Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, aprile 11, 2018

Carlo Maria Giulini

Carlo Maria Giulini (1914-2005)
Carlo Maria Giulini, il grande musicista che tutti conosciamo, si rivela al contatto diretto un personaggio disarmato e disarmante. L’estrema cortesia, il tono sempre pacato, fanno da pendant al sempre perfetto abito grigio di chiara fattura inglese. Con lui la polemica immediatamente si svuota di forza, l'appunto personale non trova spago. La musica è sempre al centro del suo parlare. Ed il tono generale, quello del gran padre, con una saggezza carica d’anni, d’esperienze, di maturità.
Ci eravamo fatti precedere da una lettera di saluto accompagnata dai primi due numeri della nostra rivista, nella speranza che il Maestro gli desse un’occhiata. E l’occhiata, con nostra grande gioia, l'aveva data. La prova ci venne allorché in confidenza aprì il colloquio affermando che vi aveva letto, ed il riferimento ad alcuni personaggi le cui dichiarazioni la rivista aveva riportato, "molte certezze e tanta sicurezza, laddove io sono sempre insicuro e pieno di dubbi". In sintesi la posizione di perpetua, tormentosa e costruttiva ricerca che traspare nella visione dell’arte ed insieme della vita di Carlo Maria Giulini.
 
Può fare un bilancio della passata tournée italiana che lo ha portato a Firenze e Roma con la Nona di Giulini, pardon! di Beethoven?
Le devo dire, con grande piacere, che adesso è bello fare musica anche qui. Mi sono trovato benissimo con l’orchestra sia a Roma che a Firenze. Ho avuto un contatto molto affettuoso dopo gli anni passati un po’ difficili. Ho trovato finalmente due cose importantissime: il rispetto del lavoro e nello stesso tempo l’amore messo nel lavoro. Una dattilografa che batte a macchina una lettera, è sufficiente che lo faccia con esattezza. A noi musicisti non basta suonare ‘esattamente’, occorre farlo ‘con amore’. Per noi l'esattezza è la morte. L'amore, la vita.
Devo dedurre che lei ha anche un'altra stima della professionalità delle nostre orchestre, delle migliori s'intende.
Senz’altro. Mi auguro però, per proseguire sulla strada della qualità, che la legge che vieta a chi suona in orchestra di avere una cattedra d'insegnamento, venga abolita, perché pericolosa. Prenda un oboista che non ha esperienza orchestrale; cosa può insegnare ad un allievo? L’oboe, ma la stessa cosa vale per quasi tutti gli strumenti, vive della pratica orchestrale. E poi quale repertorio studia il solista degli strumenti a fiato, per restare nell’esempio dell’oboe, se non i grandi ‘solo’ del repertorio sinfonico? Ecco il grave rischio della legge: molti bravi solisti potrebbero disertare le orchestre per l'insegnamento in Conservatorio affiancato da attività concertistica in formazioni cameristiche o come solisti. Non esiste al mondo orchestra i cui solisti non insegnino anche in Conservatorio e parlo soprattutto dei grandi solisti.
Dagli strumentisti passiamo a parlare dei direttori d'orchestra italiani. Lo spunto ce lo offre la nostra inchiesta sulla presenza di direttore stabili stranieri in Italia, gli unici ad occupare questi incarichi. Crede che tra i direttori italiani non ve ne siano in grado di occupare tale incarico? E poi cosa risponderebbe a chi mi ha detto a proposito di Daniel Oren, direttore stabile dell'Opera di Roma: "Oren è in Italia, come Giulini è all'estero!"?
Non ho risposta. Non so rispondere. Se una persona dice così ha il diritto di farlo. Mi dispiace, non so risponderle. Ma non creda che lo faccia per diplomazia: a causa della mia attività, non partecipo intensamente alla vita musicale italiana. Per parlare di giovani direttori italiani, credo che Riccardo Chailly stia facendo un’ottima carriera. Se non ha un posto di direttore stabile, penso che non l’abbia voluto accettare.
Tra gli interpellati, c'è chi ha tirato fuori il famoso "nessuno è profeta in patria".
Mi pare che ci sia una parte di vero in questo. Ma limiterei tale verità alla città. Capisco che inizialmente al giovane che nasce, cresce, studia in una città, per cui fa parte di una grande famiglia nella quale si è mangiato, bevuto insieme tutti i giorni, questa familiarità possa nuocere. E poi basterebbe spostarsi da Roma a Milano, senza andare oltre il confine. Certo che tutto questo non è molto bello e neanche giusto. Semmai non mi stupirei che un giovane direttore non si sentisse in grado di diventare direttore stabile: una decisione che stimerei molto. Un giovane direttore che deve ancora farsi un'esperienza come può portare quest’esperienza che ancora non ha all’orchestra? Anch’io a me stesso ho sempre detto: meglio cinque anni più tardi che cinque minuti troppo presto.
Ancora più imprudente quindi la nomina di Oren - ma i casi sono molti altri ancora - all'Opera di Roma, considerando che il teatro di Roma non è ancora un teatro di provincia e che il giovane direttore in questione è al suo primo impatti con la lirica.
Di Oren l’unica cosa che so è che ha un grande talento direttoriale. Ma se vale quanto ho detto prima e cioè che il direttore deve portare un’esperienza, automaticamente ho già dato una risposta. Tanto più valida quando parliamo del teatro, un’organizzazione molto complessa.
Ha accennato a Riccardo Chailly, come ad una grande promessa. Ma conosce anche altri direttori italiani, meno giovani. Faccio qualche nome tra quelli che vanno per la maggiore: Aprea, Ferro, Gelmetti?
Gelmetti non lo conosco. Aprea e Ferro hanno talento e sono molto bravi. Per tornare ad Oren, in senso generale le ripeto che è sbagliato mettere un teatro d’opera in mano ad un giovane direttore senza alcuna esperienza in campo operistico. Ma può anche darsi che si tratti in questo caso di una eccezione che, come avviene a volte, confermi una regola.
E poi il maestro seguendo i suoi pensieri si abbandona a considerazioni generali sulla musica, sul ruolo dei giovani in essa, sul valore degli interpreti, sul "punto fermo" dei grandi capolavori.
I giovani sono il futuro. Noi siamo in transito, noi interpreti intendo, non importa di quale importanza sul piano della qualità, ciò che resta è la musica. Valiamo per quel tanto che diamo ad un pubblico attraverso la musica. Abbiamo il grave e difficile compito di parlare in nome di geni che si sono espressi attraverso questa misteriosissima scrittura. Il nostro compito dunque consiste non solo nel capire la musica, ma nel trasmettere questa comprensione all’orchestra che a sua volta la trasmette al pubblico. Fatto questo il nostro compito è finito. Ma va anche detto che la musica, a differenza di altre espressioni artistiche, ha ogni volta bisogno dell’interprete perché una partitura torni a vivere: per questo, ogni esecutore è importante. Usiamo pure la parola ‘importante’.
Lo interrompiamo appena per chiedergli qual è il ruolo dei grandi interpreti del passato.
Per una nostra generazione i grandi interpreti del passato noti quasi esclusivamente per sentito dire, non significano nulla. L'unico direttore che, secondo me, rimarrà nella storia è Toscanini, perché rappresenta la soluzione di un grande problema. E' forse una mia personale opinione, ma credo che Toscanini valga per l'orchestra quanto Paganini per il violino e Liszt per il pianoforte. E questo indipendentemente dalle sue esecuzioni - chi di noi oltre tutto ha ascoltato le grandi esecuzioni di Toscanini? -. Nei suoi dischi abbiamo solo le ultime. I momenti storici in cui Toscanini ha portato ad una nuova soluzione il rapporto lettura-esecuzione non vive in queste testimonianze. Tutto questo per dire che i grandi interpreti fanno parte del passato. Le musiche ed esse sole appartengono alla storia. Certamente la morte di Furtwängler, Walter, De Sabata è stata un fatto terribile, ma la musica non è morta insieme a questi interpreti. Quando è morto Mozart invece si è prodotta una tragedia e l'umanità è diventata più povera. Quando uno di noi smetterà di dirigere o di suonare, ci sarà un interprete in meno, ma presto ne arriveranno altri.
Dei grandi interpreti del passato cosa ammira?
Di Bruno Walter la gioia del ‘fare musica’, di Furtwängler l'intensità della linea insieme all’incredibile fantasia e libertà, di Klemperer il forte senso dell’architettura, il rispetto della forma costruttiva, di De Sabata il colore e la dinamica. E, per concludere, Toscanini va messo a fondamento di tutti i grandi interpreti per la sua lezione interpretativa che, lo ripeto, non possiamo apprendere dai suoi dischi.
A quali incisioni ha lavorato quest'anno?
In settembre ho inciso, a Vienna, il Rigoletto con l’orchestra ed il coro dell’opera viennese e con Cappuccilli, Placido Domingo, Ghiaurov, Cotrubas e la Obratzsova. A Los Angeles poi ho inciso la Pastorale di Beethoven, Ravel e Debussy (Ma mère l’oye; Rapsodia spagnola; la Mer), il secondo concerto per pianoforte ed orchestra di Chopin, con il giovane pianista Zimmermann. Nessuno di questi dischi è ancora sul mercato.
Ed il suo lavoro con Benedetti Michelangeli?
Con Michelangeli abbiamo fatto tre concerti di Beethoven (primo, terzo e quinto). E' un artista eccezionale, meraviglioso. Ci sarebbe da parlare a lungo, ma è sufficiente dire che è su livelli straordinari. Straordinario artista ed unico insieme, oggi più di ieri.
Nella seconda delle serate romane, compare in programma il Requiem Tedesco di Brahms. Quali differenze passano tra questo lavoro e quello, pure dedicato al tema della morte, di Mozart, da poco sul mercato discografico sotto la sua direzione?
Mozart ha sempre avuto un profondo contatto con il pensiero della morte, intesa come fine della vita e risultato di questa. In una lettera al padre scrisse: "...ogni sera, prima di addormentarmi, penso che potrebbe essere l’ultima mia sera e di conseguenza potrebbe cominciare la vera vita." Escludendo dal lavoro mozartiano il Dies Irae, un testo medievale dal quale traspare la concezione del Dio del terrore, c’è in esso un incredibile senso di fiducia, non di rassegnazione. Brahms invece non ha preso il testo liturgico, ma vari testi biblici, nei quali la morte appare nell’aspetto più dolce, quasi accogliente. Nel requiem tedesco manca il Dies Irae ed al suo posto vi si trova un canto di gioia: Morte dov’è la tua Vittoria? si canta. Mozart e Brahms concepiscono la morte in modo abbastanza simile. La musica poi di Brahms è tutta ricca di dolcezze, soavità, in alcuni momenti direi di sorrisi, di gioia. Quanto al nostro lavoro di interpreti, cercherò di capire il pensiero di Brahms per farlo trasparire nell’esecuzione. Il Requiem di Brahms da me diretto sarà il Requiem di Brahms. O almeno desidererei che lo fosse.
Molti attribuiscono alla sua interpretazione una discendenza da Furtwängler. E questo per la sua concezione dei tempi, per il particolare tipo di fraseggio, per la direzione tesa a delineare l'atmosfera. Cosa pensa di questa discendenza?
Sono cose che vengono dette, delle quali ho il massimo rispetto. Naturalmente ritengo questi apprezzamenti come un privilegio, del quale mi sento profondamente onorato. Ho suonato con i grandi direttori tedeschi, ma ho conosciuto anche i nostri De Sabara, Guarnieri, Marinuzzi. Se delle persone intelligenti, o dei critici trovano in mc questi legami con la scuola tedesca, non posso che dire: grazie!
Quale è il suo rapporto con la critica, visto che siamo indirettamente entrati in argomento?
Noi, critici ed interpreti dovremmo fare la stessa battaglia. La sensazione di essere invece trincerati su fronti opposti mi sembra sbagliata. Ho grande stima dei critici, ma solo di quelli che fanno bene il loro mestiere. Leggo poco le critiche per vigliaccheria: una critica positiva mi fa piacere ma solo per due minuti, una negativa invece mi fa soffrire a lungo. Non mi vergogno ad ammetterlo. Nonostante questo, cerco sempre di sapere, anche indirettamente, cosa si dice del mio lavoro: ci sono sempre cose utili da apprendere.
Muti, in un'intervista apparsa sul primo numero della nostra rivista, affermava che in Italia il suo lavoro di musicista era più libero da costrizioni, in quanto alle scelte da operare. All'estro, la presenza di capitale privato nelle istituzioni musicali condiziona invece ogni scelta. Lei è dello stesso parere?
Non ho simili problemi. Anche all’estero faccio quello che desidero fare.
Torniamo a Brahms. Cosa pensa delle interpretazioni brahmsiane dei grandi direttori che più volte abbiamo citato in questa conversazione?
Ho avuto modo di ascoltare Brahms diretto da Walter, Klemperer, De Sabata, Guarnieri, Mengelberg ed altri. Ognuno di questi - parliamo naturalmente di grandi interpreti - ha una sua particolare verità da esprimere, avendola dedotta dalla partitura brahmsiana. E' questa la fortuna delle interpretazioni. Se un giorno dovesse arrivare ‘la interpretazione’ la musica sarebbe finita.
Lei ha detto in un'intervista di aver suonato a diciotto anni la prima sinfonia di Brahms sotto la direzione di Bruno Walter. Cosa ricorda di quella esecuzione?
Fu meravigliosa, indimenticabile, entusiasmante. Una qualità di Walter era rendere partecipi i componenti dell’orchestra; nessuno con lui si sentiva ‘diretto’. Ed anch’io ebbi l'impressione di suonare la prima di Brahms, quasi fosse scritta per dodicesima viola solista ed orchestra.
Quale peso hanno le case discografiche sul successo e sulle scelte di un direttore?
Sulle scelte, parlo solo del mio caso, nessuno, perché ciò che incido è il risultato di amichevolissime conversazioni con Gunther Breest della DG. Non c’è quindi alcuna pressione. D’altro Canto alla DG sanno benissimo che desidero incidere poco ed anche su questo punto ci troviamo d’accordo. Dopo aver preso le decisioni sulle future incisioni, presento questi brani in concerto, prima di inciderli: un metodo di lavoro importantissimo.
Per quanto riguarda il successo, mi deve perdonare!, non le so rispondere. Certo che il disco ripaga la ‘fissità’ dell’esecuzione con la grande diffusione.
I prossimi impegni concertistici e discografici.
Dopo i due concerti romani farò ritorno a Los Angeles. Tornerò in Europa ed anche in Italia (Firenze e Milano) con la mia orchestra in maggio. L’estate sarà invece abbastanza tranquilla. Cerco sempre di lasciarmi degli spazi liberi, un po’ per vivere, un po’ per pensare e naturalmente per studiare. Ma soprattutto per pensare, in un’epoca non incline a farlo. Capire e pensare è già indispensabile per la vita. ma lo è anche per la nostra professione, forse più del fare. Ed io, in particolare; ho bisogno di tempo per capire.
Quanto alle incisioni, farò la decima sinfonia di Mahler, poi una di Brahms - non so ancora se la prima o la seconda - sempre con l’orchestra di Los Angeles. In settembre poi il Concerto per violino ed orchestra di Beethoven con Perlmann - lo avevo già inciso ma per varie ragioni siamo costretti a ritirarlo - per la EMI (si tratta di un vecchio impegno), mentre le altre incisioni sono tutte per la DG con la quale ho l'esclusiva. Nei programmi futuri infine c'è lo Stabat Mater di Rossini ed, appena possibile, la Messa in si minore di Bach.
Pietro Acquafredda
("Banchetto Musicale", Anno II, Numero 4, marzo 1980)

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