Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 07, 2019

Quirino Principe: Musica e filosofia (3/14)

Gli dèi, temendo la morte, si rifugiarono nei metri della poesia.
Ma anche là li rintracciò la morte.
Allora gli dèi si rifugiarono nel suono,
e il suono primordiale è la sillaba OM,
l'immortale e senza paura.
Chandogya Upanishad, I, 4, 1-3
 
MUSICA E FILOSOFIA NELLE VISIONI ORIGINARIE DEL MONDO
Terza parte.
 
Scultura indiana
Nella ricerca del nesso musica-filosofia, assumiamo come centro di una prima descrizione l'area di civiltà che, da occidente ad oriente, abbraccia l'antico Egitto, l'ebraismo dai primi scritti biblici alla diaspora, l'India classica. La cornice può sembrare arbitraria, e in parte lo è. Tra l'Egitto, la Palestina e la Mesopotamia esiste una continuità geografica, e persino etnica; l'India costituisce un altro spazio terreno, e le montagne più alte del pianeta sono la linea di separazione. Eppure, la tentazione di osservare insieme quei territori è forte, né mancano ragioni a darle conforto. L'Egitto da un lato, l'India dall'altro sono i limiti intellettuali e psicologici del mondo antico secondo la visione occidentale, e all'interno di quei limiti furono possibili sguardi convergenti, nozioni precise e occasioni d'incontro: greci e romani conoscevano l'India, Alessandro di Macedonia la raggiunse e il suo nome deformato percorse il subcontinente indiano come quello di un minaccioso dèmone. Anche oggi ne restano tracce. Al di là dell'India cominciava davvero un mondo favoloso e quasi irreale, della cui esistenza molti dubitavano. All'inverso, a occidente dell'Egitto la civiltà ellenistico-latina vedeva terre la cui fase antica era poco interessante barbarie, e la cui esistenza reale s'identificava soltanto con la più tarda civilizzazione attuata da greci e romani. Tutto questo consente una visione d'insieme, e non mancano altre immagini unificanti. Una soprattutto appartiene a eventi successivi: l'area dal confine occidentale dell'Egitto al limite orientale dell'India è divenuta nel tempo il centro geografico della cultura islamica, chiuso entro due ali estreme, l'Africa settentrionale a ovest del Nilo e l'Asia sud-orientale a est del Bengala fino all'Indonesia. Così riusciamo ad avere la visione tutt'altro che omogenea ma almeno tale da cadere tutta insieme entro il cerchio della nostra lente. Esistono, al di là dello schema geografico, qualità comuni ai tre luoghi di civiltà. La valle del Libro dei morti, la terra della Bibbiae la penisola consacrata dalla tradizione dei Veda fondarono tutte e tre una musica di prim'ordine e di prim'ordine fu il ruolo che la musica ebbe nelle tre culture. In tutte e tre si sviluppò un pensiero "forte" come visione del mondo, con un fondamento metafisico. Le difficoltà irrompono quando osserviamo le diversità, non tanto quelle che esistono in sé e che per noi non è facile individuare oggettivamente, quanto le diversità che appaiono a noi attraverso il diaframma del tempo e delle memorie nascoste. Sulla musica dell'antico Egitto la nostra conoscenza si riduce a pochi frammenti, anche se il mistero si schiude in vividi lampi. L'antica musica ebraica dovrebbe esserci più nota poiché ad essa ci lega una tradizione intrecciata con la musica d'Occidente, ma proprio la mediazione ininterrotta è deformante. Abbiamo ampie e organiche notizie, invece, sul sistema musicale dell'India classica. Quanto al pensiero " forte" e altamente metafisico che nacque in varie forme nelle tre aree, esso dà prove antichissime e straordinarie nella valle del Nilo, ma la sua decifrazione è resa ardua dal linguaggio mitico che di quel pensiero è insieme la forza e il velame. Il popolo della Bibbia mostra un'irresistibile vocazione al filosofare, ma la sua tradizione antica, davidica, salomonica e profetica sente il peso del linguaggio teologico che insiste sulla rivelazione divina e occulta in gran parte il vero nucleo filosofico; paradossalmente, quel nucleo viene alla luce nel momento in cui la tradizione biblica incontra la filosofia ellenistica, di tradizione platonica e stoica, e con essa avvia un processo di fusione: il cui maestro è il giudeo ellenizzato Filone d'Alessandria. In questo caso, gli epigoni ci spiegano meglio la natura delle prime fonti, e l'eccezione che l'ebraismo rappresenta nella storia della filosofia è addirittura confermata dagli esiti ulteriori: il talento filosofico di quell'anima e di quella cultura raggiunge il vertice nell'epoca moderna e secolarizzata, da Baruch Spinoza a Martiri Buber a Harmah Arendt. L'India classica, a sua volta (ecco un'altra diversità che colpisce), è al di fuori dell'Occidente il terreno che più di ogni altro ha prodotto una filosofia vasta, organica e autonoma rispetto al mito e alla cosmogonia (la variante egizia) e rispetto alla teologia e all'etica (la variante ebraica): quindi, l'unico terreno di cultura in cui la parola "filosofia" abbia il significato di speculazione assoluta proprio della civiltà ellenica, e, in prospettiva, dell'intera civiltà occidentale. Chi cerchi un "pensiero speculativo" nei documenti dell'antico Egitto (e per molti aspetti, in quelli dell'antica Mesopotamia) difficilmente troverà nelle fonti scritte un "pensiero" in senso stretto. Pochi passi mostrano la disciplina e la forza raziocinante che siamo soliti associare alla filosofia come in Occidente la intendiamo. Nell'antico Medio Oriente, il pensiero è ammantato di immagini, e potremmo considerarlo contaminato dalla fantasia. Tuttavia, la differenza si attenua se ricordiamo che le origini del pensiero ellenico furono anch'esse intuitive, immediate e imaginistiche, più vicine alla poesia che alla scienza, e che proprio in Occidente l'ultima fase, reagendo a secoli di filosofia sistematica e rigorosamente logica, si è orientata verso una editazione assai più vissuta che non o oggettiva sul "sé" dell'uomo (Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Sartre, Husserl, Heidegger).
La differenza fondamentale tra l'atteggiamento filosofico moderno e quello antico e mitico è la seguente: per l'uomo moderno dell'Occidente "scientifico" il mondo fenomenico è in primo luogo un quid; per l'antico egizio è un "Tu". Questo cancella la rigorosa distinzione tra soggetto e oggetto: durante le alluvioni, il fiume non rifluisce perché "si rifiuta" di rifluire, e l'uomo è costretto a identificarsi con le sue acque per capire le ragioni del rifiuto. Per l'antico egizio, filosofia era essenzialmente trovare le vie per legarsi alla natura nel contesto delle sue misteriose relazioni, all'universo nella sua totalità. I simboli illustri presenti nella scrittura geroglifica, che è tutt'uno con l'iconografia egizia, non sono segni, ma realtà attive. La notissima croce ansata o ankh (ankh significa "vita" o "vivere" o "vivente" cara una ventina d'anni fa agli hippies che la ostentavano al collo manifestando velleità di primitivismo e di originarietà contro l'oggettivismo della tradizione occidentale, non era, per l'abitante dell'antico Egitto, un segno: era realtà e sovrappiù di forza vitale. Per lui, disegnare la croce ankh su una parete o scriverla su un papiro, non era "indicare" un concetto ma "essere" quel concetto. Era l'intensificare la propria vita, magari un garantire meglio la propria speranza d'immortalità. Era, quindi, un modo di fare della filosofia. Ora, fra i simboli fondamentali dell'antico Egitto c'è l'udjat, parola che significa "occhio del suono". Per collocare l'udjat (sormontata da un vigoroso sopracciglio, l'immagine è quella di un occhio sagomato a testa di falco con un'iride rossa e una grossa pupilla; dalla palpebra inferiore si dirama il ricciolo della corona faraonica) nel suo ruolo metafisico, siamo costretti in prima lettura a riconoscerne il mito. Seth, il dio del male, strappa un occhio a Horus, il dio-falco, il quale, privo del suo organo essenziale, cade in pezzi. Thot, che vuole restituire Horus alla vita, ne ricompone le membra, ma l'opera è inutile finché non sarà ritrovato l'occhio. Thot lo cerca pazientemente, e già dispera di trovarlo, quando è colpito da una musica misteriosa la cui fonte è irrintracciabile. Si accorge alla fine, guidato dal suono verso la sua origine, che la musica proviene dall'occhio, anzi, è l'occhio. Meglio: l'occhio di Horus è la fonte di tutta la musica esistente sulla terra. Thot raccoglie il prezioso organo, lo reinserisce nel corpo di Horus, il quale riprende a vivere. Disincarnando l'apologo dal suo rivestimento mitico, otteniamo una formula illuminante. Tutta la realtà è vivente, nel pensiero dell'antico Egitto, ma la musica è l'essenza segreta e intima del reale. Quando la musica è "al suo oosto naturale", cioè insita nell'essere vivente, non riusciamo a udirla, proprio perché essa è là dove dev'essere e l'armonia assoluta che essa garantisce fa sì che il suono non sia posto in evidenza. La musica che può essere ascoltata, la musica-suono, è quella sottratta all'organismo vivente e diffusa nel mondo. Di conseguenza, la musica è segno di trauma, di crisi e di provvisorio disordine, di eccitazione in cui lo spirito esce da se stesso, o addirittura di morte. Questo sottolinea le due funzioni primarie della pratica musicale nell'antico Egitto, la festa sfrenata e il rito funebre. Ma poiché, in quella strana civiltà che privilegiava la necropoli rispetto alla città dei vivi (posta la prima a occidente, la seconda a oriente del corso del Nilo; ma il palazzo del faraone, il sovrano-dio, era al centro della necropoli), il rito funebre era il momento in cui più si affermava il richiamo alla vita e ai mezzi per goderla in pieno, la musica aveva il compito di ricordare continuamente l'esistenza del piano spirituale: era una specie di vita isolata in vitro. Un altro insegnamento che riceviamo dall'udjat rappresenta una delle caratteristiche più tipiche dell'antica civiltà egizia, e che a noi appaiono più strane: l'occhio-suono rivendica alla musica-vita una facoltà visiva. La musica, nascosta nell'essere vivente e perciò inudibile, è nel vivente la parte che "vede" ne consegue una filosofica identificazione della musica con la visione.
Un altro mito, importantissimo per il suo tema ma per noi moderni, a causa delle fonti poco decifrabili, enigmatico, è quello che descrive l'origine del mondo. Come nasce il mondo dal nulla? Che cosa esiste, se esiste, prima del mondo? Fra le molte e svariate narrazioni mitiche, la prevalente e per molte generazioni investita di un ruolo ufficiale nell'Egitto faraonico è quella che ancora una volta si riferisce al dio Thot. Essa rientra nell'archetipo, comune a molte cosmogonie, secondo cui tutto ha avuto inizio con la Parola. Il richiamo a qualcosa di vicino a noi, di "nostro", è immediato: in principio erat Verbum. Se spogliamo la formula delle sue connotazioni teologiche, il significato puramente filosofico sopravvive e anzi emerge. Il concetto di Parola rende però soltanto parzialmente il senso originario, poiché, come osserva Marius Schneider, qui si tratta di qualcosa che geneticamente precede qualsiasi parola determinata e qualsiasi concetto logico. Qui si tratta di qualcosa di primario e di sovraconcettuale, indefinibile per il pensiero logico. Gli egizi, alludendo a questo elemento primigenio, parlavano di un "grido" o di una "risata" del dio Thot, e in alcune fonti si lascia intendere velatamente che lo scoppio di risa era stato intonato musicalmente, anche secondo diversi suoni. Prendendo alla lettera queste allusioni, si può indurre che gli egizi immaginassero un'origine del mondo prodotta dalla musica, o dal primo nucleo di essa. Un'importante pagina del Libro dei morti offre maggiori dettagli sulla nascita musicale dell'universo e sull'azione creatrice di Thot. Il dio crea il mondo battendo le mani e accompagnando con questo battito di gioia (modello di ogni strumento a percussione) i suoi scoppi di risa (modelli, forse, del suono dell'arpa), i quali sono in magica successione numerica: sono sette, in toni crescenti. Dalle sette risate nascono altrettante realtà, divinizzate dagli egizi: la terra, il destino, la giustizia, l'anima, il giorno, la notte, l'intelletto. "Vedendo tutto ciò, il dio fu colpito da stupore, come dinanzi a un nuovo essere più potente di lui, e abbassando il suo sguardo verso la terra proferì tre note musicali: IAO. Allora il dio che è padre di tutte le cose nacque dall'eco di quei tre suoni".
IAO: la successione dei tre suoni è discendente, dall'acuto I all'intermedio A al più grave O. In tal modo, si disegna un moto contrario a quello ascendente dei sette scoppi di risa. Nelle istruzioni al Thot Tarot Deck, il terrificante mazzo di tarocchi da lui stesso dipinto e ispirato alla tradizione di Ermes Trismegistos (e quindi, alla lontana, all'esoterismo dell'antico Egitto), il satanista Aleister Crowley invitò gli adepti, sessant'anni fa, a iniziare il rito cartomantico recitando le magiche vocali IAO. Esaminando il mito di Thot artefice dell'universo, e svestendolo ancora una volta della sua simbologia immaginistica sì da ridurlo per quanto è possibile a un nucleo concettuale, osserviamo come la musica racchiuda interamente il mondo come entità creata, anticipandolo e concludendolo: i moti contrari delle serie di suoni sottolineano la simmetria. Sopravvive un enigma: se Thot crea, chi è il dio padre di tutte le cose cui si allude allu fine? Unìpotesi è che egli sia Ptah (l'"immenso Fta" di Aida) e si dovrebbe ammettere in tal caso che il dio padre sia a sua volta oggetto di creazione da parte di Thot. L'incongruenza non sarebbe incontrasto con la mentalità pre-logica della cultura egizia. L'altra ipotesi è che il dio sia di nuovo lo stesso Thot, il quale, secondo una concezione speculare (anch'essa non estranea a quella cultura), creerebbe se stesso. In termini non metaforici: la musica creerebbe se stessa. Un esito teorico si rivela comunque: il mondo e l'uomo, essendo fatti dalla musica, sono fatti di musica, di essa materiati, e mediante la musica in atto nelle occasioni terrene e quotidiane gli uomini imitano la divinità e rinnovano l'atto della creazione.
Il numero sette, nella successione delle risate musicali di Thot, è tale da indurre suggestioni fin troppo facili, quando si parli di musica. In realtà, il sette degli egizi, come il sabaoth ebraico (il "settenario", struttura archetipica dell'universo), è un modello simbolico e mistico, ideogramma numerico della perfezione. Come illustrò, per primo in Occidente, Antoine Court de Gébelin (Le monde primitif, analysé et comparé avec le monde moderne, Boudet, Paris 1775-1784) l'uso simbolico di quel numero discende dalla "formula del sette" applicata dagli egizi alla musica come all'astronomia, all'alchimia come al calendario. Da quel poco che risulta alle nostre conoscenze, il sistema musicale in uso nell'antico Egitto non accoglieva scale di sette suoni. Le ricerche archeologiche hanno posto nelle nostre mani alcuni strumenti aerofoni, ma i tentativi d'individuare i suoni che essi potevano emettere danno risultati incerti. Osservando la posizione delle dita sulle corde delle arpe egizie, così come c'e la presentano le sculture e le pitture murali o papiracee, Curt Sachs ha supposto un'accordatura pentatonica. Ciò sarebbe in armonia con un passo delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, il quale chiama l'arpa egizia organ on trigonon enarmonion, ciò che suggerirebbe una scala pentatonica senza semitoni. D'altra parte, la musica suonata in Egitto ma importata dall'Asia faceva uso di brevissimi intervalli, compreso il quarto di tono (ancora secondo Curt Sachs, Die Tonkunst der alten Aegypter, in "Archiv für Musikforschung", 11/ 1920, 9). Soltanto un dilettante spericolato o un battistrada scapicollato oserebbe istituire un rapporto "filosofico" tra la meditazione dell'alta cultura egizia sull'origine del mondo e un sistema musicale, tra l'altro incerto nella sua vera realtà ai nostri occhi di uomini moderni. Ma se la scala per toni interi corrispondeva davvero a una vocazione dell'anima nazionale e dell'etnia, potremmo persino interpretarla come l'elemento di un linguaggio non interiorizzato, animoso nel volgersi verso l'altro e nel farlo proprio, disposto ad abbracciare il reale in una musica-visione, in un suono-occhio.
La stessa lingua egizia, quale ci viene incontro dalle scritture geroglifiche, sottolinea il ruolo primario che l'arte musicale aveva nell'antica valle del Nilo. In un idioma monosillabico-agglutinante, i puri monosillabi sono gli elementi originari e primari, le fonti del pensiero e della parola. Tali sono tutti i termini principali riferiti all'arte dei suoni; hy (musica), henw (canto), teh (suonare).
Agli oggetti primari, connessi con l'inizio delle cose, va attribuita una semantica soltanto in parte svelata: la zona di mistero persiste intatta. L'origine della musica è misteriosa come l'origine della filosofia. Il cono d'ombra che le nasconde è forse un fascio di luce troppo accecante, e su ciò che è al di là dello schermo o della cortina di nubi (o sulle insondabili profondità sotterranee, secondo una diversa prospettiva) può aprirsi con dovizia una discussione. Non dissimili arcani gravano sulle origini del pensiero, della scrittura e della musica nell'aurorale cultura ebraica. Ci è oscuro se sia esistita una riflessa e speculativa distinzione intellettuale tra i due strumenti musicale che nell'antica terra d'Israel rappresentarono una polarità, il corno d'ariete (sofar), guerresco, aggressivo e demoniaco nelle sue risonanze soprannaturali, e la nobile lira (kinnor) compagna della meditazione e ispiratrice di saggezza. Analoga è la nostra incertezza sulla natura propriamente filosofica del pensiero diffuso nelle Scritture storiche, didascaliche e profetiche della Torah. E' difficile definire "metafisica" l'immensa meditazione biblica; essa discende spesso dal livello metafisico a quello etico (ed è il suo lato più sgradevole) oppure si libra verso una zona superiore al pensiero stesso, inabissandosi in un "Tu" impenetrabile e confondendosi con la formulazione teologica, Nella Bibbia, Dio è troppo presente perché una vera filosofia dell'uomo non ne esca soffocata. Perché si possa parlare di filosofia dovremmo riconoscere un linguaggio propriamente logico e astrattivo nella speculazione sulle realtà supreme, e invece il piano logico, nella Bibbia, si dissocia da quelle realtà e slitta in basso, là dove meno ne sentiamo l'urgenza: nella morale, che ne risulta coartata e irrigidita e diventa facilmente odioso moralismo. Soprattutto la sessuofobia, nella Bibbia non ancora onnipresente come nel cristianesimo paolino o nel cattolicismo posttridentino ma già proterva, rende la morale biblica lontanissima dal solare costume egizio in materia sessuale: solare, stranamente, forse soltanto sotto quell'aspetto, nel contesto di una simbologia essenzialmente funeraria.
Eppure, l'invisibile filosofia della cultura biblica è latente, e il suo talento è forte. Ce ne accorgiamo scoprendo la novità che l'antico Israel, unico fra le civiltà dell'era precristiana nell'area mediterranea, aggiunse al dominio della filosofia: la meditazione sulla storia, sull'attesa degli eventi. L'Ellade e l'Egitto faraonico erano mondi privi d'interesse per l'interpretazione storica della realtà, culturalmente inadatti a storicizzare i concetti; fu invece questo il talento dei profeti biblici, ma anche gli autori del Pentateuco e dell'Ecclesiaste ne diedero prova. Il tempo, elemento irrazionale e non concettuale per la maggior parte degli intellettuali ellenici ed ellenistici, diventa chiave precisa di lettura e strumento di verità nelle pagine della Bibbia. La stessa creazione, che in altre cosmogonie è un semplice atto, nel Genesi si configura come un "periodo" con le sue scansioni. Pochi secoli dopo la composizione del Pentateuco, nei libri profetici, i giorni della creazione già suggeriscono un'interpretazione allegorica, e tendono a rivelarsi come "epoche" la cui successione è razionale, sorretta da una logica che ha sentore di filosofìca modernità. L'analisi secondo allegoria è un progetto compiuto nel momento in cui è storicamente possibile la fusione culturale tra la sapienza della Torah e il logos platonico, e ciò avviene nell'opera di Filone d'Alessandria, massimo rappresentante della filosofia ellenistico-giudaica, nato nella metropoli dell'Egitto greco-romano tra il 30 e il 20 a.C., morto verso il 40 d.C. poco dopo avere guidato una sfortunata ambasceria di ebrei alessandrini a Roma per invocare da Caligola una pofitica più umana verso l'etnia giudaica, e considerato il "Platone ebraico" dagli intellettuali suoi contemporanei. Ebbene, proprio quando la rivelazione mosaica viene illuminata dalla razionalità del logos, l'oggetto privilegiato di quell'operazione è il nesso tra la creazione e la musica.
Il passo di cui parliamo è nel grande trattato filoniano De opificio mundi, 45-52. La creazione non è soltanto "buona", connotato etico che Filone non accentua troppo, ma è soprattutto tecnicamente perfetta. Perfetta come che cosa? Adottando un termine di paragone, il filosofo ricorre a un'analogia musicale, lasciando intendere che la musica è il paradigma di ogni perfezione: argomento squisitamente platonico, ma applicato a un concetto, la creazione dal nulla, estraneo a Platone, e tipicamente ebraico. L'osservazione rivelatrice si riferisce, nel commento filoniano del testo biblico, al quarto giorno della creazione. "Il quarto giorno, dopo avere creato la terra, Dio fece il cielo, dandogli ordine e bellezza come un auriga alle redini, come un pilota afferrato al timone. Egli guida tutte le cose nella direzione da lui voluta, secondo legge e giustizia, non avendo bisogno di altro: tutto infatti è possibile a Dio. Il cielo, creato il quarto giorno, fu ordinato a sua volta secondo quel numero perfetto, il quattro, che contiene i rapporti numerici delle consonanze musicali: gli intervalli di quarta, di quinta, di ottava, di doppia ottava. Nell'intervallo di quarta, il rapporto è di 1 1/3:1 (4:3), e quindi l'intervallo di quarta contiene altri due numeri perfetti, l'idea di 3 e l'idea di 7. Il 4, radice dell'intervallo di quarta, è il punto di partenza dei quattro elementi e delle quattro stagioni". Temi di tradizione pitagorico-platonica, intimamente fusi con il racconto biblico; e più avanti (De op. m., 70) Filone fa propria l'idea platonica di un universo di sfere che produce "leggi di musica perfetta" (mousikés teléias nómous).
Fino a questo punto, la ricerca di legami organici tra pensiero filosofico e pensiero musicale ci ha concesso soltanto lampi che solcano zone oscure. Il panorama che ci offre l'India classica è, al contrario, vasto e maestoso. La filosofia indiana, come ha scritto cinquant'anni fa lo studioso singalese Ananda Kentish Coomaraswami (1877-1947) in Am I My Brother's Keeper?, è l'unica filosofia che si proponga come pensiero ecumenico, capace di accogliere in sé le filosofie di tutte le altre civiltà, così come, su un altro piano, la religione islamica vanta se stessa come la più ecumenica fra le tradizioni religiose. Ugualmente ampio e onnicomprensivo è l'apparato strumentale e il sistema musicale. In particolare, il celebre liuto a manico lungo, il sitar, con le sue 7 corde di cui 5 per la melodia e 2 per il ritmo sembra alludere contemporaneamente all'uso di scale pentafoniche, alla maniera dell'estremo Oriente, e a scale eptafoniche come le nostre. Più vicino all'Occidente è il fondamento della teoria musicale. Gli svara ("suoni intonati") sono 7: shadja (Sa), rishaba (Ri), gandhara (Ga), madhyama (Ma), panchama (Pa), dhaivata (Dha), nishada (Ni). Nella tradizione, la teoria musicale indiana si fonda su tre scale (grama) fondamentali, che prendono il nome dalla nota iniziale: sagrama, magrama e gagrama. Poiché nella sagrama la successione delle note corrisponde, sia pure approssimativamente (gli svara non hanno un'altezza assoluta), alla nostra scala diatonica di do maggiore, ne risulta che nella magrama e nella gagrama gli intervalli (shruti) si combinano in modi diversi, un po' come avviene nelle scale discendenti dell'antica musica greca o nei modi ascendendi del medioevo cristiano. Inoltre, poiché le 7 note della gamma subiscono alterazioni mediante diesis (tivra) o bemolle (komal), si creano diversi "modi" (raga). Ogni grama e ogni raga hanno una loro connotazione etica o estetica, relativa a tensioni dell'animo e a disposizioni intellettuali. La gagrama, per esempio, è la "scala celeste".
Il significato filosofico della musica, che nella tradizione dell'India classica è la decisiva chiave di lettura del mondo, appare in tutta la sua chiarezza dalla tavola delle connessioni tra gli svara e le realtà mondane, naturali e simboliche, concettuali e metafisiche, fisiche e astrologiche. In ogni giorno della settimana si rispecchia un'era del mondo, un elemento costitutivo della natura, un connotato sessuale, un corpo celeste; e tutto, sesso e scansione temporale, sostanza terrestre e astro celeste, è riassunto con densità di significato (e con impegno ad agire secondo "quel" carattere e non secondo altri) in uno svara:
 
Il significato filosofico della musica appare soprattutto nei paesi in cui i testi della tradizione induista affrontano il tema supremo: le origini del mondo. Noi possiamo avvicinarci a questi enunciati, esposti in linguaggio sublime e con assoluta limpidezza concettuale, percorrendo due vie di accesso. Esiste, nella Brihadáranyaka Upanishad, una "narrazione etica". Prima del mondo, anzi, prima dell'esistenza in quanto tale, esiste ciò che noi occidentali chiameremmo un ente ideale, una pura potenza non tuttavia irrazionale (come quella aristotelica) bensì luminosa e trasparente: il suono musicale. La musica delle origini ha in sé la potenzialità della parola assoluta, che però è ancora ineffabile (come, nell'esoterismo ebraico dello Zohar, il linguaggio con cui Dio parla soltanto a se stesso): non è ancora linguaggio comunicabile. Questa musica cosmica è l'universo nella sua fase di immobile eternità prima del tempo. Poiché tale musica è perfetta, non scandita dal tempo che ancora non c'è, essa è inudibile, né d'altra parte alcuno esiste che possa udirla. Quando, misteriosamente (ma può esistere un "quando" se ancora non esiste il tempo?), appare la paura nell'universo-musica, lo splendore e il suono si offuscano e nasce il linguaggio articolato, comunicabile e umano. Nel Samaveda, il tema è ripreso larvatamente: la paura che appare all'improvviso nella sfera dell'essere è null'altro che il tempo, che si unisce con il suono primordiale: dalle nozze del suono e del tempo nasce la musica degli uomini, scandita, diffusa sulla terra e misurabile nella storia. Esiste poi la più celebre "narrazione metafisica", esposta nella Maitráyana Upanishad (VI, 3). In principio non esiste l'universo: esiste soltanto un buio universale pieno di suono, e questo suono primordiale è il più aperto, chiaro e diffuso. Perciò è condensato nella vocale A. In urla fase intermedia, la creazione prende avAo dalle mani di Bráhman (ma da dove esce Bráhman?). Una certa materia, ancora fluida e nebulosa, comincia a condensarsi, ad essere "visibile"; la sua visibilità paga un prezzo, ed è l'oscurarsi del suono, il quale diviene più cupo e meno brillante. La tradizione induista lo connota con U: sempre una vocale, ossia sempre una risonanza squillante, ma è la vocale più chiusa. Nella terza e ultima fase della creazione, il mondo si fa solido, la luce invade lo spazio, e all'inverso il suono si spegne, riducendosi a un brusìo, a un rumore: M. Ai suoni vocalici, nell'ideogramma alfabetico, subentra un suono consonantico. Così il mondo è creato, e l'eternità è offuscata dal tempo, peraltro necessario all'esistenza degli uomini. Le tre lettere AUM formano una sillaba sacra, che nella tradizione, contraendo le due vocali, diviene OM. Nel diagramma OM è la sintesi dell'universo nato dalla musica.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 3, Marzo 1990, Anno XIV)

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