Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 30, 2013

Tricentenario di Vivaldi: la poetica


Antonio Vivaldi (1678-1741)
Nessun periodo musicale come il barocco racchiude in sè la fusione completa di due elementi contrari e apparentemente inconciliabili quali sono la razionalità geometrica e l'irrazionale fantastico e simbolicamente analogico. Questo matrimonio impensabile è dovuto principalmente al seguente motivo: con il sorgere dello stile barocco la soggettività dell'artista acquista una dimensione espressiva e sociale emergente, che si delinea con maggior chiarezza rispetto a quanto accadeva nel rinascimento e mostra i tratti inconfondibili dell'irripetibilità. Ci troviamo, insomma, già di fronte alla figura dell'artista moderno con la sua consapevolezza interiore, con il suo non inserirsi nel ciclo produttivo delle istituzioni sociali: questi fenomeni, verificatisi talvolta anche nei secoli precedenti per quanto concerne le arti figurative e la letteratura (si pensi solo a Dante e Michelangelo), non sono tuttavia ancora corredati da una vera indipendenza economica del musicista, da una sua libertà professionale che prevarrà solo con il Romanticismo.
Il musicista del periodo barocco e pertanto condizionato da un complesso retaggio di tradizioni rigorosamente dedotte dall'alto, che in termini musicali e in senso traslato portano a stemperare la ormai pronunciata soggettività creativa in un linguaggio di stampo nettamente geometrico (allusivo di un "ordo ordinans" cosmico) e spesso ispirato a contenuti religiosi.
Tale dialettica, insita nella musica barocca, fra esuberanza creativa individualistica e retaggio filosofico-culturale dell'epoca, parrebbe poter imbrigliare l'estrinsecarsi dell'energia creativa, ma la prodigiosa alchimia del barocco è riuscita a cogliere da entrambe le fonti i presupposti per la propria consacrazione: è l'irrazionale creativo che si serve del razionale per assecondare la propria natura.
Mirabile accordo, questo, se considerato in chiave psicologica, fra le strutture più consapevoli e concettualmente filtrate della ragione da una parte e il flusso incontrollato e totalizzante dell'inconscio dall'altra.
Anche lo stile vivaldiano accoppia il rigoglio fantastico al nitore del disegno geometrico, ma ciò avviene con minore esasperazione speculativa e intellettuale ascetismo di quanto capiti, ad esempio, in Bach (esito estremo e punto di riferimento ineludibile di tutto il barocco musicale e, probabilmente, non solo musicale). L'emotività in Vivaldi è meno filtrata, meno protesa a cogliere sempre ovunque un decreto trascendente, ma più incline a far trasparire l'immediatezza cromatica dei sentimenti, le mezze tinte degli stati d'animo, che in Bach sono appena avvertibili dietro l'impassibile intreccio dei pensieri e la malinconia assorta dello sguardo.
La poetica vivaldiana, infatti, trae molti spunti creativi (al contrario di Bach) dalla componente naturalistica del barocco (quasi superfluo ricordare qui le "Quattro stagioni", non unico esempio del genere) ed è proprio per questo motivo che dal linguaggio di Vivaldi promana, come costante stilistica, un pulsante fermento espressivo, il quale pare essere sempre sul punto di spezzare il giro della frase melodica per dare vita a una lievitazione inventiva quasi sciolta da ogni vincolo timbrico e musicale. Questa latente ed implicita intenzione vivaldiana, cosi incotltenibilmente esuberante, di ridurre il fatto musicale ad una trasmissione pressoche esclusiva di impulsi inventivi (che in termini musicali si traducono in impulsi ritmici e ininterrotta germinazione melodica) corrisponde, in sostanza, e con diverse valenze caratteriali, all'analoga tendenza bachiana verso la riduzione del fatto musicale a una dimensione ontologica, esistenziale e di conseguenza anche teologica.
Appare dunque qui in modo esplicito la fondamentale differenza e in un certo senso complementarità della sfera bachiana e di quella vivaldiana: per quanto entrambi i musicisti pervengano alla formazione del proprio stile espressivo secondo i canoni classici del linguaggio barocco (il quale si fonda in primis su di una concatenazione geometrica di segmenti melodici per costruire l'intera frase musicale), l'uno - Bach - dispone il proprio linguaggio come struttura portante di un mondo, elemento costitutivo di una dimensione esistenziale, mentre l'altro - Vivaldi - atteggia implicitamente la propria arte quale delirante ornamentazione di strutture preesistenti.
Infatti il mondo veneziano in cui Vivaldi si muove è talmente articolato in termini culturali, architettonici e umani (ivi compreso il relativo cosmopolitismo di Venezia, centro primario per gli incontri intellettuali e gli scambi commerciali), da permettere al nostro musicista di fondarsi su di esso e divenirne l'espressione musicale più completa e definitiva. Al contrario i1 ben più chiuso e  introspettivo mondo bachiano (In Turingia e la Sassonia intrise di rigore morale protestante) sembrava suggerire a Bach la necessità di una autofondazione e di una autodeterminazione mediante un immenso sforzo costitutivo, che poggiasse su centri inamovibili e inalienabili. Si potrebbe quasi dire, per concludere questo paragone a distanza, che se per Vivaldi il fare musica crea modalità d'cspressione, per il Kantor di Lipsia si trattava invece di una improrogabile "conditio sine qua non" di vita e di realizzazione esistenziale, prima ancora che artistica.
I1 mondo e i criteri interpretativi della musica di Vivaldi sono oggi divisi, in Italia, in due opposte e metaforiche fazioni, che si spartiscono anche, più o meno, il mercato discografico vivaldiano: i Musici e i Solisti Veneti.
Mentre i Musici (che incidono per la Philips) tendono a sottolineare la fusione omogenea delle prospettive timbriche e del discorso strumentale, giungendo ad offrire un Vivaldi armonioso, levigato, raccolto, ma forse un po' troppo unidimensionale, i Solisti Veneti (che incidono per la Erato francese, distribuita in Italia dalla RCA) sono inclini a porre in risalto le angolature prospettiche dei diversi colori timbrici e una maggiore indipendenza (compatibile, è ovvio, con la riuscita sincronia dell'insieme) delle singole voci strumentali e del loro decorso melodico. L'interpretazione che ne deriva e cosi più brillante e nervosa, forse più moderna, pur senza eccedere in virtuosismi inutili e senza accusare difetti nella resa dei tempi lenti di Vivaldi, i quali sono sintomatici - nel vibrante contrasto con la frenesia dei temi veloci - dell'intenso e fondamentale rapporto fra la psicologia vivaldiana l'atmoafea di Venezia.
Solo chi è stato a Venezia infatti, specie se fuori dalla stagione turistica e lontano anche dalle ore del febbrile brulichio umano, ha potuto vedere da dove prende origine la disperata poesia di Vivaldi, assai più struggente di quanto non voglia far credere il luogo comune sulla spensierata allegria di questo individuo solitario, luogo comune ingannevole, alimentato dal florilegio delirante del suo ritmo, dalla pulsazione incontenibile di molte sue melodie. In verità si tratta di un estremo tentativo per animare il silenzio stagnante della laguna, l'immobile esalazione di quel mondo appena lambito dal fruscio mormorante di acqicioni, le ombre evanescenti delle cupole, dei ponti e la luce tremula delle lampade notturne.
Oppure i grandi spazi di Torcello, il suo silenzio secolare protetto dal fresco recinto delle mura romaniche, l'immobilità perenne del suo cielo, l'orizzonte a perdita d'occhio e nessuna traccia di un divenire umano, nessun segno dello svolgersi del tempo.
Ma forse l'immagine più consona all'arte di Vivaldi si ottiene in una giornata di sole invernale, stando seduti sui gradini dte, si profilano le cupole, si inseguono le linee, si compongono i volumi, si associano gli effetti e l'occhio si confonde nel fluire pietrificato dei marmi, nel loro levigato sovrapporsi, come fasce di un cosmo tolemaico. Sotto, presso ai gradini, a tracciare con questi un instabile confine, l'invito a perdersi in seno all'indistinto, il richiamo al profondo dell'inconscio che le acque ci lanciano sfiorandoci, mentre il labile sussurro persiste ad ascendere, con regolare ondeggiamento, un paio di gradini per quindi ritrarsi e scoprire un lembo di mondo sommerso, una frazione di mistero.
Tanto poco intercorre, in tutta Venezia, fra i prodotti definiti della mente e le emanazioni dell'inconscio, quanto poco separa le progettate strutture dell'arte dal grembo sognante delle acque, che si infiltrano nei canali, fra le case. La creatività di Vivaldi soggiace interamente a questa dinamica, sembra quasi abbandonarsi a essa: cosi si spiega la coesistenza, nella sua musica, di struggente malinconia e trabocchevole vitalità.

Paolo Fenoglio, Gina Guandalini e Michele Chiadò ("Musica", anno 2, ottobre 1978)

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Heinrich: Sto scrivendo da Argentina. Io non parlo italiano, ma io uso il traduttore. Spero che tu capisca. Io sono un fan di Vivaldi. L'articolo è molto buona. Ma c'è un piccolo dettaglio che non si adatta: il dipinto è di Domenico Scarlatti, Vivaldi non lo è. (Michael)

Polisemie ha detto...

Buon giorno!
che bello ritrovarsi :-)
complimenti per l'arte che realizzi...sei geniale!

Anonimo ha detto...

mi associo... il dipinto è raffigura Scarlatti (D.) non Vivaldi

Anonimo ha detto...

Terribile lo stile fumoso,drogato,retorico nelle descrizioni di Venezia in questo articolo.

Heinrich von Trotta ha detto...

Grazie della segnalazione circa l'immagine!
Ho provveduto alla sostituzione.
Una leggerezza...
HvT