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Bruno Barilli (1880-1952) |
Strawinski: «egli aveva nel muoversi, l'aria intristita e pigra di un topo, che ha mangiato l'arsenico».
Casella: «Là dove passa la sua musica, l'erba non rinasce più».
E infine Rubinstein: «Bocca di ranocchio, testa orientale, occhietti rossi d'ebreo, profilo greco tirato per i capelli».
Vivaci ritratti, spiritosi e caricaturali come la sua stessa faccia, inesorabilmente brutta e difficile al sorriso, disarmante. In uno stupendo disegno di Scipione (un pittore che sapeva scavare nell'animo dei personaggi da lui ritratti) Barilli potrebbe essere scambiato per una vecchia signora negata ad ogni propensione per l'indulgenza verso la specie umana. Ma Barilli fu tutt'altro. Era un uomo dotato di troppo buon gusto, intenditore d'arte, viaggiatore (Vallecchi ha ristampato anche il suo «Libro dei viaggi» deliziosissimo), critico, musicista e... poeta in tutte le sue cose e in quelle in cui gli altri si sarebbero invece abbandonati alla comodità della pedanteria accademica e dell'ermetismo.
Si legga quell'impareggiabile ritratto di Bottesini col quale s'inizia il volume. Questo è forse lo scritto più gustoso che sia mai stato dedicato ad un musicista, un rutilare d'immagini, un fuoco artificiale di aggettivi che sbalzano fuori plasticamente la figura del grande virtuoso di contrabbasso. E al povero Bottesini dimenticato da tutti, verrebbe voglia d'innalzare un monumento. E Willi Ferrero? Le pagine dedicate al fanciullo prodigio traboccano d'affetto: ma proprio in queste pagine mi è parso di cogliere un lato oscuro della personalità indubbiamente forte del Barilli, un lato che si presterebbe benissimo ai topi dai quali lo scrittore sembra ossessionato. Egli vede topi dappertutto, parla di topaie, intitola un suo libro «il sorcio nel violino», assimila musicisti a sorci (vedi Strawinski) e sogna sorci che lo assalgono mentre dorme, divorano i suoi manoscritti e infine, da lui scacciati, calano lestamente nel pianoforte come un esercito in ritirata. Il mio sospetto fu poi convalidato dallo stesso Maestro Ghedini il quale, riparlando del Barilli che gli fu amico, mi mostrò la riproduzione di un manoscritto di Schumann, raffigurante un pentagramma costellato di gatti e topi che si rincorrono. «Vede, mi disse, è la pazzia!». Certamente Barilli pazzo non fu, ma l'ipotesi che egli fosse affetto da un qualche complesso, sia pure innocentissimo, non mi pare priva di fondamento. Comunque fa parte della sua arte e per questo mi sento di rispettarlo ancora di più.
Venendo ora alla famosa questione di Verdi e di Puccini, bisogna esser grati al Barilli per aver coniato una gustosa definizione del primo: «ll suo alito ha un sano odor di cipolla», ma il guaio è che, scrivendo di Wagner, egli non riesce ad essere ugualmente originale, appunto perché da bravo verdiano egli è troppo preso dallo spirito di partigianeria. Ma è mai possibile che verdiani e wagneriani non riescano a coesistere senza escludersi reciprocamente? Questo appunto si domandava Furtwaengler in uno scritto che «Disclub» ha pubblicato recentemente, a proposito delle fazioni brahmsiane e bruckneriane. Comunque, Barilli è troppo intelligente per fare dei suoi operisti prediletti oggetto di apologie sperticate! E' un fatto, però, che essendo Barilli un musicista mediocre e forse mancato (ma un critico riuscito) egli non riuscì a frenare il proprio astio elegante verso chi ebbe più fortuna di lui come compositore.
Se il suo libro esordisce in chiave satirica e nello stile di un futurista che prende in giro il futurismo, le ultime pagine sono di una malinconia struggente. Qui assistiamo al decadimento progressivo del suo fisico, alla sua povertà sempre più incalzante, che arriva alla tragica proposta di un suicidio. Leggendo «Il diario di un vegliardo» è difficile non provare un profondo senso di commozione, così come le prime pagine ci hanno fatto ridere di gusto. Un libro, appunto, da leggersi sorridendo, ma con le lacrime agli occhi.
Edward D.R. Neill
("Disclub" 11, anno II, ottobre/novembre 1964)
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