Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, settembre 20, 2025

Beethoven: Amico per sempre...

I vecchi amici ci abbandonano, amici nuovi vengono a 
noi. Se non oggi, questi a loro volta ci abbandoneranno domani. Volti che s'immergono nel buio di ieri, volti che emergono dal buio di domani. Sguardi che si spengono e sguardi che si accendono. Perdite e acquisti. Separazioni e ritrovamenti. Che alternarsi continuo! Che rimutarsi fatale! E come gli stessi morti continuano a rivivere per noi, a rimorire! E come i vivi talvolta spariscono a un tratto più che morti! E come voci che cantarono un secolo, due secoli, addietro tornano ancora come le stagioni! E come altre voci che appena ieri cantavano non tornano più! Tutti caduchi però più o meno, incerti, deboli della debolezza mortale, schiavi del tempo che presto o tardi li corrode, li distrugge, li annienta.
Solo lui, Beethoven, non ci abbandona mai.
L'altro ieri eravamo wagneriani, e ieri non più. Oggi siamo di nuovo wagneriani sebbene in altro modo, ma di domani che possiamo dire? Un giorno, fastiditi dalla ginnastica balorda dei giganti, assordati dalle continue minacce di un destino michelangiolesco, credemmo trovare nella spudorata frivolità di Rossini l'antidoto salutare, sperammo potesse aggiungere quel formidabile mangiatore di pasta asciutta la sua parte di suoni alla malinconica serenità della statuaria greca. Ma l'indomani subito che una opaca desolazione era calata sul Mediterraneo illusore, invocavamo già con nostalgia le melodie filiformi del pallido Bellini, spingevamo il cinismo fino a desiderare le ariette di Don Gaetano Donizetti, che chi sa per quale associazione di ricordi richiamavano alla nostra mente la trasformazione di Pinocchio in ciuchino. Altre volte ancora non trovavamo salvezza se non nelle pierotterie lunari di Robert Schumann, e la faccia scimmiesca e occhialuta di Franz Schubert ci si presentava come l'ultimo rifugio dell'illusione musicale. E possiamo negare di aver scoperto un giorno nel Trovatore il patos supremo degli eroi innamorati? Possiamo negare che persino il larvale magister Claudius trattenne un quarto d'ora, è vero, la nostra attenzione? Possiamo negare che delusi all'ultimo da tutti i morti, schifati e dai classici e dai romantici, offrimmo il nostro cuore intatto ai moderni, ai frenetici; poi lo passammo ai negri del jazz; e poi dimessa ogni speranza invocammo il caos, il nulla, il silenzio eterno?
Solo lui, Beethoven, non ci abbandonava mai, non ci ha mai abbandonati. Amico fedele, amico per sempre.
Quanto alle preferenze che taluni possono avere per altri musicisti, quanto allo stimarli più alti di lui e più puri, esse preferenze, essi giudizi sono transitori per loro natura, instabili e di carattere illusorio.
A ben considerare, è in momenti di malumore soltanto, è solo con animo deluso, è solo in qualche crisi di scetticismo che ci si sorprende a dire: "Mozart, Bach, Scarlatti sono più grandi di lui".
Queste preferenze celano sotto qualcosa del pis-aller, s'intonano a certe nostre disposizioni isteriche, a sovvertire il valore delle cose, a capovolgere la gerarchia dei valori, a prendere a calci la serietà della vita, a negare la grandezza dell'arte, a disprezzare il nostro stesso destino. Chi è che non traversa, che non ha traversato queste crisi di dispetto?
Ma non appena l'animo si placa, non appena si rasserena l'umore e le speranze ritornano a fiorire e l'avvenire riapre le sue porte, è lui, sempre lui che ci ritroviamo accanto, con la sua faccia camusa e la sua fronte gibbosa di genio sicuro, garantito, senza trucchi.
Perché Beethoven si è stabilito ormai nella nostra mente con quella saldezza, con quella immutabilità come nella memoria il ricordo, il volto di nostro padre.
Anche se non lo vediamo, anche se non pensiamo a lui, lo sentiamo presente tuttavia e consolatore.
La sua amicizia forte sappiamo che non ci farà mai difetto. Non ha le esigenze né le incertezze dell'amore, ma è generoso e dà senza chiedere.
Se il suo volto è severo per lo più, cupo alle volte e accigliato, che importa? Noi conosciamo bene quanto delicato, quanto amoroso, quanto tenero sa essere pure a noi il fantasma di nostro padre, il fantasma di Beethoven.
Rivivono in lui, nella sua voce, le cose migliori della nostra vita: ricordi che l'oblio non ha sommerso, memorie che hanno in sé virtù di non morire, diritto d'immortalità.
Ed è per questo che in sogni sereni e senza angosce, egli ridesta in noi fatti memorabili della nostra infanzia e della nostra gioventù, quelle memorie che il ricordarle ci conforta, le nostre azioni più nobili, più pure, più feconde. E lui, guidandoci per quel giardino calmo e bagnato di una luce tenue ma immutabile, ci tiene per mano come Chirone teneva Achille giovinetto.
È facoltà del suo animo nobilissimo non lasciare pentimenti in noi, e tanto meno nostalgie. Non agitazioni né sconforti, non quegli entusiasmi vacui, quelle vane esaltazioni che quando sfumano, ti lasciano balordo e con la bocca amara.
È l'uomo dal grande cuore lui, il consolatore per eccellenza. E quando sei smarrito, uomo, deluso, solitario e ogni speranza dintorno ti svapora come nebbia al vento, ripensa a lui, riascolta la sua voce, e subito risentirai il caldo generoso della vita, e ti assicurerai che tutto quaggiù non è deserto, ma è alcuna cosa ferma, stabile, sicura.
Taluni lo chiamano Titano. Canaglie! Come si fa a coprire di ridicolo l'uomo più rispettabile del mondo? Lui soprattutto che tanto delicato era nel non eccedere statura d'uomo? Lui così savio e indulgente? Lui che nei momenti pure in cui più alto si tirava, come nel quinto concerto per pianoforte e orchestra, o nella Sonata opus 106, e nei quartetti, si guardava bene dal superare la misura buona? Lui che spingeva la civetteria fino a non celare la fatica? Lui così "greco"?
La sua voce, in cui taluni incorreggibili maniaci del gigantesco sentivano non so che brontolar di temporale, ha veramente la dolcezza della paterna voce che dà consigli saggi e disinteressati.
Nelle estati folli o negli inverni pacifici, negli autunni morbidi o nelle primavere purulente, nelle campagne ossessionate dagli spettri elementari o nelle vaste metropoli ossessionate dagli spettri elettrochimici, nel gelo della solitudine o nel tepore della compagnia, nell'amore o nell'odio, nella speranza o nella disperazione, nel buio o nella luce, nel meriggio o nella mezzanotte - tu, Beethoven, dolce fantasma, per confortarci a consumare la vita, per confortarci a credere e a operare, stacci vicino né mai ti allontanare dal nostro fianco. Ascoltaci. Guarda come siamo soli e come tutti ci abbandonano. Resta con noi. Continua fino all'ultimo a guidarci, come finora ci hai guidati. Di questa tua grande bontà
non ti ringrazieremo mai, perché ti si farebbe offesa.
E ora caliamoci pure nel sonno senza timore: sordo e malato il vecchio Beethoven vigila su noi.
Alberto Savinio
originale su "La Nazione", 3-4 maggio 1936
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

mercoledì, settembre 10, 2025

Gustav Holst

Gustav Holst (1874-1934)
Con la morte di Handel, avvenuta nel 1759 si assiste 
alla progressiva rarefazione di musicisti. Di fronte all'allarmante fenomeno l'Inghilterra reagisce importando compositori dall'estero e acclama quindi Geminiani, Cherubinj e Haydn. Si arriva così all'Ottocento, secolo parimenti dominato da figure minori. Si può dire infatti che l'Ottocento musicale inglese non è quasi esistito o, se è esistito per una inevitabile legge cronologica, lo stesso potrebbe definirsi «a century of musical nonsense», un secolo di sciocchezze musicali. Nella seconda metà dell'Ottocento si stabiliscono comunque in Inghilterra due musicisti interessanti: Hubert Parry e l'irlandese Charles Standford. Nasce Elgar. I primi due citati, per quanto prolifici, sembrano più consci della necessità di educare le future generazioni di musicisti, quasi a riscattare il vuoto pauroso che minaccia di allargarsi. Alla fine dell'Ottocento Elgar inizia a produrre. La sua prima composizione importante «Dream of Gerontius» avrà la fortuna di trovare un interprete che ne decreterà il successo in terra straniera: Richard Strauss. In patria, però, Edward Elgar trova subito una fitta schiera di detrattori, la esistenza dei quali è logica conseguenza del disorientamento in cui brancolava il pubblico da quasi un secolo. Si afferma che la sua musica è salottiera, orecchiabile e che reca tracce troppo marcate d'influssi teutonici. Nessuna delle critiche colpisce nel segno, né tiene conto della mancanza di una tradizione sinfonica continuativa per cui alle generazioni dei nuovi musicisti non restava che guardare alla Germania di Wagner o alla Francia di Debussy e Ravel. Elgar scopre onestamente le sue carte senza colpi di scena e offre il suo ingenuo lirismo spesso tinto di modi popolari alle generazioni disorientate ed affamate di novità. Queste però gli restituiscono l'ingenuo messaggio liquidandolo con frasi da sarcastico columnist. Non avvertono, prese come sono dall'accidia, che Elgar rappresenta il nuovo esordio della musica inglese, basato sul riproponimento di una forma sinfonico-corale, forse un'eco non ancora spenta dell'oratorio handeliano e raccolta dopo centocinquant'anni. L'esempio di Elgar verrà infatti ripreso da Vaughan Williams e dallo stesso Holst. Il primo infatti esordisce come sinfonista con la «Sea Symphony» per soli, coro e orchestra su testi di Walt Whitman e il secondo comporrà nel 1922 una «Choral Symphony» per soprano, coro e orchestra. E' difficile quindi non riconoscere in Elgar la paternità quantomeno putativa della rinascenza musicale inglese.
Holst, che nasce a Cheltnenham nel 1784 da una famiglia di musicisti d'origine svedese, si trasferisce nel 1893 a Londra per studiare alla Scuola Reale di Musica dove appunto insegna lo Standford. Qui egli trova come compagno di studi Ralph Vaughan Williams che dovrà diventare il massimo esponente del sinfonismo inglese. Lo Standford cerca d'infondere nei due allievi il magistero del contrappunto e il gusto per la melodia popolare, componente importantissima di tutto il Novecento musicale inglese. Holst disdegna il pianoforte e impara il trombone adattandosi a suonarlo nell'orchestra della Carl Rosa Opera Co. Dopo aver conseguito i necessari diplomi e titoli di studio, si dedicherà alla composizione ed all'insegnamento presso il Collegio Femminile di San Paolo per il quale comporrà la Saint Paul's Suite per archi (1913) che è una delle sue composizioni più note. Il 1934 sarà l'anno più triste per l'Inghilterra musicale perché vedrà la morte non solo di Holst, ma anche di Elgar e di Delius.
Una vita apparentemente poco interessante quella di Holst, ma ricca di problemi interiori e di ricerche incessanti. Già egli in compagnia dell'amico Vaughan Williams si era attivamente interessato di melodie popolari e le aveva amorevolmente raccolte, restituendone il fascino intatto in due composizioni autonome, «Six Choral Folksongs»› per coro maschile e «Twelve Welsh Folk-songs» per coro a cappella. L'interessamento di Holst e di Vaughan Williams per la musica popolare coincide anche con la fondazione della English Folk-songs and Dance Society ad opera di Cecil Sharp che fu il primo a stimolare la ricerca del patrimonio folklorico musicale inglese.
E proprio agli albori del Novecento si verifica un fatto sintomatico e di grande rilievo per le generazioni di musicisti europei che faranno astrazione dalla rivoluzione schönberghiana: la ricerca sistematica del folklore musicale e l'impiego di esso quale componente inscindibile del linguaggio. Troviamo quindi in Ungheria, Bartok e Kodaly, Janacek in Cecoslovacchia, in Francia, Debussy e Ravel adotteranno la scala esatonica e melodie basche, Hindemith in Germania, Respighi in Italia si rivolgerà a fonte ancora più antica: il gregoriano. Tale fervore è sintomo forse della necessità di un rinnovamento del linguaggio, rinnovamento attuato senza radicali rivoluzioni della sintassi. Certamente anche nell'Ottocento europeo numerosi compositori avevano attinto al patrimonio popolare, Liszt, Chopin, Brahms e Dvorak. Si trattava però di folklore abilmente travestito. Basta pensare alle rapsodie ungheresi di Liszt e di Brahms per rendersi conto che la melodia popolare vestita in abiti da sera suona troppo falsa!
Holst avverte in pieno la portata della rinascenza folklorica ed istaura con Vaughan Williams una corrente musicale tipicamente inglese e consapevole del fatto che il linguaggio deve progredire, mentre Elgar rimarrà pur sempre ancorato all'epoca vittoriana alla quale erano meglio accette le regole che le eccezioni.
Le influenze subite da Holst, ma assimilate soltanto in minima parte nel periodo formativo, possono riassumersi in un moderato wagnerismo iniziale. L'inf1usso del cromatismo wagneriano si evidenzia nei primi lavori meno impegnativi (buona parte dei quali reietti in seguito dallo stesso autore), ma si spezza e scompare con la scoperta del folklore il quale innesta una corrente neomodale. in Vaughan Williams l'esperienza neo-modale è più scoperta e si lega intimamente con l'impressionismo raveliano. Il Vaughan Williams era stato infatti allievo di Ravel a Parigi e subì in modo più diretto la lezione dell'impressionismo francese.
Anche Strawinski eserciterà su Holst un influsso modesto e comunque limitato all'ambito di certe soluzioni ritmiche e coloristiche. L'aver poi abbracciato una parte della cultura orientale (Holst studiò addirittura il sanscrito!) allargò vieppiù gli orizzonti del musicista. Ma non si trattò di evasione o di ricerca di un facile esotismo. Il Tovey giustamente vedeva in Holst «la vera espressione della nostalgia dell'occidente per l'oriente»Va rilevato inoltre che in quel periodo anche una buona parte della letteratura inglese denunciava una forte attrazione per le cose d'oriente. L'esperienza del sanscrito si ritrova soprattutto nelle opere «Rig Veda»«Sita», «Savitri» e «Beni Mora» che appartengono tutte ad un periodo creativo intermedio di Holst.
Complessivamente la musica dell'inglese ci appare tinta d'impressionismo. Non mosaico di frammenti, macchie sonore. Piuttosto, successione logica di momenti creativi in un quadro del tutto unitario. Si verifica in Holst, più che in Vaughan Williams, l'allentamento del tematismo e di conseguenza la impossibilità di continuare un discorso sinfonico secondo i canoni della sonata classica. (Tale impossibilità è più che mai evidente nelle opere della maturità di Leos Janácek, compositore atematico per eccellenza). L'impressionismo di Holst non è pura vernice; è risultante profonda, emozione sofferta e restituita in musica. «Egdon Heath» (1927) e «Hammersmith - Preludio e Scherzo» (1930) (i titoli delle composizioni corrispondono a precise località inglesi) sono capolavori del genere. Il primo ricrea il fascino straordinario di un bosco in autunno, colle sue atmosfere rarefatte e sospese e con un senso di desolazione rotto a tratti da una melodia popolare che si raggela come nebbia lontana. «Hammersmith» invece espone il dualismo tra vita quotidiana (il laborioso sobborgo di Londra dal quale trae il titolo) e vita contemplativa (il lento e compassato trascorrere del Tamigi).
Holst aveva scritto: «Studio soltanto le cose che mi suggeriscono musica». Anche «I Pianeti» composti tra il 1914 e il 1917 sono una interpretazione tutta personale e moderna della «musica mundana». Col suo senso di autocritica Holst arrivò persino a dispiacersi quando seppe che quest'opera era diventata popolare. Egli implicitamente affermava che un'opera d'arte diventava automaticamente superata nel momento stesso in cui era creata. Il passaggio continuo attraverso le più disparate esperienze testimonia tale sua costante insoddisfazione che e anche superamento, progresso. La definizione di Sir Malcolm Sargent: «he was a mystic, but not consciously a religious one» è doppiamente rivelatrice. Essa spiega sia il tentativo di conciliazione del dualismo antinomico su cui doveva poggiare tutto il mondo interiore di Holst, sia la tensione tutta trascendentale verso il superamento. «Hymn to Jesus» (1917) per coro e orchestra nella prima parte utilizza il testo e la melodia del «Pange Lingua» e del «Vexilla regis» e nella seconda, alcuni inni in lingua inglese. E' opera che può considerarsi religiosa nello stesso senso in cui sono religiosi i mottetti di Brahms op. 74 e op. 111. L'«Hymn to Jesus» è una delle composizioni che inoltre rivela la propensione degli inglesi per il genere sinfonico-corale a grande respiro cui prima accennavamo, ma non è la sola. Al pari di Vaughan Williams che esordì proprio come compositore di musica corale, Holst scrisse una messe di opere per coro e specialmente per quello femminile. Effettivamente i due compositori procedettero per un certo tempo affiancati, partendo da esperienze comuni e si influenzarono a vicenda, in quale misura è difficile stabilire. Sta di fatto che Vaughan Williams preferì avventurarsi sul terreno sinfonico con risultati veramente importanti per la musica inglese, mentre Holst raramente riusciva ad assestare il suo discorso in una forma costante nella quale il tematismo era il passaggio obbligato per giungere alla coerenza, anche se le leggi della forma sonata potevano interpretarsi con una certa elasticità. Cosa del resto avvenuta già nel secondo Ottocento mittel-europeo. Il Tovey scrivendo già nel 1929 su Holst avvertiva perspicacemente in quest'ultimo, nel differenziarlo dal Vaughan Williams, «l'ampia e chiara esplorazione delle regioni pre-armoniche». Holst fu infatti un esploratore che mai si fissò su una singola scoperta.
Per Holst la politonalità e la poliritmia sono elementi già acquisiti mentre per Vaughan Williams fanno ancora parte di una avventura o di una occasione. Anche nei procedimenti politonali di Holst possiamo vedere un tentativo di conciliare un'antitesi.
Si pensi al «Terzetto per flauto, oboe e viola» (1924), composizione veramente unica, nella quale gli strumenti in una formazione già rara e inconsueta, dialogano tra loro in tre tonalità differenti. E' un viaggio ideale lungo tre strade parallele che non si incontrano mai sotto il profilo tonale, ma che procedono tutte verso un unico punto comune che è unità di pensiero. Secondo quanto riferisce Imogen Holst in uno studio straordinariamente obiettivo « The music of Gustav Holst » (Londra, 1951) fu sufficiente che il «Terzetto» fosse scritto in tre tonalità diverse perché noti artisti lo giudicassero ineseguibile. Ma il tritonalismo non è la sola difficoltà. La partitura abbonda di indicazioni dinamiche, repentini cambiamenti di tempo, il tutto nell'ambito di poche battute, oltre a gustosi effetti poliritmici. E' un gioiello finemente cesellato, uno studio di atmosfere che ora si distendono nella enunciazione all'unisono di un tema modale che ricorda il «Dies irae», ora si rapprendono nei cinguettii del flauto in «staccato», ora si liricizzano nel motivo popolare esposto dall'oboe che, alla fine, viene interrotto dal flauto e dalla viola in un morendo da romanza schumanniana.
Altri esempi di politonalismo, però meno impegnato, sono reperibili in alcune composizioni pianistiche, tutte improntate a motivi popolari. A questo proposito, si potrebbe affermare che la musica popolare sta a quella classica, come il dialetto sta alla lingua colta. Sotto questo profilo, certa musica di Holst potrebbe definirsi «dialettale» come quella di Bartok. Anche quest'ultimo era giunto al bitonalismo attraverso lo studio sistematico del folklore non solo magiaro, ma anche rumeno e arabo. Imogen Holst, scrivendo sul padre, sostiene che il linguaggio della musica popolare costituiva una guida per Holst, pur non essendo il linguaggio suo proprio. Infatti, la lezione del folklore era stata assimilata da Holst in tanto in quanto offriva un nuovo modo espressivo, ancorché avesse radici antichissime. Non si tratta pertanto d'imitazione di uno stile. La musica di Holst ci appare talora «pensata» secondo i modi popolari, quando essa già non contenga chiare allusioni a terni e melodie folkloriche, come si verifica nella «Seconda Suite in fa maggiore per banda» (1911) che utilizza melodie dello Hampshire. Nell'ultimo movimento di quest'opera si rinvengono addirittura due canzoni distinte («Dargason» e l'ormai notissima «Greensleeves») sovrapposte simultaneamente.
A distanza di trent'anni, che esattamente tanti ci separano dalla scomparsa di Holst, la sua musica non ha perduto di freschezza, come se fosse stata composta ai giorni nostri. Anche se essa appartiene storicamente alla prima metà del Novecento, la sua stessa poliedricità e molteplicità d'intenti,. ne impediscono una collocazione definitiva Né d'altra parte può dirsi che sia espressione caratteristica di una scuola o di uno stile. E' summa di esperienze sovente disparate tra loro e mai esaurite. N\a assurge anche a simbolo già progredito della rinascenza della musica inglese che, grazie a Holst e a Vaughan Williams è riuscita a riconquistare la propria autonomia. Un bene perduto che ritorna rinnovato in meglio.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 8, anno II, giugno 1964)

lunedì, settembre 01, 2025

Isolde Ahlgrimm: L'Offerta Musicale, le Sonate per viola da gamba e gli Harnoncourt

Philips A 00300 L
Il decimo volume delle Opere Complete per Clavicembalo comprendeva l'Offerta Musicale completa, suonata da Ahlgrimm, Rudolf Baumgartner, Alice Hamoncourt, Kurt Theiner, Nikolaus Hamoncourt e Ludwig von Pfersmann. Il saggio di accompagnamento trattava di Federico il Grande di Prussia e della storia dell'esecuzione e della ricezione dell'Offerta Musicale, in cui Ahlgrimm notava il declino della fuga nel XIX secolo. Particolare risalto veniva dato al flauto, e l'esecuzione di von Pfersmann, ancora una volta su un flauto in legno del 1835, era uno dei punti salienti di questa pubblicazione. L'Offerta Musicale, come l'Arte della Fuga, era stata a lungo considerata di natura teorica, in particolare i criptici piccoli canoni. Questa fu la prima registrazione completa dell'opera e ripristinò la strumentazione originale di Bach. La successiva registrazione autentica non sarebbe avvenuta prima di vent'anni dopo, sebbene negli anni '60 esistessero diverse versioni che trascrivevano i ricercari per clavicembalo per orchestra.
L'undicesimo volume era dedicato alle tre sonate per viola da gamba, registrate nel gennaio 1955 da Isolde Ahlgrimm insieme al ventiseienne Nikolaus Hamoncourt, allora violoncellista della Vienna Symphony e allievo di Paul Grümmer. Il suo primo ensemble barocco era stato il Wiener Gamben-Quartett, fondato nel 1950 con Alice Hoffelner ed Eduard Melkus. Questo gruppo aveva anche eseguito l'Arte della Fuga poco dopo, ricevendo recensioni contrastanti. Quando registrò con Ahlgrimm, Hamoncourt, ora sposato con Alice Hoffelner, aveva da poco formato il suo ensemble, il Concentus Musicus Wien. Il violinista e violista Kurt Theiner, cognato di Hamoncourt, nonché membro fondatore del Concentus, si unì agli Harnoncourt nella registrazione di Ahlgrimm dell'Offerta Musicale (BWV 1079). La seguente nota fu aggiunta alla versione originale:

In questa registrazione sono stati utilizzati solo antichi strumenti ad arco italiani della scuola di Amati. Eventuali modifiche e modernizzazioni apportate nel corso del tempo sono state accuratamente rimosse e il carattere sonoro originale è stato ripristinato.

Philips A 00 327 L
Per le sonate per viola da gamba, con Hamoncourt alla parte solista, Josef Herrmann ancora una volta suonava il basso. Nelle note alla sua registrazione del 1956 con Desmond Dupré, Thurston Dart sottolineava che la parte del basso dovesse essere suonata a 16' (sul clavicembalo) quando la parte solista rientrava nell'estensione del basso di 8'. Gli ammiratori dell'opera odierna di Nikolaus Harnoncourt troveranno queste prime registrazioni molto interessanti e, sebbene non corrispondano tecnicamente ai suoi sforzi successivi, lo spirito era certamente propositivo. Ahlgrimm suonava il clavicembalo Ammer del 1937 senza il suono di 4', per ottenere la massima integrazione con gli strumenti ad arco. Ritmo, fraseggio e articolazione in queste esecuzioni sono tutti molto avanti rispetto ai loro tempi.
La viola da gamba, allora ancora agli albori, ha tuttavia fatto grandi progressi da quando queste registrazioni furono realizzate, grazie al lavoro di August Wenzinger a Basilea, dello stesso Hamoncourt e, in misura ancora maggiore, del belga Wieland Kuijken e del suo allievo di punta, lo spagnolo Jordi Savall. Queste prime esecuzioni, le prime delle sonate di Bach realizzate utilizzando una viola da gamba anziché un violoncello moderno, sebbene ben al di sotto degli elevati standard di competenza odierni, sono ancora interessanti dal punto di vista storico. Hamoncourt suonava uno strumento a sette corde costruito nel 1683 da Christoph Klingler, successivamente convertito in violoncello, che Fiala aveva fatto restaurare alle sue condizioni originali nel 1937. Durante il restauro, gli accessori da violoncello del XIX secolo furono rimossi e lo strumento fu dotato dei suoi tasti originali, cosa insolita per suonare la viola da gamba a quel tempo. Per la parte del basso continuo, Hermann suonava il vecchio strumento Johannes Maria del 1530.
Oltre alle tre sonate, era inclusa anche la Trio Sonata (BWV 1038), il modello originale di Bach per la Sonata per gamba in sol maggiore, con Rudolf Baumgartner che suonava un violino della scuola di Amati del 1680, e von Pfersmann che utilizzava ancora il Bürger del 1835. flauto, e Hamoncourt, un violoncello di Francesco Ruggieri, Cremona 1683. Baumgartner, per il quale Ahlgrimm nutriva sempre grande stima personale e professionale, suonava perfettamente a suo agio sul violino barocco (sebbene usasse ancora la mentoniera), e von Pfersmann, che Ahlgrimm considerava uno dei migliori e più sensibili suonatori di Vienna, era anche lui un esecutore elegante, sebbene il suo modo di suonare non fosse propriamente idiomatico come lo intendiamo oggi. La vera rinascita del flauto barocco era ancora lontana.
Tuttavia, l'esecuzione sullo strumento originale doveva pur iniziare da qualche parte, e l'esecuzione di von Pfersmann si collocava forse a metà strada tra il flauto moderno standard e quello del XVIII secolo.
Peter Watchorn
("Isolde Ahlgrimm, Vienna and the Early Revival",Routledge, 2007)