Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, dicembre 22, 2025

Goffredo Petrassi: Musica, Amore mio...

Goffredo Petrassi (Luigi Montanarini, 1940)
Fin da 
piccolo sono sempre stato molto curioso e continuamente attratto, per una mia vitalità e vivacità interiore, da tutto quello che mi circondava: non soltanto da un punto di vista musicale, ma anche letterario e artistico in generale; non sapevo ancora bene di cosa volessi occuparmi, ma mi interessavo, nei modi limitatissimi e con l'ingenuità di un adolescente senza cultura, di architettura e di pittura, visitavo chiese e musei. Era tutto un ammasso di cultura che cresceva senza un controllo, senza una guida, perché procedevo solo sulla spinta dell'istinto; ma tutto ciò mi ha arricchito enormemente, perché in seguito questo bagaglio che avevo acquisito per conto mio si è cominciato a ordinare, a sistemare ed è poi diventato una specie di specchio, di lente che rifletteva e ingrandiva il mio mondo musicale. Non che si stabilissero dei collegamenti diretti, ma semplicemente con la crescita della cultura ho acquistato a poco a poco il controllo sul gusto, sullo stile, ho imparato a non abbandonarmi a un'espressione musicale qualsiasi, che non fosse controllata da un forte senso autocritico. Questo mi pare che debba avvenire in ciascuno di noi, non credo sia stato un mio pregio personale; certo è che ritengo che un musicista che non si affacci sul mondo esterno, che sia ignorante di letteratura e di arte, che non senta un'esigenza di cultura, di accrescimento, di nuove prospettive, non possa realmente essere definito musicista completo. E ancor di più questo discorso vale per un compositore.
Quando ha deciso di fare il compositore?
L'ho deciso tardissimo, naturalmente: prima non avevo le idee molto chiare; mi ricordo che a diciotto anni volevo diventare letterato. Scrivevo cose spaventose, e ho abbandonato l'idea.
E quindi ha iniziato a dedicarsi alla composizione...
Sì, seguendo una strada prima autonoma, pur dovendo fare i conti con i due maggiori compositori allora operanti in Italia, Pizzetti e Respighi; nutrivo un grande interesse per Pizzetti, meno per Respighi. A questo proposito ho vivissimo un ricordo di gioventù: dai loggioni dell'Augusteo ho assistito alla prima esecuzione dei Pini di Roma (il 14 dicembre 1924, n.d.r.); me la ricordo benissimo, e mi ricordo ancora bene che io fui tra i pochissimi fischiatori. Non sapevo io stesso il perché, ma in mezzo al trionfo delle legioni romane, alla esaltazione della gloria del Campidoglio c'era qualche cosa che non si conciliava con il mio stato d'animo, e ho fischiato. Io non appartenevo alla scuola respighiana; certo, avevo ammirazione per l'abilità del compositore nel trattare l`orchestra, ma per conto mio il melodizzare di Respighi ha caratteri poco riconoscibili. Poco tempo fa, però, risentendo Feste romane, mi ha colpito un particolare che avevo dimenticato; alla fine c'è qualche minuto di “pazzia”, con l'orchestra che fa delle cose quasi inconsulte; è durante l'episodio della notte dell'Epifania a Piazza Navona, ed è una “pazzia” simile a quella delle ultime battute del Bolero di Ravel, quando c'è l'improvvisa modulazione a mi maggiore e poi una specie di cadenza con l'orchestra impazzita; insomma ho scorto in quel finale delle Feste romane la possibilità che aveva Respighi di esprimere cose più intense e più profonde di quelle che generalmente traspaiono.
Nessun contatto con Respighi, dunque?
No, il mio indirizzo è stato diverso. È stato invece l'incontro con Alfredo Casella che ha precisato meglio quella che era la mia direzione. Casella era l'emblema di un atteggiamento estetico aperto verso altre suggestioni e quindi era assai diverso da quella dimensione culturale della musica in Italia ferma sul piede melodrammatico di casa, chiusa verso l'esterno. In quegli anni ho anche ammirato molto Hindemith, che avevo ascoltato varie volte all'Augusteo e che mi aveva sedotto perché corrispondeva alle esigenze della mia vitalità, alla mia curiosità.
Ma era difficile allora conoscere le musiche degli autori stranieri?
No, per niente. Negli anni Venti e nei primi anni Trenta era facilissimo. Tutti i grandi protagonisti della musica, solisti, direttori, compositori, venivano continuamente a Roma, all'Augusteo. Io mi sono nutrito
di musica al loggione dell'Augusteo; ho vissuto lì fin da piccolo, fin da quando ho cominciato a occuparmi di musica; per quattro anni ho anche fatto parte dell'orchestra. Suonavo non come fisso, ma come aggiunto, la “piccola cucina” della batteria. Sono stati quattro anni in cui ero dall'altra parte, e là, nelle viscere dell'orchestra, ho imparato tutto; ho imparato la strumentazione, l'uso dei timbri; è stato un
insegnamento talmente importante che spesso mi domando che cosa avrei combinato se non avessi vissuto quell'esperienza determinante.
L'Augusteo è stato quindi fondamentale per Goffredo Petrassi...
Per me, ma soprattutto per la cultura musicale italiana. Abituò pubblico e musicisti alle novità. Quasi ogni domenica c'era una prima esecuzione, o italiana o straniera, o una ripresa di musiche di autori contemporanei italiani, diretta da Bernardino Molinari; oggi questo non succede più e le opere contemporanee sono confinate in festival e festivalini grandi o piccoli. Oggi il pubblico è impigrito rispetto alla musica odierna, perché non è stato sollecitato quanto era necessario.
Ma il pubblico di allora gradiva la musica contemporanea?
Il pubblico di quell'epoca era abbastanza colto; spesso dissentiva, ma la musica nuova si faceva, e questo era l'importante. Potrei fare infiniti esempi, ma valga uno per tutti: la prima esecuzione a Roma del Bolero di Ravel, subito dopo la prima assoluta. Il pubblico domenicale rimase sconcertato dall'eterno susseguirsi dello stesso tema, pur con tutte le sfaccettature timbriche che sappiamo; alla fine era disorientato, non sapeva cosa pensare: ci furono quindi applausi, urla, tentennamenti di testa, gente che sbraitava, che litigava, perché era stata sollecitata in un modo inconsueto. Ma la composizione fu replicata, mi pare due giorni dopo, ed ebbe un successo enorme; quindi si vede chiaramente che era un pubblico che sapeva giudicare bene, reattivo e non pigro perché più colto.
Come si è snodato, poi, dopo questi primi anni, il suo itinerario artistico?
È stata una presa di coscienza progressiva, prima come appropriazione dei mezzi tecnici, poi approfondendo e chiarendo la mia visione estetica della musica, che significava soprattutto uno studio di ricerca interiore su quello che mi era più congeniale, su quello che mi interessava più profondamente esprimere. Questo naturalmente è avvenuto attraverso molti tentativi e molti riferimenti anche a compositori del passato. Uno di questi è stato Frescobaldi; il suo insegnamento, attraverso l'analisi delle sue opere, è stato per me di grande importanza, svelandomi un certo modo di melodizzare, di condurre il percorso armonico, di organizzare i temi musicali, siano essi due, tre o quattro. Da Frescobaldi sono passato subito a Bach, un altro pilone su cui si è fondata la mia ricerca, orientata da un punto di vista tecnico verso l'antica pratica del contrappunto; e questo è un fatto normale se si considera che avevo capito che non potevo lasciarmi stregare dalle sirene dell'impressionismo, nonostante fossero molto affascinanti. Da ragazzo, con una vita travagliata e non certo facile, se la domenica ascoltavo all'Augusteo un pezzo di Debussy, per tutta la settimana camminavo come sollevato a tre, quattro centimetri da terra, tanto era l'incanto, la suggestione, il totale straniamento dalla realtà che le musiche di Debussy provocavano in me. Era una sirena il cui canto ha lasciato delle tracce, ma il debussysmo per me non era più praticabile; io rifuggivo dalla scala per toni interi perché a quei tempi era l'ultima spiaggia dell'ultimo provinciale dell'ultima provincia. Però questa magia debussyana è stata filtrata attraverso altre cose: è intervenuta una presa di coscienza che mi ha portato verso cognizioni molto più vaste, esperienze culturali di tutti i generi mi hanno arricchito in tanti sensi.
C'è un filo conduttore nella musica degli ultimi cinquant'anni?
Apparentemente può sembrare che il filo conduttore sia stato spezzato attorno al 1950, dalla scuola di Darmstadt in poi; è quello che comunemente si dice. In realtà non è così, perché ormai, a distanza di tempo, oggi riusciamo a vedere quanto Boulez sia debitore a Debussy piuttosto che ai viennesi. Ci rendiamo conto di quanto Stockhausen affondi le sue radici profondamente nella cultura e nell'estetica tedesca, quasi senza fratture. Con questo non voglio dire semplicemente che ci sono dei tratti nazionali, ma voglio dire che l'azzeramento, il ricominciare completamente da capo, non c'è stato. C'è stato certamente un rivolgimento nel modo di riconsiderare la musica, nel modo di comporre, di organizzare il discorso musicale; sicuramente si è verificata una grande evoluzione formale, ma per quello che riguarda l'essenza della musica, la sostanza della tradizione, il filo conduttore non si è spezzato e lo si scorge chiaramente rispetto a quello che è il lato più intimo e oscuro delle cose, quello dell'estetica.
Allora il ritorno a certi padri della tradizione non è una scoperta delle nuove generazioni?
Io non prenderei in considerazione questi ritorni a questo o a quel nome del passato: oggi si ritorna a uno, domani si ritornerà a un altro; mi interessa di più quello che i giovani possono succhiare dalla tradizione. Questo è un discorso più complesso, perché noi diciamo tradizione, ma ognuno di noi ha la sua propria, personale tradizione. Non c'è una tradizione di referenza valida per tutti, non esiste una tradizione oggettiva. Per quello che mi riguarda io considero tradizione certi musicisti, certi archetipi che io chiamo i miei «padri fondatori»; con questi c'è un'intesa particolare, perché sono quelli che mi hanno nutrito. Se io prendo un nome così, qualunque, Beethoven, ebbene le pare che io possa dire qualcosa che non sia di totale venerazione? Eppure Beethoven non è stato uno degli autori che mi hanno nutrito, la mia tradizione personale non contempla Beethoven, e non è una bestemmia, perché anche lo scrivere musica si collega alla fondamentale ricerca di se stessi e delle proprie radici. Le radici le dobbiamo scovare dentro di noi, dobbiamo ciascuno per proprio conto interrogarci e capire bene cosa si è, cosa si vuole, e quindi che cosa ci necessita, quale è il nutrimento di cui abbiamo bisogno. Questo è veramente fondamentale, e questo ciascuno deve scegliere e scoprire da sé, guardandosi dentro profondamente con coraggio.
Lei una volta ha detto che il compositore non deve vendersi l'anima al diavolo.
Già, la famosa frase... Ma proprio questa è la conseguenza di quello che ho detto: la ricerca di noi stessi deve essere sincera, coraggiosa, svolta in totale buona fede; sembra un luogo comune, ma quando si comincia a guardarsi dentro è una specie di abisso: ci sono quelli che hanno il coraggio di andare in profondità ed estrarne qualche cosa di possibile, ci sono quelli che affogano e quelli che si bloccano e non procedono; la maggior parte si rifiuta di guardare e si lascia guidare da moventi diversi da quelli puramente artistici e musicali. Ma l'arte ha un'etica che non bisogna tradire. Se si tradisce non è più arte, è un'altra cosa. Non parlo naturalmente della vita quotidiana dell'artista gaudente, ma voglio dire che prima di tutto bisogna scandagliare se stessi e rimanere coerenti con i propri ideali più intimi.
Maestro, lei ha scritto solo due opere teatrali e due balletti: scrivere per il teatro non le piace?
Mi sono spesso chiesto perché la mia produzione teatrale sia tutto sommato limitata e ho capito che la ragione di fondo sta nella mia naturale riservatezza, perché nell'opera, o almeno nell'opera come la s'intende comunemente, i personaggi devono esprimere la loro interiorità, devono parlare di sé, devono mostrarsi quasi denudati; io ho sempre avuto una specie di pudore per questo tipo di espressività, questo modo estremo di esprimersi non mi è mai stato congeniale. Infatti ho compiuto almeno altri due tentativi di opera, una su libretto di Albert Camus, l'altra di Giraudoux, ma sono arrivato in entrambi i casi solo alla metà del primo atto; poi non sono più andato avanti. Questo modo di comunicare non è il mio, ho sempre preferito esprimermi piuttosto attraverso il coro. E poi in fondo, pur amando moltissimo il teatro d'opera, mi pare che, tutto sommato, sia un genere per certi aspetti consunto, esaurito.
Maestro, che cosa ha cercato soprattutto, in tutti questi anni di pratica compositiva?
Ho cercato soprattutto la realizzazione di me stesso, l'espressione del mio modo di essere; anche se può sembrare una banalità, è veramente l'unica risposta possibile; quando ho dei turbamenti, l'unico modo per placarli è esprimere me stesso attraverso la musica. Non so fare altro, faccio la musica.
Palo Arcà
("Musica e Dossier", Anno 1, Numero 1, Novembre 1986)  

sabato, dicembre 13, 2025

Edwin Fischer dalle molte anime

Edwin Fischer (1886-1960)
Il portello del palcoscenico si apre, ed Edwin Fischer ir
rompe sulla scena: cinghialotto che la musica attira come una battaglia o un incontro d'amore, la traversa di corsa per metà, scavalca a saltini la pedana del direttore d'orchestra, si ferma tarchiato e sodo al fianco del pianoforte, come un artigliere al fianco del pezzo; e il primo pezzo comincia maestosamente a sparare, il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart.
Ogni pianoforte andrebbe fabbricato a somiglianza del pianista che lo suona; onde non il pianoforte basso e lungo sul quale domenica scorsa Edwin Fischer «lavorò», ma un pianoforte più breve e tarchiato: non un Rorquale di Sibbald insomma, o balaenoptera musculus di trenta metri di lunghezza, ma un fisitero pigmeo, o Kogia breviceps, di quattro metri al massimo.
Se nell'abate Liszt siamo tutti concordi a riconoscere il tipo fisico del pianista, cioè a dire l'uomo che non solo è fornito di braccia lunghissime e spezzate in più articolazioni del normale, ma dispone anche di braccia in soprannumero che gli consentono di sonare da solo a quattro mani, dobbiamo dire che Edwin Fischer pianista non è; lui che nelle membra non ha lo sviluppo diabolico dell'abate, ma un corpo intasato e a cartuccia; non le scheletriche mani del grande Franz, ma due mani rotondette che per natural tendenza si arrotondano anche più nel pugno, e lasciate pendule in cima alle braccine robuste ma brevi, non oltrepassano la falda della giacca essa pure cortissima. Dobbiamo dire che Edwin Fischer pianista non è, anche se il pianoforte egli certamente lo suona meglio e con più serietà dell'abate Liszt, come argomentiamo non da una nostra esperienza personale, ma da quanto ci narrava nostra madre, che udì l'abate prima tenere un'accademia a Firenze in una sala tutta bianca e oro, poi lo riudì a Odessa, una notte che anche il Mar Nero si era messo a dare un fragoroso récital, dietro una camerata di caserma che bandiere e festoni di carta invano si sforzavano di trasformare in sala da concerto.
Mar Nero è la traduzione del turco Karadeniz, che i Turchi chiamano così per le frequenti tempeste che agitano questo mare; i Greci invece chiamano il Mar Nero Ponto Eusino, che significa «mare ben ospitale». Si crede generalmente che soltanto le cose metafisiche consentono la varietà delle opinioni; ecco invece che anche una cosa tutta fisica come il mare...
E veramente Edwin Fischer pianista non è, se per pianista s'intende un uomo solitario e in frac, a tu per tu con un pianoforte esso pure solitario e in frac; per meglio dire Fischer è pianista multiplo, che vuole sonare e assieme dirigere, far cantare o martellare a stormo il pianoforte che gli sta davanti, e assieme far cantare o martellare a stormo gli strumenti che gli stanno intorno, animando e guidando con l'occhio, con l'alfabeto delle dita, con le spallucce in tumulto anche quelle macchine di suoni cui le sue braccia troppo corte non possono arrivare.
Costretto al solo pianoforte Edwin Fischer bolle e sussulta d'impazienza, si afferra ora una mano ora l'altra per impedire a quelle frementi radici di carne di compiere qualche atto inconsiderato, si tiene stretto alla sedia come Prometeo alla rupe, per non saltar su e mettersi a sonare «personalmente» gli strumenti dell'orchestra, e non uno a uno ma tutti assieme.
Guardavamo l'ansiosa attesa di Edwin Fischer, durante la lunga introduzione del concerto di Mozart, e soffrivamo della sua sofferenza. Ma non fino all'ultimo fu forte Edwin Fischer. Ogni tanto al richiamo dei temi più cari, Fischer non riusciva più a frenarsi, e «toccava» la tastiera, mescolandosi dietro un fortissimo dell'orchestra, come in mezzo a una folla si manda un segreto bacio alla donna amata. Forse l'impazienza di Fischer sarebbe stata men dura, se fosse stato attaccato il concerto con maggiore energia. Come tutti i ragazzi, anche Wolfgang Amadeus voleva fare il grande: e l'introduzione del Concerto in re minore è uno dei momenti in cui più viva è la patetica, la commovente volontà di questo «eterno fanciullo» di mostrarsi grave e importante. Chi lo sa? Nella voce di quel tema imponente, Mozart sperava di mostrarsi «uomo» alla sua Costanza, e che importa se questo Concerto Mozart lo scrisse nel 1785, quando apparentemente egli sembrava adulto? Onde noi crediamo che questo «momento» richiede la baldanzosa, la forzata energia di un ragazzo che per mascherarsi da grande, si è dipinto col tappo affumicato alla fiamma della candela, due baffi in mezzo alla faccia rosea e paffuta.
Non meravigli se i panni stanno così stretti addosso ad Edwin Fischer. Conosciamo uomini pieni di anima e tutti polso e pulsanti dalla cima dei capelli alla punta dei piedi (così doveva essere Chopin quando sonava per il diletto di Honoré de Balzac, grasso e peloso), ma uomini di tante anime ne conosciamo uno solo: Edwin Fischer. Anime che quando le manine del loro padrone ballano in tempesta sulla tastiera, son buoni tutti ad accorgersi che sono tante e tutte animate di un'energia da Eumenidi; ma non calano di numero quando Fischer comprime le dita a due sole sottilissime voci, come nel secondo tempo del Concerto di Mozart (in questo sospiroso sogno di un fanciullo) o anche a una unica voce, come nel «tranquillo» della metà del primo tempo del Concerto in do minore di Beethoven; perché in quelle due sole voci, in quell'unica voce sono riunite e attorte a filo tutte quante le anime di Fischer con tutto il loro ardore, con tutta la loro poesia, come nel segno solitario di un Raffaello sono riuniti i molti segni di un Tintoretto.
Alberto Savinio
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

martedì, dicembre 02, 2025

Appunti sul Fidelio

Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Quest'anno, la più grossa sorpresa registrata al Tea
tro dell'Opera di Roma è venuta dal Fidelio di Beethoven: che, in una «replica», ha fatto registrare il «tutto esaurito» (abbastanza raro a Roma, per chi non lo sapesse). Se a questo aggiungiamo che si trattava di una «replica» dedicata agli studenti, noteremo con piacere che quella parte del pubblico nella quale è lecito riporre maggiori speranze, si sta disancorando dalle concezioni estetiche negative e qualunquistiche che il disinteresse delle passate gestioni (del Teatro dell'Opera di Roma) aveva, a lungo andare, generato.
Andare ad ascoltare il Fidelio - che, fra l'altro, è opera di difficile assimilazione - significa impugnare la
percezione aproblematica cui il nostro orecchio, per colpa di incontrollate e semplicistiche «consumazioni» del repertorio melodrammatico latino, si era assuefatto, significa incanalarsi definitivamente nel filone del primo romanticismo, prendere visione pratica dell'applicazione dell'edificio gnoseologico ed etico dell'idealismo pre-hegeliano, e verificare la puntualità storica del primo musicista moderno «consapevole» a tutti gli effetti, cioè cosciente di muoversi in un mondo dagli imperativi estetici e morali perfettamente incastrati nell'edificio totale della sua cultura.
«Noi tedeschi abbiamo preso dalla filosofia il modo di dire "in sé" e lo usiamo in tutti i momenti senza pensare alla metafisica. Qui però quel modo c'entra, questa musica è l'energia in sé, l'energia in persona, ma non come idea, bensì nella sua realtà... Ecco: il più energico, il più vario, il più avvincente susseguirsi di fatti, di movimenti, tutti nel tempo, basati solo sulla definizione del tempo, sul rapimento e sull'organizzazione del tempo, eccotelo portato in mezzo all'azione concreta mediante il ripetuto squillo di trombe dietro il sipario... Il modo (...) in cui si arriva a un tema e il tema è abbandonato, risolto, mentre nella risoluzione si prepara qualche cosa di nuovo;... il modo in cui il ritmo si sposta con elasticità, prende la rincorsa, accoglie affluenti da diverse parti, si gonfia e travolge e scoppia in un trionfo rombante, nel trionfo personificato, nel trionfo "in sé"... ».
I motivi per cui abbiamo ricordato le parole che Thomas Mann mette in bocca all'eccezionalmente eccitato Adrian Leverkühn, sono molteplici. intanto inquadrano divinamente il Fidelio: e, se non fosse per il fatto che necessitano di una puntualizzazione storicistica (puntualizzazione implicita nella formazione profondamente umanistica di Thomas Mann, ma non nel lettore comune), potrebbero considerarsi senz'altro le più belle scritte sull'argomento. Eppoi, danno l'avvio a una serie di considerazioni che, da Beethoven, si allargano fino a comprendere tutto l'arco comunitario della Germania idealistica.
L'energia «non come idea, bensì nella sua realtà»: cioè la delimitazione della base da cui essa - l'energia - nasce, da cui deve svilupparsi, a cui deve tornare senza perdere la nozione dell'appartenenza fondamentale. Un «fortissimo», in assoluto, è energia: arrestarsi, però, a questo concetto equivale a concepire, per esempio, la libertà come la facoltà indeterminata di fare ciò che si vuole.
L'energia non è «natura» senz'altro: essa deve conquistarsi il diritto all'esistenza (poetica). Eccola, quindi, partire dalla base comune ,eccola enunciarsi, per esempio, tematicamente: il tema è acquisito, è comunicazione, è realtà percepibile, è umanità di partenza. Ma anche remora: pietra di paragone, cioè, che ogni sviluppo successivo deve tenere presente. È la categoria kantiana cui deve riferirsi ogni percezione sensibile.
La cultura moderna ci ha insegnato a tenere presenti, nel giudizio, due concetti complementari: il concetto dell'agire e il concetto del fatto. Il primo tocca la sfera morale (o, in questo caso, moralistica) - dell'uomo - analisi, questi due concetti finiscono col convivere inscindibilmente nella presa di coscienza della totalità di una «cultura» e dei momenti individuali di essa. Momenti individuali che, nell'ottocento germanico, mostrano chiarissima la loro appartenenza dialettica al presente concepito come patrimonio reso attivo dalla consapevolezza del passato. Poiché il Fidelio è uno dei più perfetti esempii di tale azione culturale, possiamo soffermarci, in breve, nel dettaglio della sua struttura, così come appare da questo punto di vista.
La questione - del resto già da lungo tempo messa sul tappeto con ricchezza di particolari arguti - relativa alla «riuscita» del Fidelio in campo teatrale, ora non ci interessa. Né è nostra intenzione risolverla chiamando in causa - eventualmente come «rifiuto» - la struttura morale (o, in questo caso, moralistica) - dell'uomo - Beethoven.
Importa, soprattutto, mettere in risalto la posizione della «trama» in rapporto a quanto dicevamo sopra, e cioè al binomio costituito dall'agire etico e dal fatto estetico. Le parole, sopra ricordate, di Thomas Mann si riferivano essenzialmente all'ouverture Leonora n. 3-B, ma la diagnosi investe tutta l'opera. Si tratta, in altri termini, di prendere visione di un condizionamento, di una estrema - se vogliamo - ingenuità: di un ignorare le leggi del «teatro» (leggi mistificatorie, infine, della «sincerità assoluta»), di un livellare i personaggi, di uno schierarli tutti insieme, appaiati, sul piano di partenza dialettica e da questo piano dar loro vita a seconda delle direttive imposte dall'idea del testo letterario, idea accettata e svolta nel suo divenire e nella sua conclusione. Per carità: non si interpreti (come, però, qualcuno ha fatto) la parentesi sinfonica del secondo atto come una contrapposizione fra «bene» e «male». La dialettica di Beethoven prescinde da questa determinazione: il «bene» è superamento, il «male» è arresto, è stasi: esso non è presente, ma funge da stimolo etico, da guida per l'agire. Il tema, dicevamo sopra, è comunicazione, è base di partenza, è indifferenziato (quasi) nell'ossatura generale dell'edificio dialettico. Se restasse sempre tale, se ponesse la sua esistenza statica a base dell'azione («teatrale») successiva, scalzerebbe dalle fondamenta l'edifìcio totale beethoveniano, e si trasformerebbe in «male».
Il «male», dunque, esiste e non esiste. Esiste come spettro, come «altra soluzione»; non esiste perché quest'«altra soluzione» ce la possiamo solo figurare in sede postuma e ipotetica.
Ecco che il discorso - malgrado le nostre parole di sopra - ci ha involontariamente portato a una puntualizzazione circa il «teatro» di Beethoven. Un «teatro» che rapportato alle 'regole in uso' appare zoppicante e non certo arguto; un «teatro» che non pensa a concretare, a empiricizzare sulla scena il «male», a renderlo agente in base all'elementarità del contrasto scenico.
La trama - a parte il duetto amoroso di Marzelline e Jaquino che apre l'opera: un duetto simile a una tenera carezza di un boscaiolo sulla guancia di una damina diciassettenne - quasi scompare dinanzi a un esempio tanto grande di cultura unita sul piano speculativo e su quello comunicativo.
Beethoven è nella storia, nella sua storia; le caratteristiche semantiche ed etiche del «tema» concretizzano la sua appartenenza al mondo. L'opera è azione, cioè costruzione, incedere morale che impianta la sua dialettica fra «dato comune» (situazione di partenza) e fine da realizzarsi. E, di qui, parte il binomio suesposto. Una parte dell'impianto dialettico riguarda il suo agire speculativo; l'altra parte si tiene saldamente ancorata alla consapevolezza (passato-presente) che permette al pubblico, al suo pubblico, di seguirlo per mezzo del riferimento, basilare e continuo, alla base culturale di partenza: si identifica, cioè, col riversamento dell'oggetto, del momento ricercato, nella «forma» percepibile in quanto figlia della propria epoca, della propria cultura. La dialettica della «forma», intesa come calda realtà in movimento, è unione fra potenza e moralità speculativa, e disponibilità comunicativa: binomio, ripetiamo, i cui elementi si condizionano reciprocamente.
Chiarificato, dunque, il primo aspetto morale (quello che lotta per divenire forma, ma che non considera questa forma nella sua realtà scissa dall'alveo di formazione), dobbiamo ricordare il Fidelio da un'altra prospettiva, in apparente contrasto con la precedente.
Abbiamo visto la sua essenza rispondere perfettamente alla congiunzione determinata dal «valore etico del fare» e dal «valore estetico del fatto»: abbiamo visto, cioè, la moralità di pittura, la responsabilità della «forma» inquadrare il Fidelio in una dimensione artistica precisa e determinata. Potremmo scendere nel dettaglio: e rilevare, per esempio, come il «quartetto» del primo atto - con quelle «entrate» a canone che rafforzano la frase nella posizione da cui è partita - risolve la sua immanenza comunicativa con una «forma» musicale che non si conclude ma che resta sospesa, con incredibile psicologismo umano, a guardare l'immediatezza che incombe sui quattro protagonisti; come il monologo di Florestano si tiene fermo su un determinismo che implica il trascinamento dell'uomo prigioniero nell'«idea » della libertà solo nei limiti (le categorie kantiane!) apparsi nella delimitazione iniziale, nei limiti, appunto, di un uomo particolare che ha la sua battaglia e che a essa si attiene senza trascendere in un generico - universale - trasfigurante sin troppo facile... La pietra di paragone di tutto questo non è il «teatro», ma l'assunto che ci siamo sforzati di circoscrivere.
Vorremmo analizzare tutta l'opera, ma ci preme concludere la seconda parte del discorso che si riallaccia direttamente alla prima. L'eticità teleologica del Fidelio è nel piano speculativo. Si faccia attenzione: poco fa parlammo di moralità della «forma», cioè del risultato. Ora si parla di moralità del fare, di moralità speculativa. Che questa moralità, nel suo procedere, tenga presente la «categoria kantiana», è un fatto legato alla sua intima costituzione; ma che risieda, come forza primigenia, nell'aspetto speculativo, è un fatto parimenti fondamentale, un fatto in mancanza del quale la morale si ridurrebbe alla semplice comunicazione priva di ricerca, statica e accentrata sulla mera vicenda. Un fatto che toglierebbe al Fidelio la sua potenza di opera «morale» per rivestirla della qualifica di opera moralistica.
Non si contano, nell'opera di Thomas Mann, i riferimenti al Fidelio; e il fatto che sia, questa, un'opera della «libertà», non basta a giustificare tanto entusiasmo. Il concetto va approfondito quel tanto che basta a renderlo capace di centrare le ragioni intime di tale libertà: la libertà come movimento, la libertà da individuarsi e da conquistarsi, la libertà dialettica. Quando Thomas Mann scriveva il Doctor Faustus, il nazismo imperversava: e nazismo significò abolizione della dialettica, sviluppo - negatorio di tutte le modalità che avevano condizionato la storia dello spirito tedesco - di un qualcosa individuato e mai più messo in discussione. Per l'esule d'oltre Oceano, l'ethos di Beethoven applicato, nella sua apodittica chiarezza, a moduli che hanno sempre fatto fremere d'orgoglio l'uomo tedesco partecipe della vita interiore ed esteriore della sua Nazione, doveva rappresentare l'ideale di cammino non solo intrapreso con divina potenza e congruenza, ma ancor non distrutto dallo scetticismo minatorio di tutte le basi della cultura posteriore, dallo scetticismo emerso, dalle rovine del romanticismo, a colpire con una piccola, invisibile quasi, ma profonda incrinatura l'edificio dell'ultimo costruttore del e dal romanticismo.
Gianfranco Zaccaro
("Disclub" 6, anno II, aprile 1964)

giovedì, novembre 20, 2025

Maurizio Pollini: "la musica è un diritto di tutti"

Maurizio Pollini (1942-2024)
Maurizio Pollini le possedeva tutte, le virtù “americane” di Italo Calvino: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità; e anche l’ultima, solo progettata,
Consistency, ossia la Coerenza. Anzi, a conquistarci è proprio la coerenza con cui riuscì a tenerle legate insieme negli 82 anni di vita e ad offrirle all’umanità nei quasi 70 di attività musicale. «Un poeta del pianoforte», ha detto con finezza Sergio Mattarella: intendo queste parole nella dimensione in cui Paul Valéry poteva definire la poesia (e l’evento della sua creazione) una «hésitation prolongée entre le son et le sens». Per Pollini, come per Calvino, la leggerezza si è sempre associata «con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso»; e anche per lui, secondo la frase di Valéry che sigilla questa idea nella prima delle Lezioni americane, «il faut être léger comme l’oiseau, non comme la plume».
Le mani di Pollini non mi hanno mai ricordato le piume nel vento: erano uccelli leggerissimi, di rapidità travolgente, di tocco esatto, trasparente, molteplice. Come per la fisica quantistica, o per Pirandello che la anticipa, «la fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità che nessuna opera riuscirà a mettere in atto» (cito ancora Calvino, Visibilità). Ma la potenza, ha scritto Giorgio Agamben riflettendo sulla Metafisica di Aristotele, «è definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio»; «e come possiamo pensare l’atto della potenza-di-non? Poiché l’atto della potenza di suonare il piano è certamente, per il pianista, l’esecuzione di un pezzo al pianoforte; ma quale sarà, per lui, l’atto della sua potenza di non suonare?».
Ogni volta che ho ascoltato Pollini, cioè quasi ogni giorno, ho creduto di capire perché il grandissimo Artista offre della vita un’immagine che supera sempre i limiti del pensabile e del possibile, una potenza capace di eccedere qualsiasi forma e realizzabilità. Solo un pianista del livello di Pollini può contenere e rendere coerenti l’atto del suonare in una esecuzione tanto perfetta che sembra “essere” la musica pensata e scritta dal compositore, e «l’atto della sua potenza di non suonare». Questa sterminata potenza, enérgeia nel senso davvero più aristotelico del termine, è ciò che Pollini ha donato alla musica e al mondo. In una magnifica intervista-video realizzata dieci anni fa da Bruno Monsaingeon, violinista, pianista e musicologo, dal titolo De main de maître, Pollini ha spiegato la sua idea di rapporto con il pianoforte, che mi evoca queste riflessioni sulla potenza: «Il pianoforte», ha detto, «è uno strumento “neutrale”, ma ha delle possibilità pressoché illimitate di trasformarsi. Può diventare uno strumento “cantante”. E vedere che lo “strumento” reagisce al desiderio, alla ricerca che si fa attraverso di lui, è la ragione per cui sono entusiasta di essere pianista».
Il mio Fabbrini, diceva, cambia con me, con la sala, con il pubblico, con le emozioni ogni volta diverse. E infatti, suonando, lui cantava: basta ripensare a quello che a me pare un capolavoro, il suo Adagio del Concerto in la maggiore K 488 di Mozart, il numero 26, con la direzione di Riccardo Muti, eseguito alla Scala il 13 novembre del 2000: nel video online vediamo affiorare sulle labbra di Pollini delle sillabe-note, quasi in un balbettìo che emerge dalle radici della carne e vorrebbe farsi eco sonora del volo con cui le farfalle-dita sfiorano e travolgono i tasti. E non faceva lo stesso anche un altro genio del pianoforte, così incredibilmente lontano dallo stile, dalla tecnica, dal gesto di Pollini, Glenn Gould, che si vede e si sente, nelle registrazioni, entrare in risonanza con il suo alter-ego, il celebre Steinway CD 318, mentre canticchia le Variazioni Goldberg bachiane?
Entusiasmo, gioia, Freunde, vibrano nella musica di Pollini. Fuori, all’esterno, la sua elegante compostezza, il suo passo breve e rapido, la folgorante esattezza e rapidità esecutiva, testimoniano un’arte della concentrazione, addirittura della contemplazione, nel senso più intensamente e laicamente agostiniano della parola. Felicità mentale e razionalità sono i poli della sua armonia interiore e artistica. Grazie a quello che non esito a proporre come un ininterrotto esercizio spirituale riuscì a tenere in equilibrio un’assoluta capacità di astrazione e il controllo microscopico del gesto, misurando la potenza, anzi proprio il peso di ogni tocco sulla tastiera.
In De main de maître Pollini racconta come, dopo il concerto con cui nel 1960, a 18 anni, vinse il concorso internazionale Fryderyk Chopin, a Varsavia, Arthur Rubinstein (a cui si attribuisce la celebre frase: «Questo ragazzino ha una tecnica migliore di quella di tutti noi») pose le mani sulle spalle a lui e all’altro ottimo concorrente Michel Block, premendo con il dito medio, e proclamando: «Io suono soltanto con il peso, per cui non mi stanco mai». Il peso infinitesimale di un dito trasformato per miracolo nella leggerezza esatta e rapida, molteplice e luminosa della musica. Per questo, ha sempre detto Pollini, «io ho compiuto una scelta rigorosa del mio repertorio, inserendovi solo opere che non mi avrebbero mai stancato». «Con ogni pezzo», diceva, «io ho sempre avuto un rapporto stretto e prolungato»: intimo, prolungato, come «l’esitazione prolungata fra il suono e il senso» che è per Valéry la poesia. Quel «rapporto stretto» significò per lui quasi scavare con le dita nelle note, per raggiungere la «sonorità più impalpabile»: così gli aveva insegnato, diceva, Arturo Benedetti Michelangeli, il quale «mi suggerì una diteggiatura per i trilli, che utilizzo ancora», ricorrendo a quello che la tecnica pianistica chiama “doppio scappamento”, disposizione meccanica grazie alla quale rimane aperta la possibilità di ribattere la nota senza rilasciare del tutto il tasto: questa potenzialità, perfetta potenza-di-non, consentiva a Pollini (sono ancora parole sue) di estrarre il suono «non tanto dal tasto, ma da sotto il tasto».
Rigorosa era la scelta del repertorio, rigorosa ogni esecuzione, nel rispetto filologico del testo che gli permise sempre di portarne alla luce la struttura con razionalità accesa di timbri e di colori. Pollini non si è mai stancato, né ha mai stancato il suo pubblico, perché questo rigore ha costituito sempre il polo dialettico dell’«entusiasmo di essere pianista». Suo padre Gino era un architetto razionalista; sua madre, Renata Melotti, una musicista; e anche il fratello di Renata, Fausto, aveva un diploma di pianoforte. Ma dire Fausto Melotti significa pensare anche a Adolfo Wildt, e a Lucio Fontana, e a Carlo Belli (suo cugino), autore di Kn, che Kandinskij definì «il Vangelo dell’arte astratta». Non è un caso, credo, se all’inizio del video di Monsaingeon, mentre la telecamera si avvicina allo studio in cui Pollini sta sfogliando lo spartito della Sonata Gli addii di Beethoven, su un tavolo a sinistra si vede poggiato, quasi come un totem simbolico, un catalogo di Paul Klee; e sulla libreria alle spalle del pianista, ben riconoscibile fra i molti libri, la raccolta completa de Il Politecnico di Elio Vittorini, che Einaudi pubblicò nel 1975. Astrattismo e fantasia, lievità e peso delle idee, cura dei valori culturali e concretezza di impegno civile, Klee e Vittorini: scelte intellettuali, di rigore e di politica, cioè, in una parola, di etica.
L’etica come scelta di saldare la cultura e la politica fu, per Pollini, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una forma di vita. L’amicizia con Luigi Nono, e la posizione assunta dal PCI dopo l’invasione sovietica di Praga, nel 1968, lo avvicinarono a un comunismo autentico, “critico”: «non avrei mai ammesso di avere simpatia per un partito che non fosse stato assolutamente democratico, in ogni senso». Comunismo per Pollini significò, in primo luogo, ribadire che «la musica è un diritto di tutti». È difficile, oggi, percepire il vulcano, il terremoto che dovette essere quel concerto del 9 gennaio 1972, nella fabbrica grafica Paragon di Genova occupata dagli operai (era il 72° giorno) dopo la minaccia di gravi licenziamenti. Bruno Martinotti dirigeva, e Maurizio Pollini scelse di eseguire il concerto L’Imperatore di Beethoven, insieme con La fabbrica illuminata di Luigi Nono. Come dire, il più classico dei classici, “la Musica” depositata nella memoria collettiva, e una composizione modernissima, con la voce di un soprano che cantava poesie di Cesare Pavese e testi di Giuliano Scabia intrecciati ai suoni emessi da un registratore a quattro piste: rumori industriali, voci di operai, lacerazioni sonore dello spazio.
Pollini promosse fino all’ultimo la coesistenza, in quel grande Teatro della Memoria che è la Musica, dei grandi classici con l’avanguardia: soprattutto Nono, Stockhausen, Boulez. La sua energia culturale e politica, il suo coraggio estetico e artistico, brillano visibili ed esatti in certi cartelloni che oggi sono un documento e un ricordo, e che allora furono esplosione, scossa elettrica. Il 9 maggio 1977, ad esempio, alla Scala di Milano, nel ciclo dei Concerti per Lavoratori e Studenti ideato da Paolo Grassi, a cui collaborò l’amico e compagno di grandi avventure Claudio Abbado, Pollini propose (ma in certo modo anche impose) un accostamento che a molti dovette sembrare “poco giudizioso”, e che oggi scintilla di genio esplorativo: la Sonata degli Addii e l’Appassionata di Beethoven, i cinque Klavierstücke op. 23 di Schönberg e Sofferte onde serene, che Luigi Nono aveva dedicato a Pollini stesso, e che insieme avevano eseguito per la prima volta nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano pochi giorni prima, il 17 aprile. Cito ancora, come esempio di sublimità conquistata attraverso una battaglia sul campo contro le convenzioni e la pigrizia mentale, un altro di questi Concerti per Lavoratori e Studenti, a cui collaborava la Consulta Sindacale CGIL-CISL-UIL: l’8 maggio 1978, sempre alla Scala, giovani e operai ascoltarono i tre intermezzi op. 137, i tre pezzi op. 118 e i quattro pezzi op. 119 di Brahms, poi i tre pezzi op. 11 di Schönberg e la sonata n. 2 di Pierre Boulez. Quasi incredibile, a guardare lo stato attuale della nostra cultura, della nostra “classe operaia”, della nostra politica.
Mi batte ancora forte il cuore quando ripenso all’inaugurazione dell’Auditorium di Roma, nell’aprile 2002, quando Luciano Berio era direttore dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ricordo di essere stato a parlare con lui per un’intervista su RadioTre della RAI. E mi spiegò il senso del Progetto Pollini, che aveva edificato insieme con il grande pianista come una possente, arditissima Torre di Babele della musica: non per confondere le lingue, ma per congiungerle, e per far dialogare gli antichi con i contemporanei. Così, a partire dal marzo 2003, Pollini e Berio offrirono ai romani, abituati al vecchio Auditorium di Via della Conciliazione e ai suoi programmi tradizionali, uno shock di cui per vent’anni si è sentita l’eco fortissima, nello splendido nuovo spazio disegnato da Renzo Piano. L’arte della seduzione e lo spirito rivoluzionario, come sempre armonizzati con rigore e leggerezza, convinsero il pubblico romano, un po’ indolente e un po’ cinico, che è possibile ascoltare Ligeti e Mozart, Bach e Sciarrino. Pollini li disponeva in una saldatura raffinata, distribuendo i contemporanei al centro e collocando all’inizio e alla fine i “classici”: e invitava così, con democratica fermezza, che si può imparare ad ascoltare le voci del nostro tempo senza pregiudizi: anzi, godendole.
Ci volle tempo, pazienza, fiducia. Come ricordava Arrigo Quattrocchi nel programma di sala dell’Auditorium per la sera del marzo 2003 in cui furono eseguite le Variationen op. 27 di Anton Webern, il musicista in una lettera del 1936 scriveva: «Vi ho già detto che sto scrivendo qualcosa per pianoforte. La parte che ho finito è un tempo in forma di variazioni: verrà una specie di Suite. Spero di aver realizzato con le variazioni qualcosa che già da anni avevo in mente. Goethe, una volta, a Eckermann che lo stava lodando per una nuova poesia, rispose: ma ci ho anche pensato sopra per quarant’anni!». Anche Pollini, con fatica e tenacia, ha seminato per decenni, e “ci ha pensato sopra” prima di “eseguire” la sua potenza. Concludendo la sua intervista-video, Bruno Monsaingeon, nel 2014, chiedeva al pianista: «Lei è una sorta di missionario?» E lui, stupito e spontaneo: «No, faccio tutto per il mio piacere!». «E basta?», chiese il musicologo. «Quasi basta!» sussurrò sorridendo Pollini.
Corrado Bologna
(Doppiozero, 25 marzo 2024)