Alla fine del Settecento il quartetto per archi si trovava diviso su due fronti stilistici dai percorsi antitetici e paralleli, anche se non privi d'interscambi occasionali. Da una parte, in un arco compreso tra la Madrid di Boccherini, la Lombardia di Rolla, la Torino degli ultimi rappresentanti della scuola piemontese, e la Parigi di Baillot, Kreutzer, Rode, Saint-Georges, Pleyel e degl'italiani déracinés (Viotti, Cambini, Giardini, Bruni, Radicati), fiorisce l'effimero "impero d'occidente" del quartetto "concertante" e/o "brillante", destinato all'esecutore virtuoso e al concerto pubblico. E' una produzione promossa dalla grande editoria e caratterizzata dalle attrattive dell'edonismo e dei virtuosismo: tante piacevoli melodie allineate in un rilassato contenitore sonatistico, dove il principio dell'elaborazione tematica è in gran parte - se non proprio del tutto - sostituito da quelle della ripetizione attraverso i piani armonici di elementari progressioni.
A Vienna abbiamo invece, come tutti sanno, l'esatto opposto, germogliato dal seme haydniano e incrementato dall'esperienza di Mozart. Il quale sul ceppo del suo grande contemporaneo aveva innestato la profondità della sua sensibilità armonica, la sterminata ricchezza della sua inventiva melodica, il suo senso del dramma e del pathos: non senza qualche spregiudicata incursione (con i Quartetti "prussiani") nei territori di quell'amabilità concertante rigorosamente rifiutata dal radicalismo di Haydn, intento a sviluppare al massimo grado quel principio elaborativo che si può riassumere con questa formula: ricavare il massimo dal minimo, attraverso l'arte di "rovistare nel tema", come un secolo dopo dirà Brahms.
E' a questo punto che s'innesta il primo contributo di Beethoven a una civiltà quartettistica viennese giunta, dopo Mozart e tuttora operante il vecchio Haydn con i suoi ultimi capolavori, a un punto di estrema saturazione stilistica. L'opera 18 (1798-1800) giunge buon'ultima, dopo anni dedicati ad una produzione cameristica incentrata nel pianoforte, lo strumento che aveva accompagnato l'ascesa di Beethoven come compositore-concertista. I sei Quartetti filtrano così il loro approccio all'eredità haydn-mozartiana attraverso un'esperienza intensamente personale, quella di opere come i Trii op. 1, le Sonate op. 2 e op. 7, quelle op. 5 per pianoforte e violoncello e op. 12 per piano e violino che già avevano fatto esplodere il delicato e imperfettibile equilibrio sonatistico dei predecessori. Non è possibile giudicare questi sei ambiziosi Quartetti, puntigliosamente elaborati nella consapevolezza dell'immenso rischio che comportava l'esordio in un genere ritenuto al vertice della professionalità di un musicista, senza tener conto che nel frattempo i modelli viennesi (di Haydn e del Mozart dei sei Quartetti op. 10 dedicati ad Haydn) si erano troppo allontanati e andavano in qualche modo sostituiti. Ecco quindi che Beethoven adatta al medium quartettistico strutture e procedimenti eccentrici, accentuando, da una parte, certi tratti di estrosità haydniana nella scelta di motivi piccanti soprattutto per i tempi veloci e gli scherzi o minuetti, dando fondo alla cantabilità nei movimenti centrali, addensando le sonorità, levigando gli spigoli di Haydn e le asperità armoniche di Mozart in una generalizzata, florida eufonia.
La prodigalità dei materiali tematici gettati con effetti accumulativi entro un recipiente sonatistico necessariamente dilatato, il gusto per i contrasti di temi, ritmi, aree armoniche, lo spessore fonico e la sensualità timbrica sono i tratti salienti di queste opere peraltro assai ben differenziate e caratterizzate; lontane tanto dalla nervosa leggerezza e dalla parsimonia haydniana, quanto dall'audacia di certe introspezioni mozartiane, sostituita ora da una prevalente ottimistica euforia, ora dall'effusa vena elegiaca di certi movimenti lenti, come l'Adagio affettuoso e appassionato (due aggettivi quanto mai significativi dell'espressività lirica beethoveniana) dell'op. 18 n. 1. In tanta giovanile abbondanza d'immagini, sussiste, eredità fondamentale dei predecessori e già fatta propria da Beethoven con potente determinazione, il principio dell'elaborazione tematica.
L'essenzialità e la necessità morfologica, ottenute attraverso l'impiego sempre più coerente dell'elaborazione, sono il fine che Beethoven si propone negli anni successivi all'op. 18. Si tratta di rigenerare i tessuti troppo dilatati delle strutture sonatistiche, trasformandoli nei tessuti sodi e scattanti di strutture altrettanto vaste, ma permeate da un forte dinamismo basato sulla dialettica dei contrasti interni. In questo senso, accanto alle Sonate op. 53 e 57 per pianoforte, alle Sinfonie Terza, Quarta, Quinta e Sesta, ai Concerti per pianoforte e per violino, i tre Quartetti op. 59 (1805-06) assumono valore esemplare. Inconcepibili senza l'impulso della coeva produzione sinfonica, di questi tre capolavori si può dire che riversino nel medium quartettistico, senza punto snaturarne la specificità, tutta la dialettica e i rapporti di forza (ritmo, massa sonora, contrasti dinamici, oltre, s'intende, alla tensione elaborativa) che Beethoven era andato elaborando nelle sinfonie e che qui comprime e decanta in una rigorosa dimensione cameristica debitrice altresì di quelle tardive e preziose influenze soprattutto mozartiane (si tratta, questa volta, del Mozart dei grandi Quintetti in Do maggiore e sol minore) che incominciano a farsi avanti con crescente insistenza nella creatività del Beethoven maturo.
Opere apparentemente isolate, i Quartetti op. 74 e op. 95 sono in realtà il risultato di un processo di ulteriore affinamento stilistico, nel quale l'idea della forma-sonata viene sottoposta ad una rigorosa verifica attraverso un discorso ellittico e di una incisività e concentrazione estreme, attuato nella più meditata economia dei materiali, in profondo contrasto con la sovrabbondanza di un tempo. Emerge una rinnovata aspirazione ad una purezza e ad una simmetria mozartiane, ed anche forme e strutture rinunciano in monumentalità quanto acquistano in duttilità e delicatezza. Si profila l'estrema spiaggia dello stile beethoveniano, che nell'ultima fioritura quartettistica troverà la sua espressione più completa e forse più alta.
Composti dietro invito di un nobile committente, il principe Golicyn (ancora un russo, come già il conte Rasumovskij, destinatario dell'op. 59), gli ultimi Quartetti prendono vita in un periodo compreso tra la primavera del 1822 e l'ottobre del 1826, lasciandosi alle spalle le ultime sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia e la Missa Solemnis. Sono opere profondamente omogenee per stile e dimensione espressiva, assai più di quanto non lo fossero le opere 18 e 59: un panorama immenso e tuttavia raccolto entro un arco unitario, dove si squaderna tutto l'universo dell'ultimo Beethoven.
Giunto al culmine della sperimentazione dei mezzi espressivi e della propria solitudine storica, il compositore si riserva il privilegio supremo di operare liberamente le proprie scelte linguistiche senza restrizioni di tempo, di genere, di stile. Ciò significa che l'estrema produzione beethoveniana si configura in ultima analisi come una ricapitolazione, talora una giustapposizione di tutti gli stilemi che l'hanno preceduta nel tempo, contemplati dall'alto di un "punto di vista" trascendente che tutti li equipara. Vecchio e nuovo, attuale e inattuale, datato ed aggiornato sono categorie estranee a questo sublime "colpo d'occhio" che sa ravvivare le "macerie" secondo una forte espressione di Adorno - di un passato per altri irreversibile e riciclarle non come citazione inerte, ma come elemento costitutivo reinvestito d'intrinseca necessità.
Entro questo sistema inaudito e guardato a lungo con religioso sgomento ma anche con irritata incomprensione dai posteri, coesistono, pertanto, il giovanile procedimento effusivo-additivo e la più rigorosa elaborazione tematica; le tecniche polifoniche recuperate dal profondo dei secoli su su fino a Bach e Händel, e il moderno sonatismo basato sulla dinamica dei campi armonici, dei temi e della loro elaborazione; l'assoluta oggettività e l'urgere dell'elemento soggettivo negli accenti di un recitativo strumentale vibrante di drammaticità; le sofisticazioni armoniche di gusto modale e il più corrente formulario cadenzale; le forme più auliche e trascendenti accanto a quelle più rustiche; il macrocosmo di strutture ciclopiche come i Quartetti op. 130 e op. 131, e il microcosmo di oggetti miniaturistici come l'enigmatica, ironica op. 135.
Insieme con il contrappunto, che irrora delle sue energie tutto l'ultimo stile beethoveniano e che qui culmina in un terrifico monumento come la Grande Fuga op. 133 (in origine, posta a conclusione dell'op. 130), è la tecnica della variazione a qualificarsi come principio costruttivo basilare anche al di là dei movimenti espressamente ad essa destinati. Il radicalismo di tale tecnica non ha eguale se non nel Bach delle Variazioni Goldberg e degli ultimi Preludi corali, da cui Beethoven prende idealmente l'avvio, senza per questo accantonare le tecniche varianti tradizionali di tipo ornamentale-virtuosistico, integrandole, al contrario, rigenerate e sublimate, in un contesto organicamente onnicomprensivo, conforme anche in questo a quella superiore "disponibilità" cui sembra aprirsi l'ultimo orizzonte creativo del compositore.
A Vienna abbiamo invece, come tutti sanno, l'esatto opposto, germogliato dal seme haydniano e incrementato dall'esperienza di Mozart. Il quale sul ceppo del suo grande contemporaneo aveva innestato la profondità della sua sensibilità armonica, la sterminata ricchezza della sua inventiva melodica, il suo senso del dramma e del pathos: non senza qualche spregiudicata incursione (con i Quartetti "prussiani") nei territori di quell'amabilità concertante rigorosamente rifiutata dal radicalismo di Haydn, intento a sviluppare al massimo grado quel principio elaborativo che si può riassumere con questa formula: ricavare il massimo dal minimo, attraverso l'arte di "rovistare nel tema", come un secolo dopo dirà Brahms.
E' a questo punto che s'innesta il primo contributo di Beethoven a una civiltà quartettistica viennese giunta, dopo Mozart e tuttora operante il vecchio Haydn con i suoi ultimi capolavori, a un punto di estrema saturazione stilistica. L'opera 18 (1798-1800) giunge buon'ultima, dopo anni dedicati ad una produzione cameristica incentrata nel pianoforte, lo strumento che aveva accompagnato l'ascesa di Beethoven come compositore-concertista. I sei Quartetti filtrano così il loro approccio all'eredità haydn-mozartiana attraverso un'esperienza intensamente personale, quella di opere come i Trii op. 1, le Sonate op. 2 e op. 7, quelle op. 5 per pianoforte e violoncello e op. 12 per piano e violino che già avevano fatto esplodere il delicato e imperfettibile equilibrio sonatistico dei predecessori. Non è possibile giudicare questi sei ambiziosi Quartetti, puntigliosamente elaborati nella consapevolezza dell'immenso rischio che comportava l'esordio in un genere ritenuto al vertice della professionalità di un musicista, senza tener conto che nel frattempo i modelli viennesi (di Haydn e del Mozart dei sei Quartetti op. 10 dedicati ad Haydn) si erano troppo allontanati e andavano in qualche modo sostituiti. Ecco quindi che Beethoven adatta al medium quartettistico strutture e procedimenti eccentrici, accentuando, da una parte, certi tratti di estrosità haydniana nella scelta di motivi piccanti soprattutto per i tempi veloci e gli scherzi o minuetti, dando fondo alla cantabilità nei movimenti centrali, addensando le sonorità, levigando gli spigoli di Haydn e le asperità armoniche di Mozart in una generalizzata, florida eufonia.
La prodigalità dei materiali tematici gettati con effetti accumulativi entro un recipiente sonatistico necessariamente dilatato, il gusto per i contrasti di temi, ritmi, aree armoniche, lo spessore fonico e la sensualità timbrica sono i tratti salienti di queste opere peraltro assai ben differenziate e caratterizzate; lontane tanto dalla nervosa leggerezza e dalla parsimonia haydniana, quanto dall'audacia di certe introspezioni mozartiane, sostituita ora da una prevalente ottimistica euforia, ora dall'effusa vena elegiaca di certi movimenti lenti, come l'Adagio affettuoso e appassionato (due aggettivi quanto mai significativi dell'espressività lirica beethoveniana) dell'op. 18 n. 1. In tanta giovanile abbondanza d'immagini, sussiste, eredità fondamentale dei predecessori e già fatta propria da Beethoven con potente determinazione, il principio dell'elaborazione tematica.
L'essenzialità e la necessità morfologica, ottenute attraverso l'impiego sempre più coerente dell'elaborazione, sono il fine che Beethoven si propone negli anni successivi all'op. 18. Si tratta di rigenerare i tessuti troppo dilatati delle strutture sonatistiche, trasformandoli nei tessuti sodi e scattanti di strutture altrettanto vaste, ma permeate da un forte dinamismo basato sulla dialettica dei contrasti interni. In questo senso, accanto alle Sonate op. 53 e 57 per pianoforte, alle Sinfonie Terza, Quarta, Quinta e Sesta, ai Concerti per pianoforte e per violino, i tre Quartetti op. 59 (1805-06) assumono valore esemplare. Inconcepibili senza l'impulso della coeva produzione sinfonica, di questi tre capolavori si può dire che riversino nel medium quartettistico, senza punto snaturarne la specificità, tutta la dialettica e i rapporti di forza (ritmo, massa sonora, contrasti dinamici, oltre, s'intende, alla tensione elaborativa) che Beethoven era andato elaborando nelle sinfonie e che qui comprime e decanta in una rigorosa dimensione cameristica debitrice altresì di quelle tardive e preziose influenze soprattutto mozartiane (si tratta, questa volta, del Mozart dei grandi Quintetti in Do maggiore e sol minore) che incominciano a farsi avanti con crescente insistenza nella creatività del Beethoven maturo.
Opere apparentemente isolate, i Quartetti op. 74 e op. 95 sono in realtà il risultato di un processo di ulteriore affinamento stilistico, nel quale l'idea della forma-sonata viene sottoposta ad una rigorosa verifica attraverso un discorso ellittico e di una incisività e concentrazione estreme, attuato nella più meditata economia dei materiali, in profondo contrasto con la sovrabbondanza di un tempo. Emerge una rinnovata aspirazione ad una purezza e ad una simmetria mozartiane, ed anche forme e strutture rinunciano in monumentalità quanto acquistano in duttilità e delicatezza. Si profila l'estrema spiaggia dello stile beethoveniano, che nell'ultima fioritura quartettistica troverà la sua espressione più completa e forse più alta.
Composti dietro invito di un nobile committente, il principe Golicyn (ancora un russo, come già il conte Rasumovskij, destinatario dell'op. 59), gli ultimi Quartetti prendono vita in un periodo compreso tra la primavera del 1822 e l'ottobre del 1826, lasciandosi alle spalle le ultime sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia e la Missa Solemnis. Sono opere profondamente omogenee per stile e dimensione espressiva, assai più di quanto non lo fossero le opere 18 e 59: un panorama immenso e tuttavia raccolto entro un arco unitario, dove si squaderna tutto l'universo dell'ultimo Beethoven.
Giunto al culmine della sperimentazione dei mezzi espressivi e della propria solitudine storica, il compositore si riserva il privilegio supremo di operare liberamente le proprie scelte linguistiche senza restrizioni di tempo, di genere, di stile. Ciò significa che l'estrema produzione beethoveniana si configura in ultima analisi come una ricapitolazione, talora una giustapposizione di tutti gli stilemi che l'hanno preceduta nel tempo, contemplati dall'alto di un "punto di vista" trascendente che tutti li equipara. Vecchio e nuovo, attuale e inattuale, datato ed aggiornato sono categorie estranee a questo sublime "colpo d'occhio" che sa ravvivare le "macerie" secondo una forte espressione di Adorno - di un passato per altri irreversibile e riciclarle non come citazione inerte, ma come elemento costitutivo reinvestito d'intrinseca necessità.
Entro questo sistema inaudito e guardato a lungo con religioso sgomento ma anche con irritata incomprensione dai posteri, coesistono, pertanto, il giovanile procedimento effusivo-additivo e la più rigorosa elaborazione tematica; le tecniche polifoniche recuperate dal profondo dei secoli su su fino a Bach e Händel, e il moderno sonatismo basato sulla dinamica dei campi armonici, dei temi e della loro elaborazione; l'assoluta oggettività e l'urgere dell'elemento soggettivo negli accenti di un recitativo strumentale vibrante di drammaticità; le sofisticazioni armoniche di gusto modale e il più corrente formulario cadenzale; le forme più auliche e trascendenti accanto a quelle più rustiche; il macrocosmo di strutture ciclopiche come i Quartetti op. 130 e op. 131, e il microcosmo di oggetti miniaturistici come l'enigmatica, ironica op. 135.
Insieme con il contrappunto, che irrora delle sue energie tutto l'ultimo stile beethoveniano e che qui culmina in un terrifico monumento come la Grande Fuga op. 133 (in origine, posta a conclusione dell'op. 130), è la tecnica della variazione a qualificarsi come principio costruttivo basilare anche al di là dei movimenti espressamente ad essa destinati. Il radicalismo di tale tecnica non ha eguale se non nel Bach delle Variazioni Goldberg e degli ultimi Preludi corali, da cui Beethoven prende idealmente l'avvio, senza per questo accantonare le tecniche varianti tradizionali di tipo ornamentale-virtuosistico, integrandole, al contrario, rigenerate e sublimate, in un contesto organicamente onnicomprensivo, conforme anche in questo a quella superiore "disponibilità" cui sembra aprirsi l'ultimo orizzonte creativo del compositore.
I QUARTETTI OPERA 18
Nel numero di sei, consacrato dalla tradizione dell'editoria settecentesca, e preceduti dall'importantissimo introito dei tre Trii op. 9, escono nel 1801 i primi quartetti beethoveniani. Anche se l'autografo è andato perduto, dagli schizzi superstiti consta che la loro elaborazione ebbe inizio almeno dal 1798 e che costò all'autore molta applicazione e numerosi pentimenti, come era da aspettarsi per un impegno creativo che agli occhi del mondo musicale rappresentava la massima qualificazione professionale per un compositore affermato. Come s'è detto nell'introduzione, gli echi ineludibili del patrimonio haydniano e mozartiano giungono qui mediati e rigenerati dall'importante esperienza stilistica che nel frattempo Beethoven aveva maturato in altri generi cameristici, più o meno dominati dal pianoforte. Ciò spiega, tra l'altro, l'incisiva piasticità di molti temi che sembrano conservare, anche all'interno del medium quartettistico, il "tocco" per così dire, del pianista e improvvisatore, e l'addensarsi del suono in una scrittura che sembra subito prendere le distanze dalla trasparenza ed "economia" di quella dei due grandi predecessori.
Nel numero di sei, consacrato dalla tradizione dell'editoria settecentesca, e preceduti dall'importantissimo introito dei tre Trii op. 9, escono nel 1801 i primi quartetti beethoveniani. Anche se l'autografo è andato perduto, dagli schizzi superstiti consta che la loro elaborazione ebbe inizio almeno dal 1798 e che costò all'autore molta applicazione e numerosi pentimenti, come era da aspettarsi per un impegno creativo che agli occhi del mondo musicale rappresentava la massima qualificazione professionale per un compositore affermato. Come s'è detto nell'introduzione, gli echi ineludibili del patrimonio haydniano e mozartiano giungono qui mediati e rigenerati dall'importante esperienza stilistica che nel frattempo Beethoven aveva maturato in altri generi cameristici, più o meno dominati dal pianoforte. Ciò spiega, tra l'altro, l'incisiva piasticità di molti temi che sembrano conservare, anche all'interno del medium quartettistico, il "tocco" per così dire, del pianista e improvvisatore, e l'addensarsi del suono in una scrittura che sembra subito prendere le distanze dalla trasparenza ed "economia" di quella dei due grandi predecessori.
Questi tratti risultano subito evidenti nel primo Quartetto in Fa maggiore (che in realtà, è il terzo in ordine di composizione), che s'apre con un vigoroso tema enunciato all'unisono dai quattro strumenti, e al quale secondo un collaudato procedimento mozartiano, in realtà più sinfonico che quartettistico - fa eco una risposta sommessa e gentile del primo violino. L'Adagio affettuoso e appassionato va ad accrescere il numero di quelle effusioni di accorata elegia cui ci ha assuefatti il primo Beethoven delle sonate pianistiche: primo violino e violoncello vi assumono un carattere lievemente concertante, mutuato dai Quartetti "prussiani" di Mozart. Lo Scherzo, con le sue modulazioni a sorpresa e il suo Trio a pesanti unisoni ribattuti con effetto quasi di percussione, e il brillante Finale dal tema "à la Clementi" e dalla squisita elaborazione costituiscono i movimenti più spiccatamente provocatori.
Secondo in ordine di composizione e di edizione, il Quartetto in Sol Maggiore si qualifica per una festevolezza pungente e capricciosa che si compiace di sorprese e di un gusto che un tempo si sarebbe detto haydniano, ma che ora è giocoforza definire beethoveniano, quali, nel primo tempo, la splendida ripresa col tema iniziale affidato al registro alto del violoncello, dopo tre battute di attesa emozionante sull'iterazione di un re. Spirito ed eccentricità dominano altresì nel secondo tempo: a una prima sezione, Adagio cantabile, specie di cavatina dal fluente melodizzare neoclassico, si contrappone bruscamente un allegro intermezzo giocoso dopo il quale la "cavatina" riprende e si conclude in un frondeggiare di colorature. Scherzo e Finale, dalla tematica tipicamente haydniana, sfociano in un clima decisamente giocoso, concludendo un'opera tra le più geniali e fortemente caratterizzate del primo Beethoven.
Il terzo Quartetto in Re maggiore, primo nella composizione, è nondimeno il più poderoso e complesso, se non il più equilibrato della serie. Tale ricchezza è rilevante fin dal primo Allegro, robustamente impiantato su un magnifico tema dal lunghissimo respiro che dopo avere spaziato per una quarantina di misure nell'area della tonalità di base, muove verso itinerari armonici imprevedibili che lo portano a sfociare nel secondo episodio della eterodossa tonalità di Do maggiore (in rapporto di "terza" con la dominante di Re): da qui, mediante una radiosa modulazione preschubertiana, l'esposizione perviene alla meta del canonico La maggiore - Nell'Andante con moto Beethoven realizza una mirabile "melodia polifonica" ottenuta nella vanificazione sostanziale di ogni gerarchia tra i quattro strumenti. Lo Scherzo è ravvivato dai tocchi romantici dell'inaspettata cadenza in fa diesis minore e della féerie del Trio e si conclude con la ripetizione della prima parte interamente ripensata nelle sue valenze timbriche. Conclude il Quartetto un Presto in un turbinoso moto di giga ricco di tensioni timbriche e di contrasti dinamici: uno dei vertici dell'intera op. 18.
Composto probabilmente per ultimo, il quarto Quartetto la do minore, ad onta della tragica e peculiarmente beethoveniana tonalità prescelta, si configura in termini alquanto più convenzionali di quelli dei quartetti precedenti. Vi predomina infatti un certo formalismo costruttivo nelle lunghe ripetizioni testuali, nella supremazia del primo violino e nei giri armonici non proprio peregrini. Maggiore interesse rivestono forse i movimenti centrali: un Andante scherzoso quasi allegretto con spunti contrappuntistici usati in senso umoristico come nel Finale della Sonata op. 10 n. 2, e un Minuetto insieme patetico e vigoroso.
Anche nel quinto Quartetto in La maggiore (quarto in ordine di stesura) Beethoven sembra indulgere ad un certo quietismo inventivo nella generica amabilità dei primi due movimenti, il secondo dei quali, un Tema e variazioni, risulta evidentemente esemplato su quello del Quartetto K. 464 di Mozart, senza che il modello riesca ad essere, non che superato, eguagliato. Di gran lunga il migliore è il tempo finale, un'Allegro dall'ampio sviluppo costruito interamente su un inciso tematico anch'esso di ascendenza mozartiana (Finale della Sinfonia "Praga" con una sola nota cambiata) ma destinato a diventare col tempo una delle "idee fisse" dell'universo motivico beethoveniano.
Anche l'ultimo Quartetto della serie, in Si bemolle maggiore (quinto in ordine di composizione) prende le mosse da palesi reminiscenze mozartiane (in gioco, questa volta è il primo tempo del Quartetto K. 590), stravolte tuttavia in chiave squisitamente umoristica. Vi emergono il geniale Scherzo, bizzarramente impostato sullo scontro di due strutture ritmiche diverse, e il celebre Finale intitolato dallo stesso compositore 'La malinconia". La struttura di questo brano, consistente di un Adagio che precede e in seguito interrompe a metà un Allegretto quasi Allegro in un carattere di Laendler, ci richiama a quella del Finale dell'op. 135: riferimento non casuale, giacché ci si trova di fronte ad una tra le più precoci esplorazioni beethoveniane nei domini di quel linguaggio fatto di gesti enigmatici e allusivi (quei violenti accordi di settima diminuita, quasi clusters in un campo armonico immobile, alternati col misterioso motivo in ritmo dattilico) che s'identificherà negli estremi capolavori.
di Giovanni Carlo Ballola (Philips, (p) 1989)
1 commento:
ogni volta che ascolto un quartetto di B. vengo precipitata in un abisso metafisico di materia più forma,comprendo che la filosofia non si fa soltanto con il liguagggio delle parole....vittoria
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