L'opera è nata con l'ambizione di rinnovare l'antica alleanza fra la parola e la musica. Si provava un rimpianto: per acquietarlo, bisognava riconquistare quella pienezza che la Grecia antica aveva conosciuto in un'epoca privilegiata della storia.A tali ragioni, legate ad un passato quale veniva congetturato, si aggiunga che, nel caso specifico, al sogno si sostituiva lo spirito d'inventiva e l'audacia innovativa. Alla fine del Cinquecento vi è tutta una fioritura di saggi: numerose sono le opere che recano nel titolo le parole experimentum, tentamen, cimento, saggio, Versuch. La volontà di ben dire, di dire "giusto", fu una caratteristica dell'epoca che seguì all'invenzione della stampa. Il "saggio" fu per Montaigne un modo tutto nuovo di "recitare" se stesso, dal fondo di una "libreria", per i suoi amici (III,4).In tutt'altra maniera, reinventare la "recitazione cantante" degli antichi fu a Firenze, presso il conte Giovanni Maria Bardi, un tentativo di eruditi e di amatori. La sfi da che attrasse quei musicisti e quei poeti fu di ricostruire l'esatta maniera in cui era eseguito il teatro antico. Possiamo credere che essi abbiano sperato che i personaggi mitici, di cui pittura e scultura avevano già fatto gli ornamenti muti di palazzi e giardini, diventassero anche corpi viventi e voci vibranti.Il Medioevo non aveva certo dimenticato i miti pagani, e li aveva "alluminati" a suo modo. Ma il gusto delle immagini fu così imperioso nel Rinascimento da sviluppare nuove forme di spettacolo, pur ridestando reazioni iconoclastiche. Esseri favolosi furono invitati ad apparire, a rappresentarsi di nuovo, a rivivere le loro passioni, con l'aiuto del trucco e dei costumi e con l'accompagnamento degli strumenti perfezionati da fabbricanti e liutai. In musica, lo stile rappresentativo era idoneo a soddisfare questa aspirazione. Indoviniamo il motivo della predilezione delle prime opere per la raffigurazione di esseri desiderati e perduti - per fi gure della perdita e del desiderio frustrato, come Dafne (che sfugge all'inseguimento di Apollo diventando un vegetale) o Euridice (che torna nel regno dei morti). Essi rappresentavano l'impossibilità del possesso, il desiderio che deplora l'assenza del bene che lo avrebbe soddisfatto. Quegli inseguitori delusi e quegli esseri amati in fuga trovavano nel recitativo e nel canto altrettanti corrispettivi consustanziali.L'opera scoprì un piacere nuovo in questa mescolanza concertata di immaginario e di concreto, di leggenda rievocata e di vicinanza sensibile. La rappresentazione operistica fu al tempo stesso il ritorno di una fi ction pagana detentrice di prestigio letterario e la proiezione di un nuovo potere musicale sulla favola tradizionale. Rivaleggiando con le arti plastiche, sfruttando tutte le attrattive sensibili per dischiudere orizzonti immaginari, l'opera divenne un luogo in cui lo slancio della passione ebbe la possibilità di rappresentare il suo eccesso sotto la protezione della bellezza. Come se le spettasse di gettare una luce più intensa su destini già noti, la nuova arte chiese all'epopea, ai grandi scenari storici e ai romanzi "cavallereschi" di fornirle i materiali per una festa rischiarata dalla luce della novità, che riempisse le tre dimensioni di una scena.Per raggiungere il suo scopo, l'opera accumulò le risorse di tutte le forme di rappresentazione. I principeschi patroni, per la loro propria gloria, volevano che il fasto della rappresentazione, sospendendo il corso del tempo ordinario, affiancasse al mondo reale un altro mondo. All'epoca del potere assoluto, la sovranità amava dare prova di sé col dono di una festa, cioé di un evento che si sarebbe fissato nella memoria di tutti. Il pubblico privilegiato delle feste era posto di fronte ad uno spazio insieme concreto (la scena ha un suo volume) e metaforico (la scena rappresenta un palazzo, l'Olimpo o gl'Inferi). Spesso, il mondo fittizio in cui si manifestava il capriccio del principe non era privo di allusioni alle vicende politiche, alle ambizioni o alle avventure galanti del momento; e la magia bianca dello spettacolo comportava anche allusioni ad arti magiche meno innocenti, la cui pratica restava oggetto di timore. Quando l'opera nacque, e mise in scena Circe o Medea, i tribunali perseguitavano ancora streghe e stregoni.Certo, ambientando un'azione drammatica nel mondo pagano classico, i poeti la ponevano sotto il segno dell'irrealtà. Il ritorno a una fi ction condivisa lasciava liberi gli spettatori di cogliere le allusioni alla realtà del mondo circostante, e i poeti sapevano come servirsi di tale distanza. A quel tempo, sotto l'occhio vigile del potere, la poesia conosceva l'arte della rifrazione.«La caratteristica propria di questo spettacolo è di tenere animi, occhi e orecchie sotto l'effetto di uno stesso incantesimo». Queste poche parole di La Bruyère, del 1691, costituiscono una sintetica defi nizione dell'opera, che sarà spesso ricordata. Dopo quasi un secolo dalle sue prime prove, l'opera beneficiava ancora della sua relativa novità. Ma, rispetto agl'inizi, aveva già conosciuto alcuni cambiamenti.Le meraviglie della fi ction avevano richiesto l'ausilio della meccanica, poi, in Francia, Lully aveva in una certa misura ridotto l'uso della "macchina". La Bruyère non approvava le restrizioni introdotte dall'"Anfi one italiano", che pur tuttavia era ben lungi dal voler rinunciare ai fasti mitologici, coi loro voli, i loro carri e tutto l'apparato delle teofanie. Lo scrittore vi si divertiva. Egli giustifi cava l'uso della macchina dicendo che «essa aumenta e abbellisce la fi nzione, alimenta nello spettatore quella dolce illusione in cui consiste tutto il piacere del teatro, in cui essa inoltre introduce il meraviglioso».La macchina teatrale come, nei parchi, le macchine idrauliche, segnavano l'entrata in scena della meccanica nelle società moderne, prima che essa entrasse in azione nella rivoluzione industriale e contribuisse a poco a poco al disincanto del mondo. A dire il vero, Lully aveva soltanto ridotto le spese; e doveva altresì attenuare il confl itto che si creava fra i suoi violini e gli stridori delle macchine sceniche.Il termine "incantesimo", usato da La Bruyère, ha a quest'epoca ancora un senso assai forte. Esso si defi nisce in primo luogo come l'effetto di un'operazione magica. Secondo l'Accademia di Francia, in senso proprio esso designa "l'effetto di presunti sortilegi". Per il lessicografo, il termine designa un potere, ma un potere a cui si attribuiscono facoltà immaginarie. "Incantare" significa "ammaliare, stregare con suoni, parole, immagini, operazioni ritenute magiche". Per i contemporanei di La Bruyère la parola, nel suo signifi cato letterale, è obsoleta; nella sua piena accezione è infi ciata dal dubbio, appartiene al passato. Il luogo degl'incantesimi, dicono gli stessi dizionari, è il "romanzo" medioevale: «I nostri vecchi romanzi sono pieni di incantesimi». Se si prende dunque il termine in senso proprio, non si può evitare di associargli un'idea di puerilità. Alla stessa parola, tuttavia, gli stessi dizionari attribuiscono un senso figurato perfettamente accettabile. Parlando "in maniera fi gurata", si può parlare di "incantesimi dell'Amore, della Poesia", di una festa si può dire che "tutto, in essa, era sorprendente", che era "un incantesimo, o un susseguirsi d'incantesimi". Quando la parola "incantesimo" è trasferita sul terreno del sentimento amoroso o dell'arte, può essere presa per buona: essa non designa allora più una costrizione soprannaturale - ma ingannevole - esercitata sulla realtà e sugl'individui, bensì l'effetto naturale di un sentimento (l'amore) o di una realizzazione estetica (la festa). In tali casi sono in gioco soltanto le risorse dell'animo e dell'arte umana, e l'illusione resta più o meno sotto controllo.
estratto da "Le incantatrici", di Jean Starobinski (Edizioni EDT, 2007)
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