Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, agosto 21, 2024

Edwin Loehrer, straniero in patria

Edwin Loehrer (1906-1991)
Il 26 ottobre 1985 la Banca della Svizzera Ita
liana, attraverso la sua Fondazione del Centenario, conferì a Edwin Loehrer il premio ch'essa annualmente dà a personalità segnalatesi nella promozione dei rapporti culturali tra l'Italia e il Canton Ticino. In quella circostanza fui invitato a tenere la laudatio per l'insigne musicista, allora quasi ottuagenario e ancora assai attivo.
Nel riproporre ai lettori di Symphonia quel profilo della personalità artistica di Edwin Loehrer ho, per due motivi, rinunziato a qualsiasi ritocco. Da un lato, l'occasione festosa del discorso, e la circostanza che nel Ticino - uno Stato che non ha la metà degli abitanti di Bologna - tutti si conoscono con tutti, giustificano un tono confidenziale che a tutta prima potrebbe disorientare il lettore italiano. Dall'altro lato, purtroppo, non c'è gran che da aggiungere al ritratto dell'artista Loehrer: che poco tempo dopo quella festa sospese l'attività, e che il 10 agosto dell'anno passato, dopo lunga invalidità, in silenzio se n'è andato a far musica cogli angeli.

Nell'esperienza vissuta da ciascuno di noi v'è sempre un episodio cruciale, un evento folgorante che, tra i 15 ei 20 anni, cade a determinare in maniera indelebile la cultura individuale, viene ad imprimere una svolta irreversibile negli orientamenti del gusto e della sensibilità, di quel corredo insomma che accompagna poi la vicenda d'un uomo attraverso la sua vita adulta. Quest'episodio, quest'evento - la lettura di un romanzo o di un poema, la visione di un grande film, la rivelazione d'una bellezza di natura, più di raro un accadimento storico di grande portata, ben più spesso un primo, bruciante amore - hanno, nella sfera delle facoltà cognitive e sensibili, una forza pari alla forza schiacciante di quegli eventi remoti e per lo più inconsci che, nei primissimi anni di vita d'un bambino, ne plasmano ineluttabilmente il carattere nella sfera della personalità: ma sono, a differenza da questi, il più delle volte palesi e consapevoli. Per me, quel coup de foudre al qual debbo, in un certo senso, tutto me stesso, la mia stessa vita professionale, promanò da un disco. Quel disco, che venne a squarciare la monotonia casalinga di un uggioso pomeriggio di sabato nel marzo o nell'aprile del 1962, era il Combattimento di Tancredi e Clorinda di Claudio Monteverdi; lo aveva spedito a casa nostra la RSI, più precisamente il Mo. Loehrer, che dell'esecuzione registrata su quel disco, il primo prodotto dalla sua Società Cameristica di Lugano e il primo subito insignito del Grand Prix du Disque, era il direttore.
Conoscevo Loehrer per qualche sbadato ascolto radiofonico, ma soprattutto ne sentivo parlare con grande simpatia e grande stima da due persone che amerei vedere sedute qui stasera ad onorare Edwin Loehrer (e so che egli stesso ne sarebbe felice), ossia mio padre e il mio padrino di battesimo Emilio Maria Beretta: l'entusiasmo ed il senso profondo del bello e dell'amicizia in Beretta e lo spirito scettico di mio padre erano, congiunti insieme, per me adolescente una garanzia indiscutibile dell'importanza e della qualità di quell'uomo che però di persona non conoscevo e che, dedito com'era alla produzione radiofonica vocale, interessava poco o nulla a uno come me che all'epoca badava soltanto a suonare il fagotto e a raccogliere musiche per gli strumenti a fiato. La rivelazione, abbagliante, venne da quel Combattimento del 1962, venne dalla straripante, contagiosa vitalità di una messa in scena sonora e canora che coniugava la flagranza palpitante dell'emozione con il fascino di una distanza storica ch'era, per me allora, vertiginosa. Fu la rivelazione  di una musica, di una concezione della musica, che da allora mi ha soggiogato: ipso facto m'innamorai perdutamente di Monteverdi; quasi senza ch'io me ne sia reso conto lì per lì, i miei interessi di studente prima, di studioso poi, si sono rivolti nelle due direzioni che s'irradiano da Monteverdi verso il madrigale italiano del Cinquecento da un  lato, verso il teatro d'opera del Seicento dall'altro.
Soltanto, quell'innamoramento fatale non si  sarebbe mai dato con una esecuzione qualsiasi del Combattimento: era occorsa quella di Loehrer per scatenare il meccanismo  d'una identificazione che, in un ragazzotto sedicenne, non poteva che essere totalitaria, a corpo morto, intransigente. (Di li a poco, senza saperlo, fu poi Giovanni Orelli, professore di italiano al Liceo di Lugano, a buttare benzina sul fuoco, quando si mise ad illustrarci la qualità visionaria e anzi la tecnica quasi cinematografica del montaggio narrativo nel poema epico del Tasso, che ai miei occhi era soprattutto il veicolo di quelle cruenti ma tenerissime scene musicali monteverdiane.)
Da quel sabato di primavera del 1962 in poi i dischi di Edwin Loehrer, e coi dischi i Grands Prix du Disque, fioccarono alla più bella. Il Laudario di Cortona, filtrato attraverso la luce opalina di un'orchestrazione soavemente neogotica di Luciano Sgrizzi, iPéchés de vieillesse e la Petite Messe Solennelle di Rossini, dell'altro e sconvolgentissimo Monteverdi (i Madrigali guerrieri e amorosi, che mi fecero scoprire il Marino, il Guarini, il Petrarca, dopo che il ginnasio me li aveva fatti detestare), e poi Antonio Lotti, Antonio Caldara, Antonio Vivaldi: e man mano anche i dischi di Luciano Sgrizzi, che, forte d'un certo suo clavicembalaccio sferragliante, imprimeva un piglio ghiribizzoso e impetuoso a Domenico Scarlatti, a Rutini, a Platti, a Paradisi, a Händel...
Tra il 1963 e il 1965 ebbi modo di presentare uno per uno i dischi della Società Cameristica di Loehrer e Sgrizzi alla radio di Lugano, in un ciclo di trasmissioni che furono il mio apprendistato radiofonico (poi vituperosamente tradito) e il mio apprendistato musicologico (poi proseguito con qualche soddisfazione). Loehrer volle ch'io scrivessi una serie di testi introduttivi per alcune delle quindici serie di "Rarità musicali dell'arte vocale italiana".
L'invenzione di questo ciclo pluriennale di sei trasmissioni annue, prodotte dalla RSI e ritrasmesse da un gruppo amplissimo di emittenti straniere, testimonia il genio programmatorio di Edwin Loehrer. Ogni anno, all'Accademia Musicale Chigiana di Siena, alle Vacanze Musicali di Venezia, e un po' dappertutto in Europa, Loehrer teneva d'occhio il mercato dei giovani musicisti e  delle novità musicologicamente interessanti, per includere gli uni e le altre in un ciclo di trasmissioni dedicate a compositori italiani dal Sei all'Ottocento. Erano cose pregevolissime per la loro rarità e qualità musicale, musiche sacre e teatrali e da camera di autori altrimenti poco frequentati, da Leonardo Leo a Giovanni Paisiello a un'opera "chiave" dello stesso Verdi, lo Stiffelio, curiosamente bandita dalla programmazione corrente, o dello stesso Rossini (il Mosè nella versione napoletana), cose che Loehrer ha diretto e concertato in proprio oppure affidato a direttori ospiti. Sono cose che mancano tutt'oggi sul mercato discografico, e la RTSI farebbe bene a farle stampare in disco il giorno che l'interesse delle emittenti straniere si andasse esaurendo. Sono, intanto, produzioni che hanno portato a Lugano musicisti di ogni parte d'Europa, e hanno diffuso in ogni parte del pianeta il nome di Radio Lugano.
La serie delle "Rarità" era a sua volta una continuazione ideale del primo ciclo organico prodotto da Loehrer, i "Monumenti musicali della polifonia vocale italiana", nove serie che avevano accompagnato la carriera del coro radiofonico e avevano introdotto da noi l'idea di una programmazione a lunghissima gittata, l'idea di una raccolta di "Monumenti", di Denkmäler, secondo una concezione e una denominazione che Loehrer ha evidentemente assorbito nella sua formazione musicologica, collaborando ai Denkmäler der Tonkunst in Bayern con l'edizione delle messe di Ludwig Senfl. Ora, ci voleva dal coraggio a trapiantare l'idea stessa di "monumento", intesa come "ammonimento" del passato storico alla posterità, come lascito e monito artistico ma anche morale e ideale rivolto al presente, in un mezzo antimonumentale come quello radiofonico e in un paese dal passato ben poco monumentale come il nostro. Ma l'azzardo e l'investimento - suo e dell'ente radiofonico - si rivelarono paganti, lo sforzo attecchì, in ragione della qualità artistica e insieme della tenacia realizzativa dell' uomo, nonché della struttura aziendale della radio di Lugano che, con tutti i condizionamenti e le limitazioni derivanti dalla sua esiguità, ha sempre coltivato un suo profilo sufficientemente duttile e agile. Tra quei "monumenti" polifonici registrati da Loehrer col suo coro, misto di professionisti ospiti e dilettanti indigeni, c'erano poi cose per loro natura tutt'altro che monumentali, come le carnevalesche, giocose "commedie armoniche" di Adriano Banchieri e Orazio Vecchi, opere alle quali Loehrer è ritornato nelle sue ultimissime produzioni discografiche, roba dell'altro ieri, quasi le avesse covate e ricovate per trenta e passa anni, come per suggellare un suo ciclo interiore e per delibare tutta la vitalità che ancora racchiudono quei suoi "monumenti" null'affatto statuarii e così eccitatamente "presenti" davanti a noi, dentro di noi.
Quello che ho tracciato è il riassunto sommario del Loehrer che ho conosciuto io, e mi scuso, con Loehrer e con il pubblico, per aver parlato molto di me oltre che di lui: ma non poteva essere altrimenti, visto che debbo letteralmente buona parte di me a Loehrer. Se tuttavia cerco di interrogare il senso di ciò che costituisce l'inimitabile peculiarità dell'artista Loehrer, e di ciò che essa ha significato per questo paese, debbo rivolgermi ad altre considerazioni, a momenti ed episodi della sua attività che non riguardano più me bensì tutti noi e, innanzitutto, lui medesimo. Ignoro quale sia stata per Loehrer quella folgorazione della sua vita di adolescente che ne ha coniato irredimibilmente il profilo artistico e culturale: ed è ovvio ch'io lo ignori, vista la riservatezza dell'uomo, poco incline a lasciar trapelare le sue confidenze sotto la scorza ruvida di una, come dire, affabile misantropia. Credo però di cogliere una congiuntura rivelatrice nella sua precoce e poi interrotta formazione di musicologo, svoltasi fianco a fianco con quella di musicista. Dal 1928 al '30, ossia dai 22 ai 24 anni, Loehrer studiò alla Akademie der Tonkunst di Monaco di Baviera, indi al Conservatorio di Zurigo; parallelamente studia musicologia, e si laurea nel 1936 a Zurigo con Antoine-Elisée Cherbuliez, con una tesi sulle Messe di Ludwig Senfl. Delle Messe di Senfl, per incarico de1l'Associazione dei Musicisti Svizzeri, cura l'edizione "monumentale" insieme col musicologo e sacerdote bavarese Otto Ursprung, per la serie bavarese di Das Erbe deutscher Musik, nell'ambito di una frastagliatissima edizione delle musiche di Senfl che fu voluta congiuntamente dalla Schweizerische Musikforschende Gesellschaft, dallo Staatliches Institut für deutsche Musikwissenschaft dall'Associazione dei Musicisti Svizzeri. Ora, Ludwig Senfl non era un argomento neutro, innocuo, innocente, un oggetto candido di erudizione, in quegli anni. Ricordo che l'edizione apparve soltanto nel 1936, quando l'aria che tirava in Germania, e di riflesso in Svizzera, era cambiata non poco, e non in bene. Al Doktorvater di Loehrer, a Cherbuliez, si deve un contributo decisivo Zur Kontroverse über die Herkunft von Ludwig Senfl (della controversia intorno all'origine di Ludwig Senfl), apparso in Acta Musicologica, organo della Società Internazionale di Musicologia, nel 1933: questo contributo portava la prova irrefutabile del fatto che Senfl era nato sì da genitori originari della Brisgovia, ma probabilmente a Basilea intorno al 1486 ed era vissuto, fino all'età di 10 anni, in territorio elvetico, prima di entrare stabilmente al servizio della corte imperiale di Massimiliano
I. La cosa a noi, oggi, pare di nessun momento: ma allora, negli anni trenta, la questione della "elveticità" di Senfl era cruciale. Nel 1938, in simultanea con l'uscita della sobria dissertazione filologica di Loehrer sulle Messe di Senfl, Willi Schuh, docente al conservatorio di Zurigo e critico musicale della "Neue Zürcher Zeitung", che ha dedicato gran parte della sua attività di allora alla valorizzazione del patrimonio musicale "nazionale" svizzero, pubblicava una monografia su Senfl nella serie editoriale "Grosse Schweizer", "Grandi Svizzeri". Di Senfl si occupava allora anche Arnold Geering, benemerito musicologo poi cattedratico a Berna, autore di uno studio su Die Vokalmusik in der Schweiz zur Zeit der Reformation (la musica vocale in Svizzera nell'età della Riforma), del 1939. Cherbuliez medesimo dava la spinta e la stura a quest'euforia elvetica, a questa storiografia musicale che affrontava nodi remoti d'un problema in realtà attualissimo: un suo saggio s'intitola sintomaticamente Die Schweiz in der deutschen Musikgeschischte (La Svizzera nella storia musicale tedesca) apparso in una serie, Die Schweiz im deutschen Geistesleben, ossia la Svizzera nella vita culturale tedesca, che porta come luogo d'edizione il binomio Frauenfeld-Leipzig.
Insomma, nell'ambiente in cui lavorava il giovane Loehrer, l'elveticità di Senfl era un problema acuto di identità nazionale, e rientrava in quel problematico, sofferto processo di ricerca di un'identità, di una specificità svizzera che collocasse la Confederazione in un rapporto dialettico stretto ma distinto con la Germania, la quale stava anch'essa laboriosamente, e calamitosamente, ridefinendo la propria identità. Loehrer dev'essersi trovato fin da allora spiazzato in questo gioco congiunto di nazionalismi di diverso segno ma interagenti: svizzero che studia in Germania su un argomento che si presume elvetico per ragioni meramente anagrafiche, ma profondamente coinvolto nella materia stessa delle origini dello "spirito tedesco", cattolico che lavora sulla produzione genericamente "romana" (le Messe) di un musicista che visse in prima persona la crisi di identità della Riforma protestante, fino a divenirne uno dei primi e fulgidi esponenti musicali. E' questo l'ambiente che di colpo, nel '36, a 30 anni d'età, Loherer abbandona per assumere tutt'altro incarico, quello di formare e dirigere il coro in un ente radiofonico che sta agli estremi  opposti della Svizzera, in un Paese che ha per parte sua non meno ardui e virulenti problemi di identità, esposti però su tutt'altro versante. E allora impianta, con la sua esperienza e formazione musicale svizzero-tedesca e germanica, un coro italiano in un paese di dubbia elveticità privo però di qualsiasi aggancio profondamente vissuto né con la tradizione corale d'oltralpe né con quella canora d'Italia. Organizza il repertorio italiano di questo coro secondo il criterio squisitamente tedesco dei "Monumenti". Intesse, da Lugano, una rete di scambi con l'Italia, con la Svizzera, con la Germania, col nord d'Europa in genere. Sfrutta tutte le risorse di una condizione di ambivalenza, o di polivalenza periferica, che gli consente, fin da una data precocissima, di realizzare qualcosa che a ben vedere non si può ancor oggi dire integralmente realizzato su scala europea, e cioè una simbiosi vissuta tra il gusto esecutivo per la "musica antica", coltivato da decenni e decenni al nord delle Alpi, e la "buona pronunzia", la buona "gestualità" vocale italiana (col risultato paradossale che oggi la musica antica italiana è appannaggio pressoché esclusivo di esecutori nordici musicalmente agguerriti che però la storpiano in malo modo con la loro pessima pronuncia e ignoranza delle parole).
In tutto ciò che ha fatto e ciò che fa, Loehrer dimostra una capacità di sintesi che sconcerta, sorprende e affascina, né arretra di fronte alle contaminazioni, agl'ibridi, alle congiunzioni che in teoria si darebbero per fallite in partenza e invece alla resa dei conti funzionano perfettamente. Quel tal Combattimento sensazionale del 1962, per ritornare all'esempio iniziale, era eseguito sopra la discutibilissima "realizzazione" di Virgilio Mortari, una trascrizione che, tanto per dire, interpreta lo "stile concitato" di Monteverdi come tremolo pucciniano degli archi,  e non come brusca percussione di 16 semicrome ribattute per ciascuna semibreve. A Londra, in un paese dove la performance practice è di casa da sempre, il Combattimento di Loehrer suscitò reazioni tiepide nella critica musicale; a Parigi, le reazioni furono osannanti. In linea di diritto, avevano ragione gl'inglesi; in linea di fatto, l'impatto emozionale che soggiogò i francesi, e non solo loro, era enorme, ma lo era per intuizione, per facoltà mimetica sostanziale, e non per mimesi puramente formale. Ottenuto per vie improprie, ma catturando il nucleo recondito della musica di Monteverdi, il risultato finale era convincente e cogente ad onta delle improprietà filologiche: lo era e, aggiungerò, lo è tuttora, più di vent'anni dopo.
Per riassumere e per concludere: credo che una parte - una parte essenziale - del fascino delle esecuzioni di Loehrer stia nella sua necessità e capacità di impossessarsi, sempre, del linguaggio - verbale e poetico e musicale - ch'egli è chiamato a "parlare" di volta in volta. Edwin Loehrer non "parla" mai - né l'uomo, né il musicista - una lingua propria: la sua madrelingua è come franta, spiazzata, altrove, e il processo linguistico, come quello mjmetico, deve ricominciare ogni volta da zero: con lo stesso fervore, lo stesso quoziente di rischio, lo stesso brivido della riuscita finale come se fosse la prima volta. Edwin Loehrer vive costantemente in una condizione di alterità, fuori dal centro, ma però vicino ad esso, là dove la risonanza è distorta e obliqua, quanto basta per essere percepita come tale. La sua alterità è anche biografica: mai essere a casa, anzi, essere sempre straniero in casa propria: ed è alterità artistica, necessità di impossessarsi della materia fonica della  musica da una posizione di estraneità che è fruttuosa al massimo segno, perché impone una lucidità di sguardo, una vigilanza di concezione sempre all'erta, impedisce le incrostazioni dell'ovvio, dello scontato, costringe ad una invenzione costante. (Per questo, azzardo, i musicisti del XVIII secolo, che "parlano" un idioma più regolato, più levigato, più sciolto, come Caldara o Lotti o Pergolesi, gli sono riusciti tutto sommato meno congeniali di un Monteverdi - innovatore per antonomasia e uomo di sintesi come altri pochi nella storia della musica, dove ogni attimo e scoperta, invenzione, affioramento di una locuzione mai pronunziata prima di quel momento - meno congeniali di un testo "barbaro" come il laudario di Cortona, o su tutt'altro versante meno congeniali dell'eccentrico ed idiosincratico Rossini dei Péchés de vieillesse e della Petite Messe.)
Non parlo di un interesse preminente portato alla sostanza verbale dei brani della musica ch'egli esegue. Gli ho visto usare edizioni letterariamente scadenti, come l'edizione Malipiero delle opere di Monteverdi, e ricordo emendamenti di grossolane sviste poetiche fatti in extremis, in sala di registrazione, e con un disinteresse quasi infastidito. Parlo di un atteggiamento interiore portato a cogliere il senso della frase musicale nell'attimo medesimo della sua pronunzia: un atteggiamento che comporta  una ricerca spasmodica, una strenua messa a nudo della vitalità e della gestualità anche  fisica, corporea, dirò quasi erotica, dell'impulso musicale. Donde la spinta contraddittoria, nelle sedute di registrazione di Loehrer, a ripetere dozzine e dozzine di volte gli stessi passi, le stesse frasi, per catturare a pro della intrinseca ripetitività del disco gli attimi irripetibilmente vitali che affioravano da una ripetizione estenuante. Donde anche la spinta a rifare, a risperimentare sempre da zero gli stessi testi musicali, giacché l'atto del far musica, se riesce, è miracolo - arduo miracolo - che richiede di essere sempre rinnovato e però sempre si consuma.
Il Ticino deve molto a Loehrer: non è soltanto un debito d'immagine, di notorietà europea in campo musicale, è riconoscenza per quello che - come altri ha detto - è un suo momento peculiare, il "merito di non aver mai deflesso da un compito che ci ha aiutati a chiarire il concetto della nostra italianità". Ma la riconoscenza è, credo, reciproca. In nessun paese più del nostro è facile ed è, al tempo stesso, indispensabile sentirsi sempre stranieri in patria. In nessun altro paese al mondo la compresenza del coinvolgimento e del distacco è una condizione esistenziale  continua e vitale, penetrante e pervasiva. Il nostro è magari un paese distratto: ma alla lunga l'identificazione, paradossale, perché appunto coinvolta e distaccata al tempo stesso, viene alla luce. Qui da noi, per un lungo e meraviglioso mezzo secolo, Loehrer ha esibito, laboriosa e fiduciosa e fruttuosa, una duplicità coinvolta e distaccata ch'è intimamente sua e profondamente nostra, e le ha dato voce. Gliene siamo grati da sempre e per  sempre.
Lorenzo Bianconi
("Symphonia" N° 14 Anno III, marzo 1992)

domenica, agosto 11, 2024

Richard Wagner: La fine

Venezia, Caffè Lavena
Narra Paolo di Joukowsky nel suo Diario: «Il giorno 13 di feb
braio (1883) mi recai, come di consueto, a palazzo Vendramin, verso un'ora e un quarto del pomeriggio. Vi trovai donna Cosima che suonava al figlio Siegfried l'«elogio del pianto» di Schubert: fu quella la prima ed unica volta ch'io vidi l'inclita gentildonna seduta al pianoforte.
«Si chiacchierò fm verso le due; poi venne Giorgio, il servitore, ad avvertire che siccome il Maestro non si sentiva bene, potevamo pranzare da soli. Prima di sedere a tavola Cosima andò nella camera da lavoro del marito. Ritornò quasi subito, dicendo: «Mio marito ha uno de' suoi soliti accessi, ma un po' meno forte. L'ho lasciato perchè mi ha fatto segno di voler restar solo».
«Così, tranquilli, come sempre, ci mettemmo a tavola.
«Improvvisamente, sentimmo suonare due volte con forza. Quasi nello stesso tempo sopraggiunse la cameriera Betty, pallidissima, dicendo a Cosima di andare di là subito. Essa balzò in piedi e corse via. Intanto Betty mandava Ganasseta per il medico. Noi restammo, profondamente turbati, silenziosi, aspettando. Verso le 3 si sentì giungere il dottor Keppler. Poco dopo arrivò la gondola che ci doveva portare co'1 Maestro dal pittore Wolkoff. Mentre Daniela stava per uscire per far sapere al pittore che non si sarebbe andati da lui e per far avvertito il dottore di passare da noi prima di andarsene, entrò il servo Giorgio e singhiozzando rivolto a Daniela le disse: «Ah, graziosa Signorina, (gnädiges Frãulein) il grazioso Signore (gnädige Herr) è morto». Io feci appena in tempo di sorreggerla tra le braccia, mentre tutta la casa si riempiva di voci e di gemiti.
«Pochi minuti dopo entrò il dottor Keppler, dicendo che non c'era più niente da fare. Poi, voltosi ai bimbi esclamò:
- Il vostro signor padre è morto! - ».
Quella mattina del 13 febbraio il Maestro alzandosi aveva detto a Giorgio che lo aiutava a vestirsi: «Oggi io debbo stare in guardia! - ».
Dopo fatta colazione con la moglie, si chiuse nello studio, dove terminò il suo scritto: «Il femminino nell'umano».
Il cielo era serrato e grigio: cominciò a piovere.
Per tutta la mattina si sentì il Maestro camminare su e giù per la camera, com`era sua abitudine, fermandosi ogni tanto a scrivere.
Poi ebbe un accesso d'asma, che durava certo da qualche tempo, quando mandò il servo ad avvertire la moglie. Le accennò tuttavia che voleva superare da solo l'attacco; ma Cosima nel1'andarsene lasciò nella camera accanto la Betty, nel caso occorresse il suo aiuto. La cameriera, sentendolo lamentarsi, entrata nello studio, senza essere veduta da lui, lo trovò seduto al tavolo da lavoro, - su cui aveva deposto il berretto, - in fiera lotta col male.
A un tratto lo vide afferrare il campanello: accorse, ed egli le gridò con voce roca: «Mia moglie e il dottore».
Quando giunse, Cosima lo trovò in preda a un accesso terribile. Gli furono apprestate inutilmente le solite cure: i panni caldi, che già avevano servito in circostanze consimili, lo fecero gemere di dolore. Intanto, aiutata da Giorgio, Cosima lo aveva adagiato su un piccolo banco, in quella parte della camera che gli serviva da toletta.
Mentre gli toglievano di dosso le vesti più grevi, gli cadde di tasca sul tappeto il prezioso orologio donatogli da Cosima. Egli esclamò: «Il mio orologio!» (Meine Uhr!) e furono quelle le sue ultime parole. Chiuse gli occhi e non li riaperse più.
Durante la tremenda lotta co'l male, si era spezzato nel cuore un vaso sanguigno, determinando la morte.
Il dottor Keppler, che arrivò poco dopo, sentì che il polso non batteva più, Tuttavia, fattolo coricare sul letto, che era nella medesima stanza, lo spruzzò sul viso, lo strofinò sul corpo. Infine disse: «Non c`è più niente da fare». I presenti s'inginocchiarono muti intorno al cadavere del Maestro, la cui bianca testa era illuminata da una scialba luce crepuscolare.
Di fuori la bufera infuriava.
Giustamente il Glasenapp, da cui ho tratto i particolari che precedono, giunto a questo punto osserva che quanto avvenne di poi, nella intimità della famiglia, non deve essere raccontato: «Sono santità, egli scrive, che nessuno deve toccare».
Tuttavia e dalla stessa biografia del Glasenapp e dai telegrammi e corrispondenze inviate dal Mantovani (Sordello) al Capitan Fracassa, traggo le notizie che seguono, così un poco alla rinfusa, ma scrupolosamente esatte. (1)
Daniela, aiutata dalla principessa Hatzfeldt e da Joukowsky telegrafò subito ad Adolfo Gross per Bayreuth, a Bürkel pe'l re di Baviera, a Michalovich per Liszt, al conte Tasca per i coniugi Gravina. Venne pur avvertita telegraficamente Malvida di Meysenboug, a Roma (2).
Dopo alcune ore giungevano dispacci da ogni parte del mondo, chiedendo notizie e sperando falso l'annunzio della morte del Maestro. (3) Il re Luigi di Baviera telegrafò che desiderava ogni onore funebre al grande estinto fosse reso a Monaco: così fu evitata anzi qualsiasi cerimonia - accompagnamento o dimostrazione funebre - a Venezia.
Cosima vegliò la salma adorata venticinque ore di seguito senza lasciarla un momento.
Il mercoledì, verso le 5, il dottor Keppler la trascinò via, a forza. Allora ella si recise la bella capigliatura, - che il Maestro aveva tanto amato vederle disciolta lungo le spalle - per deporre poi le sue trecce nella bara, sul petto dell'estinto. (4)
Indi accompagnata dai figli entrò nella stanza dov'Egli era morto e ne raccolse religiosamente il berretto, la cravatta e fin gli spilli cadutigli di dosso.
Poco prima che la salma venisse trasportata nella camera da letto, già occupata da Liszt, per procedere al1'imbalsamazione, lo scultore Benvenuti, assistito dal pittore Passini, levò con ogni cura la maschera in gesso del volto. L'imbalsamazione, eseguita dal dottor Keppler e da' suoi aiutanti, riuscì benissimo (5).
La mattina del venerdì 16 giunse da Vienna il Sarcofago. «È di bronzo a due tinte, di sagoma snella, di lavoro finito: ha un crocefisso sul coperchio, quattro puttini rinascimento agli spigoli e quattro teste di leone come anelli. Contiene nell'interno una cassa di metallo chiusa superiormente da un gran coperchio di vetro» (6). Ivi, sul mezzogiorno, seguì la deposizione della salma. «Il medico municipale dottor Gallina (padre del nostro Giacinto) stese l'atto di morte e suggellò con dodici suggelli di stagno la triplice bara in cui stava racchiuso il corpo di Wagner.» (7)
Verso le 13 il feretro fu portato, attraverso all'appartamento fino alla scalinata sull'acqua, da Hans Richter, Joukowsky, Keppler, Passini, Ruben, conte Contin e prof. Frontali. Nel frattempo Cosima tutta vestita di nero, accomiatatasi dagli amici, accompagnata da Maria Gross e dal figlio Sigfrido, scese nella gondola dove l'attendevano il pittore Passini e Daniela. Joukowsky seguiva in altra barca con Eva e Isolda.
Le gondole ammantellate di nero, attraversarono in fila il Canal Grande, precedute da un vaporetto, ornato d'alloro e di palme, su cui era stato deposto il feretro.
Un magnifico sole primaverile illuminava il passaggio del funebre corteo.
Alla stazione la salma fu ricevuta piangendo dal fido «poppiere» Ganasseta.
«Il feretro venne portato a braccia entro il carro merci Ht. 6025, addobbato interamente in nero a frange bianche (8). Poi si riposero le corone tutt`intorno... Indi il carro fu suggellato ed attaccato primo alla locomotiva... La famiglia salì in un carrozzone-sala mandato a posta da Monaco... Poi giunse alquanto pubblico, silenzioso e riverente, per assistere alla partenza del treno, che avvenne alle 2 e pochi minuti. Esso partì per la via di Verona, Ala, Kufsten, Monaco, d'onde avrebbe proseguito per Bayreuth recando seco la salma gloriosa e la famiglia inconsolabile». (9)
Uscendo dalla stazione Dino Mantovani incontrò il buon Ganasseta, rigato dalle lagrime il volto maschio e fedele. Ed è con le semplici parole di «quell'uomo del remo, che era stato caro all'Eroe», quali nel dialetto nativo vengono riferite da Mantovani, che mi piace concludere queste note:
- Vedela, signor, el ne irnpeniva de bezzi, de regali e de carezze. Co lo condusevimo in gondola el ne dava una carta da diese, e pachi de sigari e tabaco da naso, e po bisogna veder come el ne tratava a palazzo. La sera del so concerto el n'ha dà cento e cinquanta franchi par omo, da tanto ch'el gera contento e beato. E adesso perchè el fusse ancora vivo, benedeto, dir che lo serviria tuta la vita de bando (gratis). El lo meritava dasseno, povareto, bon come un'ansolo e co' quel strasso de mal che lo tormentava ! -
Mario Panizzardi
(da "Richard Wagner - Diario Veneziano" a cura di Giuseppe Pugliese,
Corbo e Fiore Editori, Venezia, 1983)

(1) Al riguardo, nota argutamente il Damerini: «...pensate una morte simile oggi: tutti i giornali listati a lutto, pieni di ritratti e di biografie, e di lodi e di esegesi; le ondate telegrafiche e telefoniche verso Venezia e da Venezia, i referendum delle più cospicue personalità dell'arte e della musica; le cronache retoriche e pletoriche degli inviati speciali, la gare delle condoglianze, gli arrampicamenti dei piccoli sul feretro del Gigante, le commemorazioni; pensate tutto ciò, per una, per due settimane, senza tregua...
«Il giorno della catastrofe la Gazzetta di Venezia usciva alla solita ora con sedici righe di annuncio. Otto erano dedicate al palazzo Vendramin, al dolore della moglie, all'impressione in città... Le ultime tre promettevano un articolo a mente riposata «sul grande astro tramontato». Il 15 la Gazzetta spreca una colonna per la necrologia di tre illustri sconosciuti, ma non ritorna sulla morte del Maestro; il 16 dà, finalmente, qualche particolare, mezza colonna circa, sugli ultimi istanti di lui. Il 17 segue una cronaca degli onori funebri. La biografia invece sfuma. «Martedì - scrive - dicevamo, che a mente più riposata avremmo detto qualche cosa sul grande astro, ecc. ecc.; ma a giudizio meglio ponderata ci sembra miglior partito quello di condensare in poche formule ecc. ecc.» Olimpica serenità del giornalismo di or sono appena sei lustri dinanzi al trapasso di un genio, come dovresti esserci presente nella quotidiana fatica d`oggi, mentre ad ogni mediocrità che sparisce la stampa traduce in colonne plumbee il pianto immaginario della nazione!...»
(2) «Chi potrebbe descrivere la mia profonda costernazione quando la mattina presto del 14 febbraio '83, io ricevetti da Joukowsky un dispaccio così concepito: «Wagner è morto improvvisamente». Non volevo credere ai miei occhi: speravo che il telegrafista avesse letto male e male trascritto. Ma la triste verità mi afferrava mio malgrado. Corsi dalla mia amica, la figlia di Donna Laura Minghetti, ch'era a Roma da qualche giorno e che abitava ancora all'albergo. La trovai tutta in lagrime; essa pure aveva ricevuto la ferale notizia. Dividemmo il comune dolore e solo ci confortammo pensando che quanto avveniva era pur troppo fatale, dopo il compimento di quella sublime opera di riconciliazione e di pace. Era quella, difatti, la natural conclusione della sua apparizione su la terra dove ormai non avrebbe più potuto concepire un'idea più gloriosa e - adopero la parola proscritta con piena convinzione - più metafisica». Malvida von Meysenboug: Le soir de ma vie (Paris 1908) pp.l67-68.
Lo stesso concetto espresso dalla Meysenboug nelle ultime righe su riportate, manifestava sebbene un po' oscuramente, l'impresario Förster a un banchetto dopo la prima rappresentazione del Parsifal a Bayreuth: «Egli ci disse: - Vedrete che Wagner morirà presto... Un uomo il quale ha creato un'opera come il Parsifal che noi abbiamo udito stasera, non può vivere oltre; la vita di quell'uomo deve aver fine. Quell'uomo deve morir presto. - Egli proferì queste parole con una serietà così profonda, quasi con le lagrime agli occhi, che noi tutti ne rimanemmo profondamente turbati e ci volle molto tempo prima che i commensali riacquistassero, pur in minima parte, l'umore di prima». A. Neumann: Ricordi intorno a R. Wagner (Milano 1909) pp. 310-l 1. .
(3) Riferisco il telegramma inviato dal Sindaco di Bologna alla vedova Signora Cosima Wagner: «Venezia - Dolorosamente colpito notizia improvvisa morte M.° Wagner, mi affretto significarle parte vivissima che io prendo tanta sventura, esprimendole insieme sensi più profondo compianto in nome Bologna che gloriavasi annoverare illustre maestro fra suoi cittadini di onore». (Don Chischiotte di Bologna 15 febb. 1883).
(4) Altri scrisse: «...sotto il capo dell'amato, come un cuscino». (A. De Angelis: Cosima Wagner, Torino F.lli Bocca pag. 37).
(5) «Il cadavere conserva inalterati i tratti della fisionomia. La salma, vestita di raso nero, giace nella camera da letto ed è tutta ricoperta di bellissime corone di fiori freschi. Altre corone giungevano ad ogni momento. Notai quelle: del Comune di Venezia, del Liceo Benedetto Marcello, della signora Lucca, del Wagner-Verein di Berlino, del Conservatorio di Lipsia, della Società corale di Dresda e di Vienna, del Conservatorio di Monaco, del Circolo artistico Veneziano. Stavano raccolte in una stanza a terreno affatto disabitata, ma serbante ancora i resti dell'antica eleganza. Ha i travicelli stuccati a bianco e oro, il pavimento a ornati, le pareti frescate da qualche pittore francese del secolo scorso, e un'ampia portiera, donde si scorgono i viali del giardino. La stavano anche il sofà di broccatello antico coperto da una pelliccia d'orso, sul quale il Maestro fu trasportato quando il suo male lo attaccò l'ultima volta, e lo sgabello a fiorami Pompadour, sul quale aveva posto i piedi. E il sofà e lo sgabello e la grande poltrona, detta in famiglia il trono... furono trasferiti poi nel wagon salon per ostinata volontà della vedova sconsolata. Tutto questo mi fece vedere il portiere del palazzo, un bellissimo vecchio, un tipo tizianesco da profeta e da senatore, che Wagner chiamava scherzando, Garibaldi. Egli è fratello del celebre Tita, cameriere di Lord Giorgio Byron, morto presso di lui in Grecia. Come vedete, ogni cosa ha qui il suo interesse aneddotico». Sordello: Dispacci e corrispondenze al Cap. Fracassa del 17 febbraio 1883.
(6) Sordello: corr. cit.
(7) Sordello: corr. cit.
(8) «Alcuni amici del defunto compositore hanno acquistato il carro, su cui è stata trasportata la salma da Venezia a Bayreuth!» (Gazzetta musicale di Milano, 11 marzo '82).
(9) Sordello: corr. cit.

giovedì, agosto 01, 2024

Blandine Verlet

Blandine Verlet (Parigi, 27 febbraio 1942 - 30 dicembre 2018)
Ti accoglie serenamente sulla porta di un appartamento, che sembra dedicato alla riflessione, alla musica e alla lettura. Una scrivania in legno, un calamaio, un clavicembalo decorato in modo semplice, pareti e mobili con superfici bianche e blu. In questo mondo non c'è ovviamente nulla di "vecchio stile", con affinità e necessità guidate da qualche desiderio di ritorno al passato. Nella casa di Blandine Verlet si avverte, piuttosto, il bisogno di entrare in contatto con la cruda semplicità delle cose; e il pavimento in parquet semplice (ancora legno), questi spazi senza lustro, senza gadget, sono tuttavia pieni di calore e tenerezza.
Non sorprende che viva a pochi passi da un giardino botanico, dove i fiori sbocciano silenziosamente, senza clamore, senza esotismo. A modo suo, anche Blandine Verlet è come un giardino, un giardino un po' selvaggio, con erbe dolci e anche qualche rovo. Nel tempo libero coltiva i "giardini" di Couperin, giardini apparentemente troppo ordinati; ma in realtà, nel suo subconscio musicale, sa implicitamente esattamente quanti boschi oscuri e confini selvaggi si nascondono dietro quelle linee rassicuranti. Prende un brano semplice, una miniatura apparentemente insignificante, e ne fa emergere tutta la drammaticità: le fétes galantes à la Verlaine, dolcemente perverse, con le loro sfumature rosa-grigiastre, che virano improvvisamente ai colori dei Fauvisti: sono questi gli ambiti prediletti dal clavicembalista.
Come abbiamo capito, il mondo immaginario di Blandine Verlet va oltre le parrucche incipriate e le sete ornate che sono i simboli preferiti dagli amanti dell'arte antica, coloro che vorrebbero restaurare e fissare oggetti e suoni dietro la barriera sterile di un'immagine visiva e uditiva. ricostruzione. Come Louis Couperin, Blandine Verlet è sfuggente e ha la paglia tra i capelli. Sappiamo che è estrosa, imprevedibile, fuori dal comune (“en dehors”, come avrebbe detto Debussy), malinconica. È una “visionaria”, nel senso barocco del termine, come inteso da François Couperin. Con serenità e lucidità ha raggiunto l'età della ragione, se mai esiste, e, senza invidia, senza disprezzo, senza finzione, osserva i suoi 'giovani colleghi', che ormai suonano così bene una musica che quasi mai si sentiva da vent'anni o giù di lì. Il fatto che fossero appena nati quando lei stava intraprendendo una carriera discografica molto importante non le importa minimamente; il fatto di aver rifiutato molti concerti perché non le piace viaggiare o per motivi personali non la riempie di rammarico; il fatto di aver sospeso la ristampa di un certo numero di registrazioni che non riteneva “necessarie” non le provoca oggi alcuna amarezza. Blandine Verlet, con il suo nome molto classico, guarda il palcoscenico della vita, non dall'alto di una torre d'avorio, ma dalla sua finestra al piano terra, dove ama trascorrere lunghe ore con la musica che ama.
Morbidezza, tenerezza. Si potrebbe essere fuorviati: Blandine Verlet non è solo dolcezza e quiete. Lei è crepuscolo: quella regione ambivalente, obliqua, di fughe eloquenti, di «preludi smisurati» che potrebbero durare all'infinito, come nell'abnegazione, come nell'oblio della morte provocata dalla morfina del sonno; una regione di vegetazione aperta, proliferante, a tratti carnivora: il viso della musicista è liscio, i suoi occhi sono di un limpido grigio-azzurro, ma i suoi movimenti sono vivaci, la sua diteggiatura precisa e la sua mente assertiva. La dolcezza può essere davvero sconvolgente.
© 1997 Renaud Machart