Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, dicembre 22, 2025

Goffredo Petrassi: Musica, Amore mio...

Goffredo Petrassi (Luigi Montanarini, 1940)
Fin da 
piccolo sono sempre stato molto curioso e continuamente attratto, per una mia vitalità e vivacità interiore, da tutto quello che mi circondava: non soltanto da un punto di vista musicale, ma anche letterario e artistico in generale; non sapevo ancora bene di cosa volessi occuparmi, ma mi interessavo, nei modi limitatissimi e con l'ingenuità di un adolescente senza cultura, di architettura e di pittura, visitavo chiese e musei. Era tutto un ammasso di cultura che cresceva senza un controllo, senza una guida, perché procedevo solo sulla spinta dell'istinto; ma tutto ciò mi ha arricchito enormemente, perché in seguito questo bagaglio che avevo acquisito per conto mio si è cominciato a ordinare, a sistemare ed è poi diventato una specie di specchio, di lente che rifletteva e ingrandiva il mio mondo musicale. Non che si stabilissero dei collegamenti diretti, ma semplicemente con la crescita della cultura ho acquistato a poco a poco il controllo sul gusto, sullo stile, ho imparato a non abbandonarmi a un'espressione musicale qualsiasi, che non fosse controllata da un forte senso autocritico. Questo mi pare che debba avvenire in ciascuno di noi, non credo sia stato un mio pregio personale; certo è che ritengo che un musicista che non si affacci sul mondo esterno, che sia ignorante di letteratura e di arte, che non senta un'esigenza di cultura, di accrescimento, di nuove prospettive, non possa realmente essere definito musicista completo. E ancor di più questo discorso vale per un compositore.
Quando ha deciso di fare il compositore?
L'ho deciso tardissimo, naturalmente: prima non avevo le idee molto chiare; mi ricordo che a diciotto anni volevo diventare letterato. Scrivevo cose spaventose, e ho abbandonato l'idea.
E quindi ha iniziato a dedicarsi alla composizione...
Sì, seguendo una strada prima autonoma, pur dovendo fare i conti con i due maggiori compositori allora operanti in Italia, Pizzetti e Respighi; nutrivo un grande interesse per Pizzetti, meno per Respighi. A questo proposito ho vivissimo un ricordo di gioventù: dai loggioni dell'Augusteo ho assistito alla prima esecuzione dei Pini di Roma (il 14 dicembre 1924, n.d.r.); me la ricordo benissimo, e mi ricordo ancora bene che io fui tra i pochissimi fischiatori. Non sapevo io stesso il perché, ma in mezzo al trionfo delle legioni romane, alla esaltazione della gloria del Campidoglio c'era qualche cosa che non si conciliava con il mio stato d'animo, e ho fischiato. Io non appartenevo alla scuola respighiana; certo, avevo ammirazione per l'abilità del compositore nel trattare l`orchestra, ma per conto mio il melodizzare di Respighi ha caratteri poco riconoscibili. Poco tempo fa, però, risentendo Feste romane, mi ha colpito un particolare che avevo dimenticato; alla fine c'è qualche minuto di “pazzia”, con l'orchestra che fa delle cose quasi inconsulte; è durante l'episodio della notte dell'Epifania a Piazza Navona, ed è una “pazzia” simile a quella delle ultime battute del Bolero di Ravel, quando c'è l'improvvisa modulazione a mi maggiore e poi una specie di cadenza con l'orchestra impazzita; insomma ho scorto in quel finale delle Feste romane la possibilità che aveva Respighi di esprimere cose più intense e più profonde di quelle che generalmente traspaiono.
Nessun contatto con Respighi, dunque?
No, il mio indirizzo è stato diverso. È stato invece l'incontro con Alfredo Casella che ha precisato meglio quella che era la mia direzione. Casella era l'emblema di un atteggiamento estetico aperto verso altre suggestioni e quindi era assai diverso da quella dimensione culturale della musica in Italia ferma sul piede melodrammatico di casa, chiusa verso l'esterno. In quegli anni ho anche ammirato molto Hindemith, che avevo ascoltato varie volte all'Augusteo e che mi aveva sedotto perché corrispondeva alle esigenze della mia vitalità, alla mia curiosità.
Ma era difficile allora conoscere le musiche degli autori stranieri?
No, per niente. Negli anni Venti e nei primi anni Trenta era facilissimo. Tutti i grandi protagonisti della musica, solisti, direttori, compositori, venivano continuamente a Roma, all'Augusteo. Io mi sono nutrito
di musica al loggione dell'Augusteo; ho vissuto lì fin da piccolo, fin da quando ho cominciato a occuparmi di musica; per quattro anni ho anche fatto parte dell'orchestra. Suonavo non come fisso, ma come aggiunto, la “piccola cucina” della batteria. Sono stati quattro anni in cui ero dall'altra parte, e là, nelle viscere dell'orchestra, ho imparato tutto; ho imparato la strumentazione, l'uso dei timbri; è stato un
insegnamento talmente importante che spesso mi domando che cosa avrei combinato se non avessi vissuto quell'esperienza determinante.
L'Augusteo è stato quindi fondamentale per Goffredo Petrassi...
Per me, ma soprattutto per la cultura musicale italiana. Abituò pubblico e musicisti alle novità. Quasi ogni domenica c'era una prima esecuzione, o italiana o straniera, o una ripresa di musiche di autori contemporanei italiani, diretta da Bernardino Molinari; oggi questo non succede più e le opere contemporanee sono confinate in festival e festivalini grandi o piccoli. Oggi il pubblico è impigrito rispetto alla musica odierna, perché non è stato sollecitato quanto era necessario.
Ma il pubblico di allora gradiva la musica contemporanea?
Il pubblico di quell'epoca era abbastanza colto; spesso dissentiva, ma la musica nuova si faceva, e questo era l'importante. Potrei fare infiniti esempi, ma valga uno per tutti: la prima esecuzione a Roma del Bolero di Ravel, subito dopo la prima assoluta. Il pubblico domenicale rimase sconcertato dall'eterno susseguirsi dello stesso tema, pur con tutte le sfaccettature timbriche che sappiamo; alla fine era disorientato, non sapeva cosa pensare: ci furono quindi applausi, urla, tentennamenti di testa, gente che sbraitava, che litigava, perché era stata sollecitata in un modo inconsueto. Ma la composizione fu replicata, mi pare due giorni dopo, ed ebbe un successo enorme; quindi si vede chiaramente che era un pubblico che sapeva giudicare bene, reattivo e non pigro perché più colto.
Come si è snodato, poi, dopo questi primi anni, il suo itinerario artistico?
È stata una presa di coscienza progressiva, prima come appropriazione dei mezzi tecnici, poi approfondendo e chiarendo la mia visione estetica della musica, che significava soprattutto uno studio di ricerca interiore su quello che mi era più congeniale, su quello che mi interessava più profondamente esprimere. Questo naturalmente è avvenuto attraverso molti tentativi e molti riferimenti anche a compositori del passato. Uno di questi è stato Frescobaldi; il suo insegnamento, attraverso l'analisi delle sue opere, è stato per me di grande importanza, svelandomi un certo modo di melodizzare, di condurre il percorso armonico, di organizzare i temi musicali, siano essi due, tre o quattro. Da Frescobaldi sono passato subito a Bach, un altro pilone su cui si è fondata la mia ricerca, orientata da un punto di vista tecnico verso l'antica pratica del contrappunto; e questo è un fatto normale se si considera che avevo capito che non potevo lasciarmi stregare dalle sirene dell'impressionismo, nonostante fossero molto affascinanti. Da ragazzo, con una vita travagliata e non certo facile, se la domenica ascoltavo all'Augusteo un pezzo di Debussy, per tutta la settimana camminavo come sollevato a tre, quattro centimetri da terra, tanto era l'incanto, la suggestione, il totale straniamento dalla realtà che le musiche di Debussy provocavano in me. Era una sirena il cui canto ha lasciato delle tracce, ma il debussysmo per me non era più praticabile; io rifuggivo dalla scala per toni interi perché a quei tempi era l'ultima spiaggia dell'ultimo provinciale dell'ultima provincia. Però questa magia debussyana è stata filtrata attraverso altre cose: è intervenuta una presa di coscienza che mi ha portato verso cognizioni molto più vaste, esperienze culturali di tutti i generi mi hanno arricchito in tanti sensi.
C'è un filo conduttore nella musica degli ultimi cinquant'anni?
Apparentemente può sembrare che il filo conduttore sia stato spezzato attorno al 1950, dalla scuola di Darmstadt in poi; è quello che comunemente si dice. In realtà non è così, perché ormai, a distanza di tempo, oggi riusciamo a vedere quanto Boulez sia debitore a Debussy piuttosto che ai viennesi. Ci rendiamo conto di quanto Stockhausen affondi le sue radici profondamente nella cultura e nell'estetica tedesca, quasi senza fratture. Con questo non voglio dire semplicemente che ci sono dei tratti nazionali, ma voglio dire che l'azzeramento, il ricominciare completamente da capo, non c'è stato. C'è stato certamente un rivolgimento nel modo di riconsiderare la musica, nel modo di comporre, di organizzare il discorso musicale; sicuramente si è verificata una grande evoluzione formale, ma per quello che riguarda l'essenza della musica, la sostanza della tradizione, il filo conduttore non si è spezzato e lo si scorge chiaramente rispetto a quello che è il lato più intimo e oscuro delle cose, quello dell'estetica.
Allora il ritorno a certi padri della tradizione non è una scoperta delle nuove generazioni?
Io non prenderei in considerazione questi ritorni a questo o a quel nome del passato: oggi si ritorna a uno, domani si ritornerà a un altro; mi interessa di più quello che i giovani possono succhiare dalla tradizione. Questo è un discorso più complesso, perché noi diciamo tradizione, ma ognuno di noi ha la sua propria, personale tradizione. Non c'è una tradizione di referenza valida per tutti, non esiste una tradizione oggettiva. Per quello che mi riguarda io considero tradizione certi musicisti, certi archetipi che io chiamo i miei «padri fondatori»; con questi c'è un'intesa particolare, perché sono quelli che mi hanno nutrito. Se io prendo un nome così, qualunque, Beethoven, ebbene le pare che io possa dire qualcosa che non sia di totale venerazione? Eppure Beethoven non è stato uno degli autori che mi hanno nutrito, la mia tradizione personale non contempla Beethoven, e non è una bestemmia, perché anche lo scrivere musica si collega alla fondamentale ricerca di se stessi e delle proprie radici. Le radici le dobbiamo scovare dentro di noi, dobbiamo ciascuno per proprio conto interrogarci e capire bene cosa si è, cosa si vuole, e quindi che cosa ci necessita, quale è il nutrimento di cui abbiamo bisogno. Questo è veramente fondamentale, e questo ciascuno deve scegliere e scoprire da sé, guardandosi dentro profondamente con coraggio.
Lei una volta ha detto che il compositore non deve vendersi l'anima al diavolo.
Già, la famosa frase... Ma proprio questa è la conseguenza di quello che ho detto: la ricerca di noi stessi deve essere sincera, coraggiosa, svolta in totale buona fede; sembra un luogo comune, ma quando si comincia a guardarsi dentro è una specie di abisso: ci sono quelli che hanno il coraggio di andare in profondità ed estrarne qualche cosa di possibile, ci sono quelli che affogano e quelli che si bloccano e non procedono; la maggior parte si rifiuta di guardare e si lascia guidare da moventi diversi da quelli puramente artistici e musicali. Ma l'arte ha un'etica che non bisogna tradire. Se si tradisce non è più arte, è un'altra cosa. Non parlo naturalmente della vita quotidiana dell'artista gaudente, ma voglio dire che prima di tutto bisogna scandagliare se stessi e rimanere coerenti con i propri ideali più intimi.
Maestro, lei ha scritto solo due opere teatrali e due balletti: scrivere per il teatro non le piace?
Mi sono spesso chiesto perché la mia produzione teatrale sia tutto sommato limitata e ho capito che la ragione di fondo sta nella mia naturale riservatezza, perché nell'opera, o almeno nell'opera come la s'intende comunemente, i personaggi devono esprimere la loro interiorità, devono parlare di sé, devono mostrarsi quasi denudati; io ho sempre avuto una specie di pudore per questo tipo di espressività, questo modo estremo di esprimersi non mi è mai stato congeniale. Infatti ho compiuto almeno altri due tentativi di opera, una su libretto di Albert Camus, l'altra di Giraudoux, ma sono arrivato in entrambi i casi solo alla metà del primo atto; poi non sono più andato avanti. Questo modo di comunicare non è il mio, ho sempre preferito esprimermi piuttosto attraverso il coro. E poi in fondo, pur amando moltissimo il teatro d'opera, mi pare che, tutto sommato, sia un genere per certi aspetti consunto, esaurito.
Maestro, che cosa ha cercato soprattutto, in tutti questi anni di pratica compositiva?
Ho cercato soprattutto la realizzazione di me stesso, l'espressione del mio modo di essere; anche se può sembrare una banalità, è veramente l'unica risposta possibile; quando ho dei turbamenti, l'unico modo per placarli è esprimere me stesso attraverso la musica. Non so fare altro, faccio la musica.
Palo Arcà
("Musica e Dossier", Anno 1, Numero 1, Novembre 1986)  

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