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Claude Debussy (1862-1918) |
Silenzio!
Ecco attaccano le prime note del Trio:
«Mia madre mi ha generato nella pioggia e nella nebbia, perché io pianga come la pioggia e sia lacerato come le nubi. Maledetto il giorno della mia nascita, maledetta la notte nella quale fui concepito».
Mirabile relazione tra le leggi biologiche e le leggi religiose che lo spirito dell'uomo si è creato quaggiù. La biologia insegna che la condizione necessaria alla fecondazione dei germi è il buio perfetto. Come non scoprire una ineffabile relazione fra questa legge e la legge «religiosa» che impone di chiudere l'accoppiamento dentro l'angusto buio della notte? Uomini e donne si accoppiano anche in altre ore del giorno, e gli adulteri usano incontrarsi per lo più nel medio pomeriggio; ma sono accoppiamenti sterili.
Musica «geografica». Tale soprattutto la musica spagnola. Tale anche la musica russa. E s'intende che musica in cui il carattere geografico è dominante, è una musica inferiore - anche la musica dei «Cinque» dunque, con tutto che così bella e sonora di nostalgie - ma la sua tanta bellezza trae principalmente dall'anima del territorio, e dunque ha sempre un che di infinitamente patetico ma assieme di caduco, di mortale.
Anche la musica francese è «geografica», e questa sua sommissione alle ragioni terriere determina un suo costante stato di inferiorità, la vieta un alto e libero volo.
Da qui il suo perpetuo sforzo di volare -la sua insistente «leggerezza».
Mi riferisco soprattutto a Debussy, ossia al più francese dei musici francesi. Il quale, come una perfetta guida meteorologica, avverte che la Francia è paese umido e ventoso.
Ventosa è anche la musica di Franck il belga, la cui opera rientra nell'aura della musica francese. Costui diceva «les éoliennes», ma in verità si tratta della morne plaine di Waterloo percorsa da venti continui e di onda lunga. (Cfr. soprattutto la Sonata per violino e pianoforte, che propriamente è la messa in musica di una corrente d'aria).
La musica di Debussy è molle, fradicia, sgocciolante. Anche quella dell'ultimo periodo è più corposa, come la Sonata per violino e pianoforte citata in principio. Essendo bagnate le sue ali, il suo volo è basso e greve.
La voce di Claude Debussy suona gemente fra le nebbie. Dalle quali emerge talvolta come un liquido un fantasma, un fantasma di annegato, la faccia melmosa e lunare di lui: magister Urnidus.
Non riesco a sentire musica di Debussy, e non vedere assieme la faccia del suo autore. Pochi musici somigliano fisicamente alla propria opera, quanto colui che Gabriele D'Annunzio, nel Mistero di san Sebastiano, chiama magister Claudius. In questa mania di Gabriele D'Annunzio di cambiare i nomi anche delle persone, e di Ildebrando Pizzetti fare Ildebrando da Parma, di Claude Debussy fare magister Claudius, di Daniela Palmer fare Palma Palmer (di Giovanni Pascoli, D'Annunzio aveva tentato di fare «Giovanni di San Mauro»), è la spiegazione di quella lingua specialissima di Gabriele, nella quale le parole hanno un aspetto, un suono e un sapore diversi da quelli delle parole usuali, aderenti alle cose che esse nominano e piene del loro significato. Alcune musiche di Beethoven sembrano scritte da un volto giovanile, altre da un volto senile, ma diversissimi entrambi dal volto giovanile e dal volto senile di Beethoven. Debussy invece sembra non avere altra cura nella sua attività di musico, se non di scrivere il proprio ritratto perennemente, con una scrittura sonoramente diffusa e soprattutto liquida. Perché Debussy non è soltanto un nome scritto sull'acqua, ma è un volto ancora scritto sull'acqua, questo musico ofeliano. E non appena laggiù sul podio il maestro direttore, nero e preciso nella sua coda di rondine, e così diverso da Monsieur Croche «antidilettante», attacca le prime battute di Iberia, ecco che il volto di Debussy mi riappare nella mente; emerge sullo specchio d'acqua della mente; trapela sull'acqua stagnante della mente; si stende gonfio di sonno tra le ninfee immobili e marcescenti che le mani di un altro Claude - Monet - hanno sparso su questo stagno immobile come la morte, nel quale si fondono e muoiono per annegamento tutti i colori; i tratti ingreviti e allungati dal tempo, le palpebre pesanti e lunghe, e lunghi e pesanti i lobi delle orecchie, e lunghe e pesanti le labbra. E guardando questo volto che lentamente si sfalda nell'acqua e sul quale pesa a tocchi leggerissimi le sue zampe di vetro filato una zanzara gigantesca; soffocato da questo silenzio, da questi fiori di nebbia, da quest'aria di gomma strutta in cui non una eco rimane, non il più pallido ricordo sopravvive di un cielo turchino, di un cirro bianco, di una folgore che balza fuori dalla nube, di una voce che canta, di un uomo che chiama, di una donna che grida, di un bimbo che piange, di un uccello che passa, di un pesce che guizza, di una ghianda che cade giù dal platano, di un'acqua che corre, di un bue che muggisce, di un cane che abbaia, di un asino che raglia, di una gallina che chioccia, di una foglia che stormisce al vento, di un dormiente che sospira, di un treno che passa, di un piroscafo che fischia, di un motore che romba; mi torna su da un lontanissimo fondo di immagini dimenticate, spinta su da un fiato prigioniero, da un'umida angoscia, questa considerazione assurda: «Guarda, guarda Ofelia che ha messo la barba...» E a
proposito delle orecchie di Debussy, giova anche ricordare quel turco che era arrivato all'età di centocinquantaquattro anni, quando fu chiesto in isposo da un'americana, il quale ogni cinque anni aveva come una spinta di crescenza, che gli aveva allungato i lobi delle orecchie fino alle spalle.
Eppure Iberia, questa sequenza di immagini sonore ispirate dalla Spagna e alla Spagna dedicate, è la meno debussiana delle musiche di Debussy; tanto vivo è il sangue della Spagna, ostinato a non lasciarsi sopraffare da quel sinuoso, da quel dolciastro, da quell'avvolgente e asfissiante invito alla morte che sono i suoni di Debussy. Perché della morte la Spagna ha il gusto, né giova in questo luogo ricordare quanto e in quale modo lo ha saputo dimostrare, ma la morte spagnola non conosce preparazione, è una morte viva, un salto improvviso e spensierato nella morte; diversamente dalla musica di Debussy che è tutta una preparazione alla morte, e forse per questo in fondo essa è una maniera esangue di non morire, una vita minima e allungatissima, una debolissima e pallidissima forma di immortalità. Un giorno d'altra parte bisognerà disegnare l'atlante della moda nelle arti, seguire i suoi spostamenti sulla palla dell'orbe, indicare come fino a Berlioz l'Italia ispirò i musicisti francesi (Carnaval romain, Benvenuto Cellini, Aroldo in Italia) e come di poi questo compito se lo è preso la Spagna, ispirando Bizet, Debussy, Ravel.
Torno a guardare la faccia lunare di Debussy, immersa nell'acqua verdastra dello stagno. E a poco a poco la faccia di Debussy sparisce e solo l'orecchio rimane visibile, unica parte essenziale della testa di magister Claudius. Debussy è il più immusicato dei musici.
Colui nel quale la musica come vizio inibitore di tutte le facoltà che non sono quella dell'audizione esterna e dell'audizione interna dei suoni: facoltà di pensare, facoltà di guardare, facoltà di sentire, arriva alle sue conseguenze ultime. E l'orecchio di magister Claudius, enorme e grasso come una molle conchiglia, si posa più che in ascolto, si posa in ascoltazione sulla pelle della natura; e diventa microacustico per cogliere l'infinitamente piccolo dei suoni, siccome il microscopio coglie l'infinitamente piccolo degli aspetti. Perché il moto di avvicinamento dell'arte alla vita iniziato da Bizet, e del quale ho parlato un'altra volta a proposito della Carmen, continua ancora. E siccome Bizet ha staccato la musica dalla sua sublime convenzionalità e l'ha avvicinata alla vita naturale, Debussy per parte sua accorcia ancora le distanze, le abolisce addirittura, e il suo orecchio tocca, aderisce, s'incolla al corpo della natura, per cogliere le sue voci più piccole, le sue confessioni più gelose, come l'orecchio del medico si posa sulla schiena dell'ammalato per cogliere il canto profondo dei suoi bronchi. E ogni prospettiva manca nella musica di Debussy, questo più «naturale» dei musici, quella prospettiva che fa maestosa l'arte e solitaria, e sacra come un altare. E i suoni naturali sono colti nella loro nuda intimità, nel loro naturale disordine, nella loro disperata alogicità, nella loro distesa noia nel tempo, nella loro abbandonata inerzia nello spazio. E il tema manca, che è creazione e arbitrio dell'uomo, e non rimane se non un pulviscolo di elementi per terra che appena appena si muovono come dei vermi neonati, uno sciame di elementi minimi nell'aria, un nugolo di bollicine che salgono dal fondo del mare a un pieno così totale di esistenza, che non lascia buco, di una volontà di uomo. Natura sommerge l'uomo come una foresta tropicale, come un mare di sabbia, in un correre continuo di cose che sfuggono all'esame, si sottraggono al giudizio, e passano attraverso i filtri più stretti della volontà umana; un ondeggiare senza posa, un brulicare senza fine, un brillare ininterrotto in tanto continuo e universale essere, che l'essere stesso dell'essere si disgrega e sparisce. Quale altra causa cercare a questo non essere della musica di Debussy, a questo suo non lasciare traccia di sé, non memoria di suono; quale altra causa di questo suo essere troppo, di questo suo essere tutto? L'alleanza tra arte e natura è ormai perfetta. Nessun di più è consentito. Ed è per questo che la musica arrivata a Debussy, è come una locomotiva arrivata ai respingenti di un binario morto; e le tocca tornare indietro, ritornare a Bach, ritornare alla sua regione solitaria e astratta, lontana dalla natura allettatrice e deleteria.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)
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