Il linguaggio dei compositori più giovani (quelli definiti, con varietà d’accenti e d’intonazioni, "neo-romantici", "neo-galanti", "neo-banali", ecc.) dà luogo a due tipi di reazioni. Da una parte, una certa preoccupazione per quello che apparirebbe come una sorta di disimpegno; dall’altra, un "finalmente" sin troppo enfatico (ma val la pena di ricordare che, dinanzi a ogni sorta di soluzione, progressista o attardata, interessante o banale, capziosa o limpida - qualche personaggio servizievole che dica "finalmente", lo si trova sempre).
Entrambi gli atteggiamenti, appaiono quantomeno sfuocati. Non tengono conto, infatti, che il grafico della produzione "d’arte" esprime, ormai, un rapporto maggioritario con se stesso, col proprio "io so", col proprio "sono costretto a sapere certe cose e a ignorare ciò che, in queste cose, non sia pienamente integrabile". Non tengono conto, cioè, che il rapporto col mondo, già ipermediato all’epoca dei primi espliciti tentativi solo di sopravvivere (le avanguardie storiche), lascia passare, ormai, segnali pressoché irrilevanti. Certo, si potrebbe dire, usando l’ennesima parafrasi, che, se il mondo non risulta dalla musica ("d’arte"), tanto peggio per il mondo. Certe cose, però, è bene saperle; ed è ancor meglio tenerle costantemente presenti.
Si dice, anche, che in musica, essendo accaduto tutto, nulla può avere, di nuovo, interesse: né traumi di rottura, né, tanto meno, traumi (indotti) di ricomposizione, di reintegrazione linguistica. Non sapremmo proprio dire se, in effetti, sia accaduto tutto; sicuramente, con la "nuova musica", è accaduto molto. Solo che codesto "molto", liberato dalla dialettica col mondo voglio dire dalla ricezione e dal rendiconto a una pluralità tendente verso un che di comune, è accaduto sopra se stesso. E' accaduto da, con, per e verso se stesso. E la questione infine più valida o quantomeno più autenticamente drammatica della "nuova musica" - cioè, la sopravvivenza del singolo: teoricamente e passivamente maledetta da una sinistra istituzionale almeno contraddittoria e sospetta - è data per superata o, meglio, per non più attiva. Forse il nuovo linguaggio da cui prende l’avvio il nostro discorso, deriva proprio da questo: che vivere è meglio che sopravvivere. In pratica, la nuovissima musica ha rinunziato ai condizionamenti, e con essi anche ai dolorosi e tortili privilegi, della cultura: cioè, a un sia pur solo ideologico protagonismo.
Ovviamente, non si può colpevolizzare qualcuno o qualcosa, a causa di codesta tendenza. Soprattutto perché è errato il concetto, sia pur dilatato al massimo, di colpa. La validità di tale concerto, infatti, presupporrebbe non solo una "cultura" paleocentrica da difendere, ma anche l'esistenza di una "cultura" tout-court, sia pur solo da scagliarcisi contro. Piuttosto, l’esistenza di un linguaggio come quello usato dai compositori più giovani (ma non solo da essi, come vedremo), è il frutto più normale, persin più ovvio, dell’allentamento di tensioni autentiche (cioè non costruite su una serie infinita di presupposti) all’interno del campo significativo dei riferimenti riconducibili agli elementi del linguaggio e alle loro possibili concatenazioni. E codesto allentamento di tensioni, a sua volta, deriva (e siamo, qui, alla scoperta dell’acqua calda) dall’assoluta non incidenza sul mondo, dalla parzialità surrogante con concetti e con ideologie, del modus operandi e delle tensioni dell'eurocultura.
Sono state necessarie queste nuove esperienze linguistiche, per comprendere definitivamente che cultura e mondo sono due entità separate e, ormai, lontanissime. Del resto, che anche gli ormai anziani rappresentanti della "nuova musica" (da Nono a Donatoni, a Berio, ecc.) abbiano recuperato, con disperazione più o meno esplicita, la dimensione, se non della godibilità certo del riconoscimento immediato in zone linguistiche cariche di un passato fruibile senza fratture 0 senza altri filtri da quelli che "fanno" l’opus - anche questo fatto dimostra non che il mondo sia lontano dalla musica, ma che si è preso pienamente atto di codesta lontananza, dell’assoluta non interferenza dell’uno sull’altra. Anche qui, e non importa se poi contraddetta da dichiarazioni o da proclami, la rinunzia a ogni protagonismo (ideologico).
"Dove va il linguaggio?". Se il "va" presuppone l'esistenza del mondo, il linguaggio non "va". E, questo, da un bel pezzo. Solo che c’era, fino a ieri, la possibilità di occultare questo "non" con l’enorme carica di presupposizione ideologica che era anche, per la "nuova musica", l’impulso per una ricerca che, per tali ragioni, aveva la non insensata, anche se illusoria, pretesa di porsi come essoterica, di essere verificabile politicamente (e solo uno lo ha fatto fino in fondo: Franco Evangelisti). Con le ultime esperienze, il mondo - recuperato un po' ipocritamente e ingenuamente, a livello di proclama, attraverso la categoria del "gradevole" - ha dimostrato proprio di non esserci, di essere del tutto estraneo all'evoluzione della problematica della musica d’arte. Se venti-trent’anni fa non c’erano le condizioni perché la ricerca si svolgesse su materiali comunitari (e perché la musica fosse, detto in soldoni, "facilmente comprensibile"), non si vede come, oggi, codeste condizioni siano mutate sì da generare una "facile comprensibilità". Si tratta solo, ripeto, della conferma dell'estraneità totale del mondo dalla musica. E preoccuparsi, o rallegrarsi, di questo, vuol dire - ancora una volta - avere in mente il modello dell’antico protagonismo ideologico, cioè assecondare l’antica schizofrenia della comprensione della musica a prescindere dalla comprensione del mondo.
Il non protagonismo (o, se si vuole, la cessazione d’ogni illusione protagonistica) consente, alla musica, una più concreta possibilità di frequentazione del potere; e consente, al potere, un uso più disinvolto, molto meno imbarazzato (per via delle famose "contraddizioni sulla pelle": che non ci sono più), della musica. Le due entità - potere e musica -, probabilmente, avevano bisogno l’uno dell’altra: senza che quello fosse più obbligato a palesarsi bieco e incolto; e senza che questa vestisse panni troppo attardati e ignari. La pace, comunque, è fatta: e, questo, si può dire per il semplice fatto che, anche a guardare col microscopio, non si individua un motivo di conflitto che è uno. Anzi, il conflitto è aura: oggetto d’allusioni, in caso di necessità, o di ricordo, o di quello che volete voi. Ingombrante, in nessun caso. Ripeto: le cose, basta saperle. E il nuovo linguaggio ha questo, di bello: che non te le nasconde certo. A tal punto, che prendersi lo spazio per le condoglianze (o per le felicitazioni), è già un arbitrio.
Il non protagonismo (o, se si vuole, la cessazione d’ogni illusione protagonistica) consente, alla musica, una più concreta possibilità di frequentazione del potere; e consente, al potere, un uso più disinvolto, molto meno imbarazzato (per via delle famose "contraddizioni sulla pelle": che non ci sono più), della musica. Le due entità - potere e musica -, probabilmente, avevano bisogno l’uno dell’altra: senza che quello fosse più obbligato a palesarsi bieco e incolto; e senza che questa vestisse panni troppo attardati e ignari. La pace, comunque, è fatta: e, questo, si può dire per il semplice fatto che, anche a guardare col microscopio, non si individua un motivo di conflitto che è uno. Anzi, il conflitto è aura: oggetto d’allusioni, in caso di necessità, o di ricordo, o di quello che volete voi. Ingombrante, in nessun caso. Ripeto: le cose, basta saperle. E il nuovo linguaggio ha questo, di bello: che non te le nasconde certo. A tal punto, che prendersi lo spazio per le condoglianze (o per le felicitazioni), è già un arbitrio.
Gianfranco Zàccaro
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXV, n. 1 - gennaio 1982)
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