Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 01, 2025

Emil Gilels: I segreti di un grande interprete

Emil Gilels (1916-1985)
Emil Gilels, un grande interprete che ha saputo 
spaziare in un repertorio che va da Mozart a Beethoven, da Schumann a Chopin, da Brahms a Grieg a Debussv, che ha lavorato con i più grandi direttori d`orchestra: Szell - con cui ha inciso i cinque Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven - Klemperer, Bhöm - con cui ha suonato Schumann e inciso Mozart - Karajan, Jochum. Grande poi la sua attenzione al repertorio russo contemporaneo: Medtner, Prokofiev, Shostakovich di cui eseguì in prima assoluta alcuni preludi e fughe. Shostakovich gli scriveva le sue impressioni, i suoi giudizi sulle sue esecuzioni e spesso si incontravano all` “Unione dei Compositori". Con Prokofiev ci fu un rapporto di reciproca stima, Gilels eseguì in concerto molte delle sue sonate (la Seconda, la Terza, la Settima, l`Ottava; l'ultima gliela diede Prokofiev di propria mano). Dei suoi rapporti con questi compositori, delle sue idee sulla musica, dei suoi autori preferiti, del suo lavoro di interprete ce ne parla Lev A. Barenboim, in un bel libro intitolato Emil Gilels, ritratto di un artista e pubblicato a Mosca nel 1990 dall'editore Sovetskij Kompozitor. Attraverso saggi critici, testimonianze, lettere, e interviste l'autore ci offre un ritratto a tutto tondo del grande pianista russo scomparso improvvisamente nel 1985: dall'infanzia sino alla maturità, indica le tappe più significative della sua carriera a partire dalla vincita del primo premio al concorso Ysaye di Bruxelles nel 1938.
In una lunga intervista rilasciata a Barenboim e pubblicata nel volume in questione, Gilels parla del suo lavoro di interprete come di un processo creativo che per certi aspetti può essere paragonato al gioco degli scacchi: richiede concentrazione e prontezza nella scelta delle combinazioni più appropriate; sono di importanza fondamentale fattori quali la memoria, l'intuizione. l'esperienza, la padronanza dell'aspetto tecnico. E non a caso Gilels sottolinea lo stretto legame esistente tra la ricerca dei mezzi espressivi e la scelta della diteggiatura unitamente alla necessità di una solida tecnica preparatoria che ha nelle scale il suo punto di forza, il suo fondamento: «Alle scale e agli esercizi mi ha abituato il mio primo insegnante; un tempo gli dedicavo molta attenzione. le facevo come “carica”. Il problema è che le scale sono un po' come il portavoce di una determinata musica e variano da autore ad autore. A volte può succedere che certi esercizi arrechino danno, allora c`è bisogno di trovare un'altra diteggiatura, di cercare altre posizioni. Prendiamo ad esempio la fuga della Sonata n. 29 di Beethoven: il trattamento cromatico delle linee melodiche è talmente avanzato che nessun tipo di scala può essere d`aiuto. Così ho cominciato a suonare Brahms per poi passare alla Scuola del virtuoso di Czerny». Si tratta insomma di una continua ricerca che secondo Gilels va oltre la scelta del metodo Tausig piuttosto che del metodo Godowski, «ogni bravo musicista dovrebbe creare per sé tali esercizi». La scelta dei tempi è poi l`altro grosso problema di ogni interprete che Gilels affronta con coscienza storica: «Negli anni 30, secondo la concezione dell`epoca, la ricerca del bel suono, della cantabilità si aveva solo nelle parti lente. Nei movimenti più veloci si andava a briglia sciolta. Ciò era in parte dovuto al tipo di repertorio che si eseguiva in quegli anni: poco spazio a Skrjabin e agli impressionisti. Il nostro punto di riferimento era la musica dei romantici, eccezion fatta per Schumann che per certi aspetti risultava incomprensibile. Ma proprio attraverso la sua musica sono riuscito a capire cosa sia il bel suono in velocità». Ed è lo Schumann del movimento “Prestissimo possibile” degli Studi Sinfonici che Gilels definisce «strepitoso». in questo suo saper «pensare a velocità incredibili, che rasentano l`irruenza delle forze naturali». La scelta del tempo è quindi una questione assai delicata che non dipende solo dal gusto personale o dalle mode, essa deve tener conto anche di certi limiti oggettivi: «Io ho sempre mirato ad esprimere tutte le note. Le dita possono muoversi lungo la tastiera più o meno velocemente, ma c'è un limite imposto dalla capacità di percezione dell`orecchio umano. Se si esce da questi limiti, come a volte ho sentito fare da certi pianisti, si crea confusione, ansia, si corre il rischio di perdere di vista il disegno complessivo voluto dall`autore».
Lo studio preparatorio di un brano è dunque una tappa fondamentale del processo interpretativo che non tocca solo l`aspetto tecnico, ma anche quello culturale ed emotivo. «L'interprete deve continuamente conformarsi all'autore», deve conoscerne «l'estetica, la filosofia, sapere cosa pensava, cosa sentiva», «suonare Bach e Prokofiev nella stessa sera con un unico sentimento è un approccio primitivo. L'interprete, in poche parole, deve essere un po' come un camaleonte». Gilels sapeva abilmente dosare emotività, istintualità e capacità analitiche in un vero e proprio processo di razionalizzazione del trasporto emotivo provato di fronte ad un brano, una sorta di innamoramento a prima vista che può anche diventare una “prigione”. Finisce che «ogni giorno si è attratti dallo strumento, per provare ora una cosa ora un`altra, per lavorare sui punti che presentano difficoltà tecniche, per cercare quel suono capace di dar voce a quella sfumatura emotiva. Bisogna cioè riuscire a trovare quei culmini emotivi su cui è costruita tutta l`opera». Ma col tempo si impara ad affrontare un pezzo in maniera più economica ed intelligente. «In primo luogo ho imparato a soffrire meno per l'attaccamento che sviluppavo nei confronti di un certo brano, quasi si trattasse di un vero e proprio tormento amoroso; in secondo luogo ho cominciato ad evitare di muovermi a piena velocità lungo la tastiera, per riuscire a liberarmi di quell'abitudine piuttosto dannosa che è il compiacimento del proprio atto esecutivo». Tuttavia, secondo Gilels, un concertista in carriera si trova spesso a vivere in modo contraddittorio questo “amore” per un'opera: si dibatte tra la voglia di abbandonarsi alla “dolce” prigionia e gli obblighi imposti dalla carriera, ovvero l'avere il repertorio sempre pronto e l'essere sempre in forma. È per questa stessa ragione che ritiene non siano conciliabili il lavoro di insegnante e quello di interprete-esecutore: «Io mi pongo nei confronti di un allievo come musicista-interprete e se nel suo modo di suonare c'è qualcosa che non mi soddisfa mi innervosisco, mi sfinisco. Al contrario un insegnante professionista non ha altra occupazione che i suoi studenti, non deve pensare al programma del prossimo concerto. Può passare ore con un allievo ad affinare un pezzo dal punto di vista interpretativo e tecnico. Un artista non può essere un insegnante».
Nell'atto di esibirsi di fronte al pubblico emerge in modo inequivocabile quello che potremmo definire il “dilemma interpretativo”, ovvero la coesistenza del lato intuitivo, istintivo, emotivo con quello più strettamente razionale. Una problematica che in terra russa, tanto per restare entro i confini culturali del
nostro, ha trovato acuti teorizzatori quali Stanislawskij e che sicuramente appartiene al back ground culturale di molti artisti, attori o musicisti che siano. Gilels trova una sua personale risposta quando parla della sofferenza, della concentrazione che l'interprete deve conservare durante l'esibizione dal vivo, intendendo con questo la necessità di una costante partecipazione emotiva a ciò che si sta facendo. «Sedere con gli occhi chiusi e suonare pensando ad altro, non è un comportamento del tutto giusto. Un'esecuzione diventa più preziosa se la concentrazione, l'attenzione e una certa dose di “sofferenza” scorrono paralleli al lavoro di preparazione che è stato fatto in fase di studio. Fare totale affidamento su questo lavoro di preparazione, sopravvalutarlo quindi, è certo più comodo ma è molto rischioso. Può succedere che il pezzo “se ne abbia a male" e che l'interprete se ne vada da una parte e il pezzo dall'altra. Il pezzo invece deve respirare insieme all'interprete».
Interrogato poi su quanto peso abbia l`elemento razionale in questo processo risponde che la ragion e, l'intelletto possono fallire e che lui preferisce l' “arte del soffrire”: «Può succedere che uno suoni in maniera ineccepibile, che la reazione del pubblico sia stata molto positiva, ma in cuor suo sa di non aver sentito niente, sa che non c'è stato alcun fremito spirituale, ecco perché preferisco la sofferenza». Quando parla della sua esecuzione delle Fantasie di Brahms Gilels dice di entrare come in uno stato di trance: «Quando mi “innalzo”, mi dimentico di tutto quello che mi circonda, di ogni cosa di questo mondo, succede di rado ma quando capita la soddisfazione che si prova è enorme». Se queste sono le idee di Gilels circa il problema dell`interpretazione è presto spiegata la sua predilezione per le registrazioni dal vivo piuttosto che per quelle fatte in studio. «L`incisione di un concerto dal vivo si distingue sempre per una maggiore freschezza. Anche se un pezzo è stato preparato in modo accurato, calcolato nei minimi dettagli rimane sempre quel qualcosa di imponderabile che è legato al momento stesso dell'esecuzione, ovvero alla propria condizione fisica, al tipo di interazione che si crea con il pubblico. Quante volte succede che si sia provato il programma e che poi la sera tutto suoni diversamente! In sala di incisione invece si è presi nella morsa del microfono e dell'ingegnere del suono. Durante un concerto dal vivo di tutto questo ci si dimentica». Resta comunque il fatto che le sue incisioni Gilels, come del resto Glenn Gould, le curava personalmente, occupandosi in prima persona del montaggio. A  ragione può dire di essere un veterano in questo campo, dato che cominciò ad incidere nel 1934 quando non aveva ancora 18 anni. I mezzi tecnici erano scadenti ma Gilels ricorda con molto affetto quella sua prima incisione della Ballata n. 1 di Chopin nonostante vi fossero «un paio di bassi “sporchi"».
Continuò poi la sua carriera discografica all'estero ottenendo grandi risultati e incondizionati riconoscimenti. Ogni interprete deve scegliere oculatamente il proprio repertorio, deve sapersi impossessare pienamente di un pezzo, anche se questo comporta dolore, fatica. Impagabile sarà poi la felicità provata nel momento in cui, anche dopo anni di lavoro, si riesce a raggiungere 1`obiettivo. Particolare è ad esempio il rapporto di Gilels con la musica bachiana. Ritiene che Bach sia uno dei compositori più difficili da interpretare proprio per le infinite possibilità di lettura che offre la sua musica: «Io non ho mai trovato la mia posizione, se così fosse stato sarei stato un`interprete bachiano. Di recente ho dato uno sguardo ai preludi e alle fughe del Clavicembalo ben Temperato e mi sono sorpreso a pensare che in fondo erano veramente brevi nonostante avessi la sensazione che fossero lunghi, infiniti... E il volume di Bach è molto più esile di quello di Shostakovich! Laconicità e grandezza!» Ogni volta che deve affrontare un nuovo brano da mettere in repertorio si traccia un piano di lavoro: con la 106 di Beethoven, per esempio, ha cominciato a lavorare dalla parte più difficile, la fuga. «È tremendamente difficile. In seguito mi sono messo a studiare l'Adagio per poter comprendere l`essenza di questo fiume musicale che scorre, scorre. Avevo bisogno di capire dove scorre, avevo bisogno di visualizzare il suo percorso. Così mi potevo considerare già a buon punto, avevo in pugno la prima e la seconda parte della sonata. Viceversa ho aperto molte volte la Sonata n. 29 “HammerKlavier”. Suono la prima pagina della prima parte e penso: “Signore, e poi? Non è possibile possedere questo pezzo!”. Ma ho accettato la sfida. Molti pianisti la considerano cervellotica, ma io con caparbia mi sono costretto ad impararla e una volta che sono riuscito a penetrarla mi si sono aperti altri orizzonti».
Meticolosità, disciplina, sensibilità e una acuta coscienza critica: ecco forse i “segreti” di un grande interprete.
Paola Soffià
("Gli Oscar della Musica", Anno I, Numero 3, Giugno 1996)

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