle sue interpretazioni trasmesse via etere e attraverso il disco, poiché all’esperienza concertistica approdò solo dopo l’affermazione discografica all’inizio degli anni Sessanta, soprattutto in Francia e comunque con iniziative quantitativamente ridotte, percorrendo in pratica in senso inverso il cammino che vede i moderni interpreti lanciati dal concerto al disco. Ai tempi in cui non poteva esistere una radio senza propri apparati produttivi di musica (orchestre e cori) Loehrer creò ed assunse la guida di un coro radiofonico, avviando un’attività che paradossalmente lo confrontava con un pubblico di massa ma che, nella distanza fisica da questo pubblico, lo manteneva al riparo dal relativo condizionamento, dalla naturale interazione tra platea e podio che è tipica del concerto. La radio, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta (anche per l’uso politico che ne fu fatto), era un mezzo di comunicazione a senso unico, per certi versi demiurgico, che incuteva rispetto e che induceva a riverirne il messaggio. Non che Loehrer vi si arroccasse e non ne considerasse le potenzialità didattiche, poiché dei suoi primissimi anni a “Radio Monteceneri” è uno sceneggiato da lui concepito sulla vita di Monteverdi (tradotto e adattato da Guido Calgari) in cui quelle che furono sicuramente le sue prime interpretazioni corali del grande cremonese venivano presentate non già come brani inanellati in forma di concerto, bensì come vivace illustrazione sonora della vicenda umana del musicista recitata con attori, ecc. Ma la situazione che la RSI gli destinava, di organizzare il lavoro come una specie di laboratorio senza un preciso confine tra le prove e la trasmissione (più tardi tra le prove e la registrazione) dove il momento dell’esibizione non era distinto dalle fasi preparatorie, si avvicinava a una condizione di “musica riservata”, di pratica artistica coltivata fuori della portata di occhi indiscreti e con elevate ambizioni di arricchimento ed affinamento dell’espressione.
Tenendo presente le coordinate che fin da principio tracciarono lo spazio in cui veniva ad inserirsi la sua azione, risulta spontaneo e naturale che le sue scelte di programma cadessero sul repertorio rinascimentale e principalmente su un compositore quale Monteverdi, forse unico nella condizione di aver coniugato l’aristocratico ideale cortigiano (retaggio del passato) con la conquista del moderno linguaggio spettacolare. Di quella musica gli interessava la capacità di trasfigurare il sentimento in forma armoniosa, in un equilibrio naturale, rispondente a una precisa esigenza dell’uomo di matrice tedesca quale egli fu e rimase profondamente, con un senso della complessità da superare appunto con i mezzi che una cultura della sintesi (dell’organica crescita su se stessa quale gli si presentava la civiltà classica italiana) gli offriva.
La motivazione che stava dietro il suo approccio alla realtà musicale italiana e a Monteverdi in particolare era quella di un’avventura spirituale, della scoperta di un mondo altro dal suo, accedendo al quale era possibile affinare la sensibilità ed acquisire una sorta di rivelazione della verità. Nel suo atteggiamento si annidava perciò una componente sacrale, che chi lo conobbe non avrà difficoltà ad ammettere pensando al modo in cui il maestro gestiva la preparazione, le prove e la registrazione, alla severità a cui improntava un lavoro che spesso giungeva allo sfinimento, tanto insistentemente egli si ostinava a provare e riprovare, a registrare e a ripetere, in nome di una perfezione che poteva anche arrivare attraverso l’obbedienza ai suoi gesti nervosi, ma che generalmente rimaneva nella sua mente come traguardo irraggiungibile, ideale e sottratto al mondo degli uomini. La sua presenza in sala di registrazione era quella di un sacerdote di una religione antica dal cui gesto arcigno poteva addirittura scattare una maledizione. La condizione che accomunava cantanti e coristi di fronte alla sua allampanata figura era il timore, l’attonicità imposta da un direttore che alle voci chiedeva l’impossibile, cioè un controllo che evitava il forte e che, nella ricerca di sonorità tenui ed immateriali, esigeva di chiudere la bocca in emissione innaturale ma efficace nel far scoccare l’accento della parola con la forza di una freccia, a scolpire immagini sonore potentemente cariche di energia interna, di eloquenza potentemente emanata dalla dizione della parola e mai dai modi esteriori con cui compiacerle (esiti che dalla vocalità dalla Società cameristica di Lugano hanno fatto una precisa nozione).
Il cammino fu lungo, reso possibile anche da un metodo di lavoro che, nel montaggio del nastro magnetico, trovò un mezzo ulteriore per assecondare l’inappagata brama di perfezionamento (non di perfezionismo) che lo tormentava. I veri risultati si ebbero negli anni Sessanta con il ciclo di incisioni monteverdiane, su cui piovve una serie di Grand Prix du Disque come mai era avvenuto prima. Il percorso che porta a quell’obiettivo non fu però lineare, con soste, accelerazioni e perfino ritorni sui passi già compiuti. D’altronde, senza il tenace impegno di Samuel Müller (produttore parigino della Cycnus diventata poi Accord) a strappare il musicista ai suoi dubbi e alla sua riservatezza, i suoi capolavori interpretativi non avrebbero avuto la consacrazione.
In verità quella non era che la punta di un iceberg. La rivelazione di Monteverdi a Loehrer venne sicuramente a Monaco, dove Carl Orff fin dal 1925 aveva avviato una vera e propria “Monteverdi-Renaissance”, a cui concorsero Rudolf von Ficker (ordinario di musicologia nall’università monacense), Ferdinand Wagner (direttore del Badisches Landtheater di Karlsruhe) e altre personalità che, nelle “freie Neugestaltungen” dell’Orfeo, del Lamento d’Arianna, del Ballo delle ingrate, ecc. (oltretutto cantati in tedesco), proiettavano in tali audaci allestimenti il senso iperbolico di culto dell’antico che muoveva questi promotori. Il cammino monteverdiano iniziato da Loehrer a Lugano in questo senso può essere considerato come un processo di depurazione da un modello interpretativo aulicizzante, ideologicamente orientato ad aprire un ponte tra la moderna creatività e un risorgente passato, a una prospettiva di sereno accoglimento dei suoi valori espressivi riportati alla propria storia e alla propria geografia culturale. Ovviamente in questo processo il maestro si trovò a fare i conti con le risorse a disposizione, di strumentisti e soprattutto di cantanti formati alla pratica di tutt’altro repertorio, che egli volle comunque di inconfutabile provenienza italiana, anche se proprio la tradizione italiana ipotecava il canto con livelli insopportabili di enfatica esteriorizzazione. Cosciente del fatto che il punto di partenza fosse il testo, è dal suono della lingua che partì la sua ricerca. Purtroppo non esistono registrazioni di sue interpretazioni anteriori al 1950. Quelle del decennio successivo - realizzate su nastro e che gettarono la prima pietra della sua fama grazia alla circolazione sempre più intensa ed apprezzata presso le stazioni dell’Unione Europea di Radiodiffusione - sono rivelanti proprio per il primato assicurato all’espressione, accettata anche nell’inevitabile ridondanza dello svolgimento, pur di non comprimerne l’intensità legata all’intenzione originale. Fra queste, che hanno reso frequente la presenza di Monteverdi e di altri autori italiani antichi nelle programmazioni allora avare nei confronti di questi generi musicali, nel 1951incontriamo il Combattimento di Tancredi e Clorinda con il baritono Laerte Malaguti nel ruolo canonico del Testo, già signorilmente dosato nella misura dell’effetto, accolto dal canto che snoda il funesto racconto con un senso di fatalità innalzato al livello di intonazione quasi sacerdotale. Ma in generale il tutto attesta la fase in cui Edwin Loehrer stava ancora sondando i caratteri della vocalità italiana nelle sue qualità, nei suoi eccessi e nei suoi limiti. L’ammirazione per la naturalezza del modo di porgere la parola, nei cantanti che sfilano nei vari madrigali e canzonette, è sicuramente la ragione per cui egli dimostra di astenersi dal frenarne l’empito. Vi è chiaramente riconoscibile una focosità e un fremito che nella lettura di dieci anni dopo non ritroveremo più. Storica addirittura vi appare la presenza di Fernando Corena, formatosi vocalmente a Lugano negli anni della guerra e quindi colonna portante delle iniziative di Loehrer fin dall’inizio, il cui maestoso eloquio, lungi dal far sorridere coloro che oggi prediligono l’agghindato procedere di bassi striminziti, introduce appropriata valenza oracolare per l’insospettata via della più scontata intonazione operistica.
In verità si trattava di inventare uno stile che non esisteva, e di inventarlo con le risorse a disposizione, corrispondenti ad un gusto assai diverso da quello odierno. Monteverdi d’altra parte non si risolveva solo mettendo a fuoco una formula enunciativa della parola, ma sollecitava il registro gestuale, di una teatralità del sentire non più semplicemente in nuce ma ormai dichiarata. Loehrer lo sapeva bene, e consapevolmente quindi accettava la sfida di farla rivivere attraverso il talento naturale di un cantante che allora già stava costruendo la sua celebrità internazionale di basso buffo e che, a confema della fiducia nelle sue risorse, lo stesso Loehrer volle nel 1953 nell’ensemble allestito per l’esecuzione de La pazzia senile di Adriano Banchieri, incunabolo fra i più preziosi dell’archivio sonoro della RTSI per il grado di caratterizzazione nella rappresentazione sonora di episodi della commedia dell’arte, dimostrante la possibilità di accentuare nel tessuto di una polifonia a volte cervellotica la componente spavalda del gesto gratuito di personaggi a cui la voce del grande basso dà corpo e respiro. Allo stesso titolo si giustifica il denso apparato strumentale e in generale il peso dato alle relative sonorità, non solo come sostegno alla struttura del canto ma anche come amplificazione della sua portata affettiva.
Se Loehrer giunse negli anni Sessanta a garantire l’intensità dell’espressione con l’economia di mezzi che sappiamo, non fu per assoluta fedeltà a una concezione quasi ascetica, ma dopo aver saggiato l’estensione della spinta espressiva monteverdiana, riconosciuta quale matrice della moderna spettacolarità musicale e quindi in grado di passare incontaminata anche attraverso decifrazioni che ai nostri occhi appaiono problematiche, ma che certamente non suonano innaturali nella misura in cui rispondono altrettanto efficacemente alla verità dell’espressione.
D’altra parte, proprio in quanto per una personalità instancabilmente alla ricerca di un approdo e che dei mezzi dello straniamento faceva uso per identificare nuovi traguardi, questa faccia nascosta della parabola monteverdiana di Edwin Loehrer ci induce a leggere con senso di relatività anche le sue interpretazioni mature. Sarebbe infatti falso considerarle un compimento definitivo, mentre brillano di luce più vera se intese come passaggio, come offerta all’ascolto dell’istantaneità di un’esperienza che non conobbe mai il compiacimento, proprio nella tensione del mirare al di là di quanto era in grado di comunicare. La conferma ci viene dal fatto che, pur avendo registrato opere monteverdiane di carattere religioso (il Vespro della Beata Vergine fu addirittura da lui diretto in pubblico nella Cattedrale di Lugano), egli non accettò di farle apparire su disco, benché l’esito espressivo sia straordinario tanto da aver giustificato la loro pubblicazione postuma. L’obiettivo posto in tal caso ad altezze ancor più estreme ha coerentemente determinato la scelta rigorosa. Accanto alla forte tensione emotiva del canto che ne esce, vi scopriamo infatti una ricerca di spiritualità, un innalzamento dell’espressione verso alte sfere, che assicurano all’esecuzione un’aura di sacralità spesso cupa e misterica. È forse questa la manifestazione più completa della sintesi musicale che Loehrer, svizzero di cultura tedesca intensamente calato nella cultura italiana, realizzò. Il palpitante pulsare della parola, l’emozionalità del sentire tutta italiana, qui subisce la forza trascendente del sentimento dell’assoluto, percezione quasi esoterica della profondità dell’universo, che sbocca in una monumentalità di nordica e sofferta grandezza.
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