Non è certo che la musica sia davvero considerata un'arte, in Italia: burocraticamente, è affidata ad un Ministero che sovrintende anche allo sport e al turismo e che accoglie la musica sotto la dizione «spettacolo». Partite di calcio e quartetti di Mozart, "pro loco" e opere di Verdi, musical comedy, Pirandello e Vivaldi coabitano nelle stesse stanze del potere.
Le risorse economiche devolute alla musica sono minime, distribuite "a pioggia", ma con un criterio ben preciso: servono ad un'attività musicale ridotta, distribuita fra tredici enti lirici principali, ventiquattro secondari e fra una miriade di società concertistiche che combattono quotidianamente la battaglia per la sopravvivenza. Da questo punto di vista, siamo ancora alla divisione ottocentesca dell'Italia in tanti stati indipendenti, in cui i teatri provengono in eredità dai Borboni a Napoli, dallo Stato Pontificio a Roma, dalla monarchia sabauda a Torino, dall'Impero asburgico a Milano, Venezia e Trieste, per tacere del Granducato di Firenze, del Ducato di Parma e così via.
Ma c'è una particolarità tutta italiana: ogni spettacolo deve essere un "evento" memorabile, cui prendono parte, sia pure per poche repliche,, il Grande Regista, il Grande Cantante e il Grande Direttore. E considerato degradante ("alla tedesca", si dice) svolgere un'attività a livelli più modesti, ma costanti, ripetuti, tali da costituire un tessuto culturale. Un esempio: con la stessa sovvenzione statale, in un anno la Scala svolge poco più di ottanta spettacoli e il teatro di Monaco ne svolge più di trecento.
Le risorse economiche devolute alla musica sono minime, distribuite "a pioggia", ma con un criterio ben preciso: servono ad un'attività musicale ridotta, distribuita fra tredici enti lirici principali, ventiquattro secondari e fra una miriade di società concertistiche che combattono quotidianamente la battaglia per la sopravvivenza. Da questo punto di vista, siamo ancora alla divisione ottocentesca dell'Italia in tanti stati indipendenti, in cui i teatri provengono in eredità dai Borboni a Napoli, dallo Stato Pontificio a Roma, dalla monarchia sabauda a Torino, dall'Impero asburgico a Milano, Venezia e Trieste, per tacere del Granducato di Firenze, del Ducato di Parma e così via.
Ma c'è una particolarità tutta italiana: ogni spettacolo deve essere un "evento" memorabile, cui prendono parte, sia pure per poche repliche,, il Grande Regista, il Grande Cantante e il Grande Direttore. E considerato degradante ("alla tedesca", si dice) svolgere un'attività a livelli più modesti, ma costanti, ripetuti, tali da costituire un tessuto culturale. Un esempio: con la stessa sovvenzione statale, in un anno la Scala svolge poco più di ottanta spettacoli e il teatro di Monaco ne svolge più di trecento.
La Traviata venne rappresentata a Milano nel 1956 in un'edizione memorabile, con Maria Callas, con la regia di Visconti, con la direzione di Giulini. Da allora, salvo un'edizione fischiata ingiustamente nel 1964, si è dovuto attendere il 1990 perché Riccardo Muti, fra grandi tremori e rumori fuori scena, osasse riprendere il capolavoro di Verdi con una compagnia di giovani. Risultato: un'intera generazione di milanesi, dal 1956 al 1990, non ha visto La Traviata. Si è trattato di un vero e proprio attentato alla cultura musicale.
Per quanto riguarda la musica sinfonica, le orchestre create nella prima metà del Novecento (quella dell'Accademia di Santa Cecilia, le quattro della Rai-Radiotelevisione Italiana) sono in decadenza, mentre se ne formano di nuove che appartengono a quella miriade di società che, come si è detto, combattono del loro meglio. L'Italia è tuttavia un paese contraddittorio: italiani sono due fra i più grandi direttori d'orchestra del momento, Claudio Abbado e Riccardo Muti, ma la loro attività si svolge all'estero, secondo una secolare tradizione nazionale, e si dividono il mondo musicale internazionale, dalla Mitteleuropa agli Stati Uniti.
Ogni volta che si parla di musica, in Italia, occorre premettere che si tratta di un'arte e che rientra nella cultura. Del resto, nessun ministro italiano preposto all'istruzione, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi regime, ha inserito la musica fra gli insegnamenti artistici obbligatori nella scuola primaria: ci si è limitati ad ereditare (e a far proliferare) i conservatori cittadini, risalenti al modello sei-settecentesco della scuola per poveri, giusto per avere scuole destinate a specializzati.
Anche in questo caso, la storia offre motivi di riflessione: la musica è rimasta alla committenza aristocratica dei secoli andati, senza che alcun cambiamento sia avvenuto nell'epoca borghese.
Essa era considerata, nel Cinquecento e nel Seicento, un intrattenimento per feste e cerimonie sacre e profane, dalla polifonia di Palestrina per la Curia romana ai celebri intermedi fiorentini per nozze principesche; e anche nel teatro musicale, che dalla metà Settecento in poi fu l'espressione più caratteristica della musica italiana, si dovevano creare occasioni di divertimento evasivo, con spettacoli in cui non contava la drammaturgia, ma il virtuosismo, non la verosimiglianza drammatica, ma il concerto canoro di castrati e primedorme travestiti da eroi e divinità del mondo classico: Pietro Metastasio reinventò i più inverosimili casi della storia, dalla Clemenza di Tito ad Alessandro nelle Indie, sotto forma di ariette armoniose destinate a fornire metafore per strepitosi gorgheggi; Carlo Goldoni trasferì nella lirica il suo talento per la commedia realistica, nobilitando la comicità popolare in un teatro musicale buffo (non meno surreale di quello tragico) popolato di bassi comicamente balbuzienti, di sospirosi amanti e di capricciose soubrettes. Napoli, con i suoi fantasiosi e colti letterati e con i suoi geni musicali spontanei, ad esempio Paisiello e Cimarosa, fu il serbatoio della comicità operística italiana.
Per la stessa contraddizione per cui i grandi direttori italiani di oggi sono applauditi all'estero, i grandi compositori di un tempo fecero fortuna nell'Europa musicale: gli autori di musica strumentale, da Geminiani a Domenico Scarlatti, da Boccherini a Clementi, si piazzarono nel grande mercato musicale di Londra o si allogarono presso le corti di Spagna; gli autori operistici si procurarono vantaggiosi contratti presso tutte le corti europee, da Stoccarda a Dresda e a San Pietroburgo, per diffondere il loro prodotto tipico, l'opera seria e l'opera comica, e divertire l'aristocrazia europea.
Nell'Ottocento, Verdi impiegò una vita, fra compromessi e adattamenti, a trasformare in dramma musicale lo spettacolo a base di virtuosismo canoro che attraverso Rossini gli era stato lasciato in eredità dai secoli antecedenti e che era stato in qualche modo trasformato da Donizetti, in maniera confusa e contraddittoria, e da Bellini con distillati lirici troppo esigui per modificare convenzioni secolari.
Verdi compì esperimenti audaci ma rinfoderò prontamente le sue intenzioni quando, nel 1847, il poeta nazionalista Giuseppe Giusti recensì Macbeth ricordandogli di non andare dietro alle «vaghe veneri» straniere (intendeva l'opera tedesca), e si affrettò a comporre un tradizionalissimo melodramma, I Masnadieri. Aspettò il 1887, con Otello, per tornare ad ispirarsi al teatro di Shakespeare che considerava il modello della propria drammaturgia musicale e ripeté l'esperimento nel 1893 con Falstaff.
Vennero poi le avanguardie novecentesche che, smaniose di "sprovincializzare" l'Italia musicale, per prima cosa cancellarono dalla cultura il teatro musicale ottocentesco e con esso l'atteggiamento anti-evasivo di Verdi. Le avanguardie, nel corso del secolo, si sono internazionalizzate, e le abitudini musicali italiane di un tempo a poco a poco hanno ripreso il sopravvento. Si rivaluta la musica come evasione: si torna ai virtuosismi di Rossini e dei suoi predecessori; si scritturerebbero, se fosse possibile riaverli, perfino i castrati. E' forse giusto che burocraticamente la musica stia insieme con i calciatori e le "pro loco".
Per quanto riguarda la musica sinfonica, le orchestre create nella prima metà del Novecento (quella dell'Accademia di Santa Cecilia, le quattro della Rai-Radiotelevisione Italiana) sono in decadenza, mentre se ne formano di nuove che appartengono a quella miriade di società che, come si è detto, combattono del loro meglio. L'Italia è tuttavia un paese contraddittorio: italiani sono due fra i più grandi direttori d'orchestra del momento, Claudio Abbado e Riccardo Muti, ma la loro attività si svolge all'estero, secondo una secolare tradizione nazionale, e si dividono il mondo musicale internazionale, dalla Mitteleuropa agli Stati Uniti.
Ogni volta che si parla di musica, in Italia, occorre premettere che si tratta di un'arte e che rientra nella cultura. Del resto, nessun ministro italiano preposto all'istruzione, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi regime, ha inserito la musica fra gli insegnamenti artistici obbligatori nella scuola primaria: ci si è limitati ad ereditare (e a far proliferare) i conservatori cittadini, risalenti al modello sei-settecentesco della scuola per poveri, giusto per avere scuole destinate a specializzati.
Anche in questo caso, la storia offre motivi di riflessione: la musica è rimasta alla committenza aristocratica dei secoli andati, senza che alcun cambiamento sia avvenuto nell'epoca borghese.
Essa era considerata, nel Cinquecento e nel Seicento, un intrattenimento per feste e cerimonie sacre e profane, dalla polifonia di Palestrina per la Curia romana ai celebri intermedi fiorentini per nozze principesche; e anche nel teatro musicale, che dalla metà Settecento in poi fu l'espressione più caratteristica della musica italiana, si dovevano creare occasioni di divertimento evasivo, con spettacoli in cui non contava la drammaturgia, ma il virtuosismo, non la verosimiglianza drammatica, ma il concerto canoro di castrati e primedorme travestiti da eroi e divinità del mondo classico: Pietro Metastasio reinventò i più inverosimili casi della storia, dalla Clemenza di Tito ad Alessandro nelle Indie, sotto forma di ariette armoniose destinate a fornire metafore per strepitosi gorgheggi; Carlo Goldoni trasferì nella lirica il suo talento per la commedia realistica, nobilitando la comicità popolare in un teatro musicale buffo (non meno surreale di quello tragico) popolato di bassi comicamente balbuzienti, di sospirosi amanti e di capricciose soubrettes. Napoli, con i suoi fantasiosi e colti letterati e con i suoi geni musicali spontanei, ad esempio Paisiello e Cimarosa, fu il serbatoio della comicità operística italiana.
Per la stessa contraddizione per cui i grandi direttori italiani di oggi sono applauditi all'estero, i grandi compositori di un tempo fecero fortuna nell'Europa musicale: gli autori di musica strumentale, da Geminiani a Domenico Scarlatti, da Boccherini a Clementi, si piazzarono nel grande mercato musicale di Londra o si allogarono presso le corti di Spagna; gli autori operistici si procurarono vantaggiosi contratti presso tutte le corti europee, da Stoccarda a Dresda e a San Pietroburgo, per diffondere il loro prodotto tipico, l'opera seria e l'opera comica, e divertire l'aristocrazia europea.
Nell'Ottocento, Verdi impiegò una vita, fra compromessi e adattamenti, a trasformare in dramma musicale lo spettacolo a base di virtuosismo canoro che attraverso Rossini gli era stato lasciato in eredità dai secoli antecedenti e che era stato in qualche modo trasformato da Donizetti, in maniera confusa e contraddittoria, e da Bellini con distillati lirici troppo esigui per modificare convenzioni secolari.
Verdi compì esperimenti audaci ma rinfoderò prontamente le sue intenzioni quando, nel 1847, il poeta nazionalista Giuseppe Giusti recensì Macbeth ricordandogli di non andare dietro alle «vaghe veneri» straniere (intendeva l'opera tedesca), e si affrettò a comporre un tradizionalissimo melodramma, I Masnadieri. Aspettò il 1887, con Otello, per tornare ad ispirarsi al teatro di Shakespeare che considerava il modello della propria drammaturgia musicale e ripeté l'esperimento nel 1893 con Falstaff.
Vennero poi le avanguardie novecentesche che, smaniose di "sprovincializzare" l'Italia musicale, per prima cosa cancellarono dalla cultura il teatro musicale ottocentesco e con esso l'atteggiamento anti-evasivo di Verdi. Le avanguardie, nel corso del secolo, si sono internazionalizzate, e le abitudini musicali italiane di un tempo a poco a poco hanno ripreso il sopravvento. Si rivaluta la musica come evasione: si torna ai virtuosismi di Rossini e dei suoi predecessori; si scritturerebbero, se fosse possibile riaverli, perfino i castrati. E' forse giusto che burocraticamente la musica stia insieme con i calciatori e le "pro loco".
di Claudio Casini (da "L'arte di ascoltare la musica", Rusconi 1991)
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