Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 19, 2008

Pinzauti intervista Gian Francesco Malipiero

Domandare a Malipiero della sua musica, delle sue «ragioni poetiche» è difficile; più facile è ascoltare da lui (a sprazzi, in quel suo tipico modo di aprir parentesi e digressioni) una catena di giudizi inquieti, estrosi, bizzarri sulle sue avventure di compositore: ma per Malipiero il momento dell'analisi sistematica di se stesso non è ancora venuto, né può venire. Perché Malipiero è così; lui il più conosciuto dei musicisti italiani del Novecento, non riesce a parlar di sé altro che con la sua musica: ha scritto molti libri, che son poi raccolte di aforismi e di immagini, più che teorie (anche quando si occupano di Zarlino o di Monteverdi); e la sua organizzazione di pensiero, che tanto fedelmente si riflette nei suoi scritti e più ancora nel suo modo di «far musica», sembra non credere allo «sviluppo» di un tema. La forma-sonata, il sistema, per Malipiero sono finiti nella musica e in tutto quanto c'è di umano nella vita che ci circonda. Ed ecco che, alle domande che gli abbiamo rivolto, risponde con un «tema», che poi lascia andare, affidandolo alla nostra e alla sua fantasia di un momento dopo, quando esso non sarà più lo stesso di prima, e si «svilupperà» in un'altra cosa, lontana e diversa.

«Scrivo la musica - comincia - perché non faccio nessuno sforzo a scriverla... E se volete sapere perché ho scritto una nuova opera, che si chiamerà Don Tartulo Bacchettone, dal Tartufe di Molière, io rispondo così: è l'opera che viene dopo la precedente; come la mia ultima sinfonia è quella che vien dopo la precedente; così, per continuare a lavorare. Anche perché è l'unica cosa che so fare, l'ultimo mezzo che ho per comunicare con me stesso e col mondo. Vede: l'ultima sinfonia che ho scritto è dedicata a Scherchen: la sua morte, a cui ho avuto la disgrazia di esser si può dire presente (quella volta a Firenze - si ricorda? - e ho parlato con lui per telefono poco prima che morisse, lì in quell'albergo del centro), mi ha molto turbato. Ci penso da mesi, e continuo a pensarci molto: e allora ho scritto la mia decima sinfonia - s'intende, quella che vien dopo la «nona» nella quale le ultime quattro battute son quelle dell'Orfeide, le ultime che Scherchen diresse; e le ho messe lì, all'improvviso, proprio in memoria di lui». Ma allora, domando, si potrebbe dire che in lei agiscono ancora delle spinte «romantiche»...«Ah, io sono un pessimo soggetto per far teorie... Direi che le mie composizioni hanno bisogno di un «trampolino»: questa volta il trampolino è stato il ricordo di Scherchen, con cui avevo avuto una discussione pochi mesi prima, a Venezia, un giorno che lui era irritato. E siccome di fronte ai grandi avvenimenti si rimane perplessi, mi son messo alla prova; ed è nata la decima sinfonia, che ho chiamata Atropo e che dedico a Herman Scherchen».- Ma della sua attività, che cos'altro può dirmi? A Roma si era sentito dire che avrebbero fatto l'Orfeide, quella dell'edizione fiorentina...«Senta, a me accadono sempre delle cose straordinarie (come la morte di Scherchen, anche quella è stata una cosa esagerata, non le sembra?): ed ora sa che cosa mi sta succedendo? Se un'opera mia va bene e piace al pubblico, allora non la danno più; se invece non ha successo, allora entra di mezzo l'ipocrisia e la rappresentano in altri teatri. Bonaventura che andò bene, è rimasto inedito; ora ho cambiato scenicamente una piccolissima parte del secondo atto, per stabilire una continuità che a Venezia non fu colta, e la correzione facilita la regia, perciò il regista in questo caso, non avrà più il diritto di accusarmi, mentre io...».L'argomento dei registi è ricorrente, e in modo abbastanza scottante, nelle conversazioni di Malipiero.«Vede com'è strano il mondo - continua. A Roma non fanno più l'Orfeide, e lo sa perché? Perché non mi piaceva un pezzo di scenografia delle Sette canzoni, e allora avevo consigliato di sostituirla con un'altra che c'era già e che andava bene. In fondo facevo spender meno, non volevo ballerini, uomini o donne che siano, non volevo vedere ballonzolare sulla scena quando c'è soltanto da ascoltare la musica... Il risultato è stato che l'Orfeide non si farà più, almeno quest'anno. Stia tranquillo, se l'opera a Firenze fosse andata male mi ricompensavano «con un altro allestimento».
Malipiero si trova, di fronte ai musicisti più giovani, compresi quelli delle ultimissime generazioni, in una situazione singolare: un Dallapiccola, per i più avventurosi dei post-weberniani, rappresenta, talvolta, una figura guardata quasi sotto l'etichetta del «romanticismo». A Venezia, proprio per Dallapiccola, nel settembre scorso si è parlato di «dolcezze» e «romanticherie»; mentre Malipiero suscita ancora gli interessi e il rispetto incondizionato anche dei più arrabiati «avanguardisti»; lui che non ha accettato SchoenbERo almeno tutto Schoenberg, che non crede nella musica aleatoria ed elettronica, che guarda con notevole curiosità il panorama della musica contemporanea.
- Come spiega, maestro, questa simpatia che lei ha da parte dei giovani? E in che posizione si sente di fronte alla loro musica: mettiamo a quella di Stockhausen o di Bussotti? O anche a quella di Cage?«Vede, io ho sempre aiutato ed ascoltato i giovani. E ancora cerco di ascoltare tutto quello che è possibile ascoltare... Ma mi succede spesso che una specie di subcosciente mi fa da cane da guardia: tante volte dico: - Domani trasmettono il pezzo dei tale, voglio sentire com'è. E poi mi succede che all'ora della trasmissione, o me ne dimentico o c'è qualcosa di «aleatorio» che me lo fa dimenticare... E in sostanza, quando ci penso, e quando riesco ad ascoltare qualcosa di Stockhausen, di quel Bussotti e del suo amico Cage, allora mi sembra di essere un alluvionato: uno rimasto su un'isola, e spera che finisca il maltempo per poter tornare sulla terra ferma... Perché la questione è tutta qui: la terra ferma c'è o non c'è? lo sanno da dove si passa per raggiungerla? E vede, io credo che ci siano molti modi: Schönberg, ad esempio, sa dov'è la terra ferma; e in fondo è un romantico che scrive in dodecafonia, per il semplice fatto che è stato lui ad inventarla. Fra i giovani, quando Nono scrive il Canto sospeso, dove domina il colore vocale e il ritmo fa da supporto con la timbrica della percussione, ha scelto una buona strada: ha adoprato il mezzo, adatto alla sua sensibilità per raggiungere, diciamo, la terra ferma. Ma qualche volta... ah, deve esser tremendo comporre senza aver voglia di comporre. E molti mi fanno quest'impressione; come Boulez, ad esempio: che è uno straordinario musicista - straordinario, mi creda, un fior di musicista - ma tante volte mi sembra che non abbia voglia di scrivere, e scrive lo stesso...».
- Ma oggi si parla molto di «impegno»: a Venezia, lo scorso settembre si è molto discusso su questo argomento, tanto che qualcuno ha avanzato l'ipotesi che non si debba più servirsi delle categorie del «bello» e del «brutto» per dare un giudizio...«Tutte storie - interrompe Malipiero. L' "impegno" per certi è un modo di essere ipocriti di fronte a cose molto gravi, che non sanno spiegare... Si ricorda di quei tre poveretti che qualche tempo fa morirono in America in cima al missile che prese fuoco? È stata una cosa che mi ha fatto molta impressione: non importa mica credere in Dio per vederci qualcosa, basta pensare che esista uno Spirito... e lo Spirito in certo modo si vendica. Volete andare sulla Luna? Ecco che cosa succede. E poi, creda, a me anche la storia di queste alluvioni (Firenze, il Brasile, migliaia di morti) mi fa pensare: non sono mica soltanto dei fatti meteorologici... E di fronte a cose del genere, se lo immagina lei l' "impegno" - come dicono - di quello che si è occupato del Combattimento di Tancredi e Clorinda e ha fatto uno spettacolo in cui Tancredi è vestito da soldato americano e Clorinda da nordvietnamita? Che credono di fare? Buffonate, cose ignobili... Se bastasse andar vestiti male per essere "impegnati", ah..., allora sarebbe un'altra cosa!...».
Ma allora, negli ultimi venti-trent'anni, ha mai provato di nuovo, con qualche musicista, l'emozione sconvolgente - di cui tante volte ha scritto - del Sacre di Stravinsky, quando lo ascoltò a Parigi?«Direi di no: forse perché allora ero giovane. Ma no- mi sbaglio. Dopo il Sacre la cosa che mi ha fatto più impressione sono stati i Canti di prigionia di Dallapiccola. In Italia c'è poi anche Petrassi, che io scoprii a Amsterdam nel 1932. E invece quei giovani di cui si parlava - mi creda - rappresentano per me un grande dolore: mi vien fatto tante volte di pensare: - A chi lasciamo la musica, nelle mani di chi? E poi mi prende lo scrupolo, e qualche volta mi domando se siamo noi che siamo rimasti indietro o sono loro che sono andati troppo avanti. D'altra parte, quando guardo Bussotti, non posso fare a meno di chiedermi: - Ma lui è sicuro di sentire, dopo, quello che ha scritto in bella calligrafia? In fondo la colpa è anche della pittura, che anzi è oggi più responsabile di tanti guai della stessa musica; perché almeno i musicisti fanno rumore... e i pittori? Non so se anche in pittura esista una cosa come il rumore. Comunque quante volte ci sento il bluff! E dire che dev'essere tanto faticoso, e continuano ugualmente a farlo... Ma lasciamo stare...».
Malipiero ha fatto cadere il discorso della musica contemporanea.Per capire il suo mondo poetico, in fondo, basterebbero ì suoi innamoramenti e i suoi giudizi sulla musica dei passato: si può domandare a Malipiero se ha un «musicista del cuore»? È possibile; e la risposta a questa domanda è rivelatrice ancora una volta del suo modo di essere musicista, del suo sentirsi «su un'isola».«Lei sa - continua - che ho molto studiato Monteverdi: credo che con questo musicista in certi momenti della mia vita io abbia avuto quasi un rapporto medianico. (Non voglio entrare in particolari, a questo proposito). Ma i miei musicisti «del cuore» - diciamo così - sono Gesualdo da Venosa e Domenico Scarlatti; poi anche Vivaldi, ma per una decina di concerti soltanto...»
- E fra i musicisti dell'Ottocento, c'è qualcuno che lo interessa di più?«Sono pochi, per la verità: l'Ottocento, in genere, mi interessa poco. Wagner - quello che un mio zio chiamava «il matematico» - è stato il peggiore critico di Wagner che io conosca: ma il Preludio e morte d'Isotta è la pagina più grande dell'Ottocento. Quanto a Verdi, lei sa che mi accusano sempre di dir male di Verdi; e invece è una calunnia. Anzi, in questi ultimi tempi ci ho pensato molto: il IV atto di «Otello» è fra le cose più potenti che siano state mai scritte, e l'ho sempre detto; e il «Falstaff» è davvero un testamento da miliardario per la musica che è venuta dopo. Mi sono ricreduto, invece, per Rigoletto e Trovatore: in quella che potremmo chiamare l' «opera popolare» sono due grandi capolavori; nella Traviata, invece, che appartiene a questo stesso «genere», trovo ancora qualcosa che mi pare banale...». (E accenna, quasi mugolando, «Il tuo vecchio genitor, tu non sai quanto soffrì...»).
- E nella musica del Novecento, dopo il Sacre di cui si è detto? «Senza dubbio l'opera che mi impressiona di più è Pelléas et Mélisande: una partitura e un cantare, che mi fanno pensare al Busenello e all'Incoronazione di Poppea... Ma a proposito, com'è andata a Firenze quest'opera?...» [4].Un'altra divagazione, altri giudizi sui registi, altro ricordo di Scherchen. E un'ultima battuta:«Una volta mi accorsi di aver scritto un tema di dodici suoni: sarà un tema «dodecafonico», mi domandai? Lo copiai e lo mandai a Dallapiccola per un suo giudizio; e lui mi rispose con un No, grosso così, con un grande esclamativo...».

intervista di Leonardo Pinzauti a Gian Francesco Malipiero (Nuova Rivista Musicale Italiana)

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