Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, dicembre 24, 2018

Eliette von Karajan: Nel nuovo mondo...

Eliette von Karajan (1939)
Dall’inizio del 1955 Herbert era direttore a vita dei Filarmonici di Berlino, e dal marzo del 1956 direttore artistico dell’Opera di Stato di Vienna. Significava dirigere contemporaneamente due delle migliori orchestre al mondo, una sfida colossale.
A metà ottobre del 1959 sarebbe dovuta iniziare la prima tournée dei Filarmonici di Vienna, e già nella primavera del 1958 i preparativi si svolgevano a pieno ritmo. In seguito a innumerevoli richieste giunte da tutto il mondo, Herbert aveva deciso, d’accordo con i Filarmonici, che era venuta l’ora di imporre l’orchestra come una delle migliori a livello internazionale. E se si doveva andare in posti nuovi, allora che fossero davvero nuovi! Altro che Giulio Verne: erano in programma ventisei concerti in diciotto città e sei Paesi, in sole cinque settimane i musicisti avrebbero cambiato tre volte continente e passato quasi un terzo del loro tempo negli aeroporti. Allora non volavano né gli Airbus 300 né i Concorde, e i voli a lunga percorrenza richiedevano vari scali intermedi, uno sforzo fisico oggi inimmaginabile. Dopo l'atterraggio a Bombay, Manila o Tokyo non rimaneva il tempo per adattarsi al clima: di solito gli orchestrali dovevano fare nello stesso giorno un’ispezione del luogo e una prova. Se non altro, allora i musicisti avevano la possibilità di fare una o due prove prima dei concerti, mentre oggi spesso corrono dall’aeroporto direttamente in scena, dove il pubblico in attesa si aspetta da loro una splendida esecuzione.
Quella tournée rappresentò in tutti i sensi una sfida ad altissimo livello, perché spedire sani e salvi 115 musicisti e i loro strumenti da una città all’altra, da un continente all’altro, era davvero un prodigio di logistica. Tranne il pianoforte, tutti gli strumenti dovevano essere accuratamente registrati, denunciati all’autorità doganale internazionale e sistemati in casse speciali; per non parlare del vestiario (115 frac, una quantità corrispondente di camicie e relativo ricambio, per ogni uomo due o tre farfallini) e degli spartiti per ogni singolo brano e ogni singolo strumento.
In mezzo a quella baraonda Herbert un giorno mi promise: "Durante la tournée avremo finalmente abbastanza tempo per recuperare la nostra luna di miele". Fino ad allora si poteva parlare solo di un paio di ore rubate di “luna di miele”, ciò nonostante rimanevo scettica, perché quanto più mi immergevo nel suo mondo, tanto meglio capivo quale mole di lavoro incombesse tutti i giorni su mio marito, anche senza quella tournée mondiale.
In quel periodo abitavamo (a patto che si possa parlare di “abitare”, altri li definivano soggiorni temporanei) prevalentemente a Vienna. Herbert andava ogni giorno dalla nostra abitazione sulla Hohe Warte, nel 19° distretto, al suo ufficio all’Opera di Stato; la mattina arrivava sempre tra i primi e la sera era quasi sempre l’ultimo ad andar via. D’accordo con il Consiglio dell’orchestra, definì l’ampio repertorio: dovevano essere eseguite sinfonie di Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms e Bruckner, ma anche composizioni di Handel, Carl Maria von Weber, Wagner, Richard Strauss. Nulla poteva essere lasciato al caso in quel programma studiato fino al millesimo di secondo, persino i bis furono decisi in anticipo: dovevano essere brani di Johann Strauss padre e figlio, ma anche di Josef Strauss.
Un apice del repertorio era rappresentato da Die Legende vom Prinzen Eugen, il lavoro più noto del compositore contemporaneo Theodor Berger. Tra loro due - Berger e Herbert - c’erano solo tre anni di differenza d’età, e inoltre Wilhelm Furtwängler, il cui giudizio era tenuto in grande considerazione da Herbert, già nel 1932 aveva preso il connazionale sotto la sua protezione e lo aveva fatto conoscere con concerti e raccomandazioni in patria e all’estero. Nello stesso tempo, però, le differenze non avrebbero potuto essere più grandi: Theodor Berger veniva da una famiglia poverissima e da bambino non aveva avuto l’opportunità di studiare musica. Si preparava a diventare maestro di scuola quando, all’età di diciassette anni, si accorse della sua vera vocazione, quella appunto di compositore. Solo grazie al sostegno di alcune famiglie benestanti poté studiare all’Accademia Musicale di Vienna. Herbert, che era invece nato in una famiglia agiata, già a quattro anni inizio a suonare il pianoforte e si mostrò straordinariamente dotato. Frequentò il Mozarteum quando era ancora uno scolaro e si diplomò in pianoforte.
Herbert e Berger si erano incontrati durante gli studi all’Accademia Musicale di Vienna. Tra loro si sviluppò una simpatia reciproca e piena di rispetto; mio marito ha diretto la prima esecuzione di due suoi lavori, Homerische Symphonie (1948) e Concerto manuale (1951), e tra il 1943 e il 1959 ne ha diretti altri tre: Die Legende vom Prinzen Eugen, Rondo giocoso e Sinfonia parabolica, per un totale di 14 esecuzioni.
Come qualsiasi austriaco interessato alla storia, Herbert era un appassionato della leggenda del principe Eugenio, e quando venne il momento di portare dal "vecchio mondo" al "nuovo mondo" un dono musicalmente attuale, scelse l’omonima opera di Berger. Si tratta di una storia interessante sia dal punto di vista musicale che da quello storico. La canzone popolare Principe Eugenio, il nobile cavaliere descrive l’assedio e la presa di Belgrado da parte di Eugenio di Savoia nel 1717 durante la sesta guerra austro-turca. Fu presumibilmente un soldato austriaco a comporre la canzone in forma di ballata subito dopo la presa della città, dato che la battaglia viene minuziosamente descritta con molti particolari sanguinolenti.
Cercavo di conoscere tutte le nuove opere o sinfonie che Herbert stava provando; non mi interessava solo il contenuto, volevo essere in grado di parlare con lui dell’argomento. Con ogni nuova composizione a cui ponesse mano con un’orchestra, Herbert aveva un approccio esclusivamente analitico, vale a dire che partiva sempre dallo studio attento della partitura, e solo in casi eccezionali ascoltava le registrazioni dei colleghi. Si può addirittura dire che sezionasse le partiture, un’abitudine ereditata dal padre, un noto chirurgo di Salisburgo. Il mio modo di procedere era totalmente diverso, perché io sono quella che i tedeschi chiamano “una persona di pancia”. Herbert capiva la profondità e il significato di una composizione grazie alla sua intelligenza acuta e alla sua capacita di “udire” la musica nella testa, io invece ci arrivavo con la mia sensibilità per gli alti e i bassi, per le forti emozioni e le sfumature. In questo senso ci completavamo perfettamente, ed ecco perché ero l’unica persona che lui volesse presente alle sue prove, ovviamente quando era possibile.
Purtroppo non fu possibile con le prove per la tournée mondiale. In quel periodo frequentavo di mattina un corso di tedesco all’Urania di Vienna, una specie di università popolare, perché volevo finalmente parlare con Herbert nella sua lingua materna, e facevo la spola tra la Hohe Warte e il Musikverein, in Bösendorfer Strasse 12 nel 1° distretto, dove Herbert stava preparando il mostruoso programma.
Il 17 ottobre 1959 arrivò finalmente l'"ora X"”. All’aeroporto viennese di Schwechat aspettavano due velivoli della compagnia aerea KLM con tre tonnellate di carico. Sulla terrazza per gli accompagnatori si svolgevano scene da film; circa trecento persone tra mogli, madri e bambini salutavano piangendo, alcune con il fazzoletto in mano. Sembrava un addio definitivo, quasi non dovessero mai più rivedere i loro mariti e padri.
La prima tappa fu in India. A Nuova Delhi doveva risuonare la prima nota, con Till Eulenspeigel di Richard Strauss, l’ouverture di Euryanthe di Carl Maria von Weber e la Quinta di Beethoven. Dopo oltre venti ore di volo atterrammo in quella metropoli frenetica; rimaneva poco tempo per i giri turistici, il calendario degli appuntamenti era troppo fitto, ma ci aspettava una serata meravigliosa che ricordo ancora oggi.
Dopo il concerto ci ricevette il primo ministro Pandit Jawaharlal Nehru, che comparve con un grande seguito e fece i complimenti a mio marito e alla direzione dell’orchestra per il concerto perfettamente riuscito. Poi ci recammo in carrozza a un ricevimento ufficiale nella sede del governo. Che privilegio cenare accanto a uno degli uomini più potenti del mondo! Il premier Nehru chiacchierava amabilmente con me e mi parlava delle impressioni da lui riportate in Inghilterra, dove aveva compiuto gli studi che lo avrebbero portato tanto avanti. Mi raccontò dei suoi studi di biologia a Cambridge e di quelli di giurisprudenza a Londra, e ovviamente dell’interessante periodo come segretario privato del Mahatma Gandhi dopo il suo ritorno in patria. Aveva visitato Vienna due volte: nel 1910 e dopo la Seconda guerra mondiale. Pendevo dalle sue labbra, perché emanava un calore e un’intelligenza che mi impressionavano profondamente.
Il giorno successivo le cose proseguirono nello stesso stile. Verso l’ora di pranzo la portineria ci comunicò che Indira Gandhi, la figlia di Nehru divenuta più tardi primo ministro, era nell’atrio dell’albergo e voleva vedermi. Mi rinfrescai in un lampo perché non si può fare aspettare la figlia di un primo ministro. Il direttore dell’albergo, molto premuroso, aveva sistemato una sala e fatto servire delle bibite; conversammo per circa mezz’ora in inglese, poi Indira Gandhi mi offrì un sari dagli splendidi colori che ho sempre conservato con cura. Ancora oggi mi vengono i brividi quando penso alla tragica morte di quella straordinaria donna politica. Non dimenticherò mai il 31 ottobre 1984, giorno in cui fu assassinata a sangue freddo dalle sue guardie del corpo; Herbert e io rimanemmo sconvolti quando apprendemmo la notizia.
Il giorno dopo ci trasferimmo da Nuova Delhi a Bombay. Di solito alloggiavamo nel Grand Hotel della città, ma talvolta anche in semplici alberghi a tre stelle: dipendeva dalle strutture del Paese. Herbert voleva sempre abitare in prossimità dei “suoi” musicisti, e per questo motivo prendeva in considerazione anche sistemazioni più semplici, senza un servizio raffinato. Come conseguenza, a volte erano richiestissime le mie capacità prettamente femminili: succedeva che stirassi con il ferro da viaggio le camicie da frac dopo averle lavate a mano e asciugate con il phon.
Del benessere fisico di tutto il gruppo si curava un medico che Herbert aveva ingaggiato a Vienna per tutta la tournée. I continui sbalzi di temperatura (adesso ai tropici, qualche ora dopo in un clima umido), ma anche la cucina insolita (gli stomaci europei di rado si abituano subito ai piccanti piatti asiatici), creavano problemi a molti. Herbert sopportava benissimo sia gli strapazzi del viaggio che il cibo, si manteneva in forma con una disciplina ferrea, ovunque fossimo faceva ogni mattina i suoi esercizi di yoga, e anche il fatto che tutti gli si rivolgessero in qualsiasi momento con una qualche richiesta non lo disturbava per nulla. Anch’io mi sentivo magnificamente, solo a Tokyo ebbi spesso dei malori, ma la ragione era un’altra...
E' indispensabile una grande sensibilità per convivere in modo così stretto con 115 uomini, senza contare mio marito. Immaginatevi la scena: cinque settimane sempre in compagnia delle stesse persone, quasi ventiquattr’ore al giorno, distribuite tra un mezzo di trasporto, un albergo e una sala da concerto. Anche nel Paese più bello insorgono la nostalgia o il desiderio di stare per un paio di giorni da soli. Durante quella tournée ho vissuto a stretto contatto con i musicisti, e ho osservato come fossero nervosi e tesi prima di un concerto, ma anche rilassati e allegri quando erano accolti con “standing ovations” da persone di cui, come in Giappone, ignoravano la lingua. Oppure la vista sconvolgente di sette-ottomila persone che vengono piene di aspettative a un concerto di musica classica, come accadde ai due appuntamenti di Manila. Vedere come la musica in quanto lingua uni-
versale superi tutte le barriere è un’esperienza impareggiabile. In quelle settimane Herbert entro in grande confidenza con i suoi musicisti; alcuni li conosceva dal 1957, da quando era stato ingaggiato come direttore artistico dell’Opera di Stato di Vienna, altri ne erano entrati a far parte da poco.
A Hong Kong, la quarta tappa, scoprii un Herbert per me completamente nuovo: lui, sempre così compassato, era disinvolto, quasi sfrenato. Una banda militare britannica (l’isola era ancora una colonia della Gran Bretagna) ci accolse sulla pista d’atterraggio con le note di O, du mein Österreich (O Austria mia). Herbert si concentrò sulle prime tre, quattro battute, poi si diresse verso la banda, con un sorriso amichevole tolse la bianca bacchetta dalle mani dell’attonito ufficiale che la dirigeva e diresse la marcia fino alla fine tra il divertimento generale. Entusiasti di questo incontro insperato e inaspettato nella forma con uno dei più famosi direttori del mondo, gli inglesi mostrarono di volere ancora più Karajan, e Herbert accondiscese divertito: come bis ci fu una versione appassionata, anche se non del tutto scorrevole, della Marcia di Radetkzy.
Molti ricordi di un simile viaggio impallidiscono dopo oltre quarant’anni, altri rimangono per sempre nella memoria, come una scena accaduta a Bombay. Il concerto al St. Zavier’s College era totalmente esaurito. Tutti i posti erano occupati, la gente si assiepava persino sui gradini e sedeva per terra; sembrava quasi di essere in uno di quei treni sovraccarichi, dove si viaggia stipati in tutti i buchi possibili. Neanche per me c’era un posto a sedere. Bisognava fare ricorso all’inventiva, Herbert voleva assolutamente che io fossi presente: la sera, anche se era tardi, parlavamo del concerto e delle mie impressioni, dunque non era concepibile che io ascoltassi da dietro le scene. Allora decise al volo: "Eliette, ti siedi in orchestra!". I musicisti dovettero stringersi e alla fine presi posto dietro l’arpa.
Dopo quel concerto leggendario, masse incredibili di persone si accalcarono davanti all’ingresso per gli artisti. Un brulichio variopinto di sari e di uomini in costume tradizionale, ma anche molti in smoking secondo il modello occidentale. Volevano vedere Herbert, magari riuscire a toccarlo e conquistare un autografo. Essendo impossibile ritornare in albergo con la macchina, non esitammo a lungo e ci avviammo a piedi, dopo che Herbert ebbe stretto migliaia di mani ed ebbe scarabocchiato innumerevoli volte il suo nome su cartoline, programmi o altri foglietti tesi. Nella calca mi cadde per terra la borsetta, ma io me ne accorsi solo quando fummo nell’ingresso dell’albergo, contenti di essere arrivati illesi. Credetemi, impallidii dallo spavento: nella borsetta c’erano il mio passaporto e alcuni oggetti personali. Sì, avete ragione: avrei potuto lasciare il passaporto nella cassetta di sicurezza dell’albergo, ma quando lavoravo come modella mi ero abituata a portare sempre tutto con
me, ed ecco il risultato.
Avevo già abbandonato ogni speranza, quando arrivò il portiere e disse che da lui c’era una bambina che voleva darmi qualcosa. Si profuse in scuse, ma la bambina era irremovibile, se potevo andare un momento in portineria... Non esattamente entusiasti, io e Herbert scendemmo con l’ascensore. Una bambina incantevole mi venne incontro, fece un timido inchino e tirò fuori da dietro la schiena la mia borsa. Rimasi talmente sorpresa che non riuscii neanche a ringraziarla, lei si era già voltata ed era corsa dai suoi genitori, che aspettavano davanti all’ingresso. Herbert reagì più velocemente, seguì la piccola fuori dell’albergo, ringraziò lei e tutta la sua famiglia e - qui ebbe la meglio il suo cuore generoso - invitò tutta la famiglia al concerto della sera dopo, senza chiedere quanti componenti avesse...
"Boarding completed", annunciò il copilota, e l’hostess controllò che tutte le cinture di sicurezza fossero allacciate secondo le istruzioni. Dal punto di visto tecnico il nostro volo da Hong Kong a Tokyo fu piacevole, ma si verificarono delle turbolenze di tipo particolare, causate da alcuni membri della nostra comitiva. Un paio di giovani musicisti avevano distribuito a bordo, di nascosto, del vino austriaco per improvvisare sopra le nuvole una serata all’osteria, di cui evidentemente sentivano la mancanza. L’atmosfera si fece sempre più sfrenata, e a un certo punto Helmut Wobisch, la prima tromba, mi esortò a “suonare la marcia” per mio marito una volta tanto. Come avrei potuto contraddire Wobisch, che era allora amministratore dell’orchestra? E così suonai alcune note con la tromba, là sopra le nuvole. Herbert sembrò molto divertito.
La quinta tappa era il Giappone, e atterrammo a Tokyo il 27 ottobre. Ero molto contenta, perché saremmo rimasti parecchi giorni e avremmo potuto avere del tempo tutto per noi. Inoltre mi ero ripromessa di imparare a Tokyo l’arte dell’ikebana. Essendo un’amante dei fiori, ero rimasta immediatamente affascinata da quest’arte di disporli, sviluppatasi solo in Giappone; non volevo certo perdere l’occasione di osservare i migliori artisti nella loro patria e di imparare da loro. Ma le cose dovevano andare diversamente. All’improvviso non mi sentivo bene fisicamente; forse non ce la facevo più a reggere tanta tensione: i continui voli, fare e disfare le valigie ogni due secondi e i frequenti sbalzi climatici.
All’inizio ignorai il mio malessere, non volevo inquietare Herbert, che aveva davvero già abbastanza preoccupazioni. Le notizie sulla furia distruttiva di un recente tifone, uno dei più violenti che avessero mai colpito il Paese, provocando un altissimo numero di morti e centinaia di migliaia di senzatetto, scossero così tanto mio marito che decise immediatamente di trasformare i due concerti di Nagoya e Tokyo in iniziative di beneficenza e di devolverne alle vittime il profitto netto, ammontante a centomila marchi. Tutto questo richiese un ulteriore sforzo organizzativo.
Nonostante il silenzio e l’atmosfera quasi contemplativa che si crea quando ci si occupa di queste finissime composizioni floreali, continuavo a essere tesa e nervosa. Si era anche aggiunto un malessere mattutino che non potevo nascondere a Herbert. Anche se tutto stava andando per il meglio, improvvisamente desiderai cambiare luogo: sarei andata volentieri con il primo aereo in un monastero come quello di San Gimignano, in Toscana, soltanto per stare da sola. Non poteva continuare così, e su mia richiesta la moglie dell’ambasciatore austriaco mi accompagnò in una clinica.
Avete indovinato: quel malessere mattutino era dovuto al bambino in arrivo. Mi stavo semplicemente preparando a diventare per la prima volta madre, e Herbert per la prima volta padre. Non vedevo l’ora di dargli la buona notizia! Credetemi: i suoi occhi scintillanti, il suo viso radioso sono impressi per sempre nella mia memoria.
"Di San Gimignano non se ne parla, non sono previste donne incinte in un monastero...", scherzo con aria maliziosa, dopo che la gioia esuberante ebbe ceduto il posto a una felicità silenziosa, intima.
Anch’io ero molto contenta, ma tutti e due capimmo  che non avrei più potuto seguire la tournée. Herbert era estremamente prudente, voleva che i migliori medici di Parigi si occupassero del suo bambino e della sua amata. Se avesse potuto, mi avrebbe tenuta nella bambagia, così già il giorno successivo volai a Parigi, invece che con lui a Osaka.
La tournée proseguì dunque senza di me. Appena era possibile, cercavamo di scambiare due parole al telefono, ma era molto complicato a causa dei fusi orari; sul calendario, in attesa del suo ritorno dalla tournée, cancellavo ogni giorno trascorso.
Herbert mi raccontò più tardi che i Filarmonici di Vienna avevano dato il loro miglior concerto a Cleveland. La Cleveland Orchestra, una delle cinque grandi orchestre sinfoniche degli Stati Uniti, godeva già allora di fama mondiale e i viennesi si erano sentiti motivati a dimostrare il loro livello, anche perché il direttore degli americani, George Szell, aveva fatto di persona gli onori di casa al collega europeo e all’orchestra. Mio marito rimase così impressionato dalla prestazione dei suoi musicisti che li aspettò all’uscita della Severance Hall per stringere loro la mano e ringraziarli.
Lo attendeva anche un altro concerto straordinario: l’esecuzione dell’Ottava Sinfonia di Bruckner nella leggendaria Carnegie Hall di New York; con quella stessa sinfonia Herbert si sarebbe congedato dal pubblico americano trent’anni dopo.
E finalmente giunse l’ora di fare le valigie per l’ultima Volta: il 23 novembre la tournée si concluse a Montreal con la Quinta di Beethoven, e il 25 ci fu il tanto atteso ricongiungimento con me a Vienna.
Apro una piccola parentesi. Già allora i voli provenienti da oltremare atterravano di buon’ora, tuttavia fu ovvio che andassi io a prendere mio marito, malessere o non malessere. Con stupore e gioia constatai che anche qualcun altro aveva fatto volentieri una levataccia, pur di accogliere i musicisti: il cancelliere Julius Raab era al terminal degli arrivi di Schwechat, e mi cedette mio marito dopo un cordiale "Benvenuto!".
 
Eliette von Karajan ("La mia vita al suo fianco", Giunti, 2008)

1 commento:

Unknown ha detto...

episodi di vita raccontati con semplicità ed a volte stupore atteggiamento di una donna tranquilla forte pronta a tutto