Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 16, 2009

Mahler sinfonia paradiso

Nell'estate del 1906, in villeggiatura a Maiernigg sul Wörthersee, Gustav Mahler fu colto da una ispirazione violentemente subitanea. Sarebbe stata l'Ottava Sinfonia, di cui parlò subito a un amico in termini di entusiasmo ma più consonante sarebbe la parola di Hölderlin: Begeisterung. «E' la più grande di tutte quelle che ho composto finora. E' così originale per contenuto e forma che non posso descriverla per iscritto. Immaginate che l'universo si metta a cantare e risonare. Non sono più voci umane ma pianeti e soli che ruotano». E più tardi: «Questa sinfonia è un dono alla nazione. Tutte le precedenti erano solo un preludio ad essa. Le altre mie opere sono tragiche e soggettive. Questa è una immensa "dispensatrice di gioia"». L'immediato futuro non avrebbe misurato i mezzi per oscurar tanto giubilo: la diagnosi della malattia che sarebbe riuscita fatale, la morte della figlia primogenita per un'angina maligna, forse il croup; il distacco della moglie, esasperata dalla solitudine (era sopraggiunta una invincibile impotenza sessuale); le infinite beghe di Vienna, con allontanamento dalla direzione della Staatsoper e il soggiorno americano, anch'esso amareggiato dalla cabala montata da Toscanini. E tuttavia, parlando di oggettività, Mahler dimostrava assoluta chiaroveggenza: quello era l'inno allo Spirito creatore, la Caritas cristiana, accostata sincreticamente alla nascita di eros quale si celebra nel secondo Faust. Il piano compositivo, di quattro movimenti, s'era poi ristretto: due soli, di assai diversa durata, ancora desunti da culture distanti se non aliene affatto, in un disperante sforzo di affermazione unitaria: per il primo l'inno Veni creator, opera del benedettino Hrabanus Maurus, rettore dell'abbazia di Fulda; poi, appunto, la scena finale del Faust, il dono postumo di Goethe alla letteratura. Entrambi sottoposti a leggere potature, peraltro di rara accortezza: del resto non incompatibili nel pensiero stesso del poeta, che dell'inno dette una versione in versi. Come è stato accolto nella liturgia, esso differisce in taluni passi dall'originale, pochi risultandone espunti: quando il compositore ebbe il testo integrale, notò ci rivela Henry Louis de la Grange nella definitiva monografia come essi si adattassero senza sforzo ad una sezione già composta per soli strumenti, e ne ebbe la conferma di un dettato superno. La partitura immane (grande orchestra, organo, due doppi cori, coro di fanciulli, otto voci soliste di massimo impegno) dovette attendere quattro anni: in cui videro la luce il nuovo lavoro per voci e orchestra, Das Lied von der Erde, poi la Nona Sinfonia e quanto fu possibile fissare su carta di una Decima. Mahler non poté ascoltare quei supremi congedi: essi erano destinati a Willem Mengelberg, Bruno Walter e Franz Schalk. Diretta dall'autore a Monaco il 12 settembre 1910 davanti a un parterre de rois (erano accorsi Richard Strauss, Gerhart Hauptmann, Thomas Mann, Guido Adler, Max Reinhardt, Clemenceau, Alfredo Casella, Max Reger, Siegfried Wagner, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Stefan Zweig, Camille SaintSaëns, Leopold Stokowski e, anche per informarne Schoenberg forzatamente assente, Anton Webern) fu l'unico successo trionfale d'una sua prima. Non mancarono naturalmente le facezie e le caricature: il malizioso nomignolo di Tausend Symphonie fu, per una volta, addirittura inferiore all'organico ottenuto, che oltrepassava il migliaio. L'assenza di Schoenberg era dovuta davvero agli impegni pedagogici e alle difficoltà economiche che vessavano il musicista, come ci viene anodinamente suggerito? Webern era accorso per ascoltare le prove: ne aveva già potuto riferire al maestro? Si sa che in Schoenberg l'onestà profonda non riuscì mai a sopraffare rancori e gelosie, che si leggono, poi, persino nelle lodi. Eccone un campione: «Come mai quel primo tempo ritorna costantemente in mi bemolle, ad esempio su un accordo di quarta e sesta! In un qualsiasi studente, io correggerei il passo, consigliandolo di cercare un'altra tonalità. Ma, incredibilmente, tutto ciò qui è necessario, giusto, e non può essere diverso. Che dicono al riguardo le regole? Allora, sono proprio le regole che si devono modificare!». Se ne deduce: una felice, un po' casuale incongruenza. Ma è poi lo stesso a scrivere l'affermazione capitale: «Quando ci si sforza di comprendere che i due movimenti dell'Ottava non sono altro che una sola medesima idea, di estensione e soffio inauditi, una sola idea contemplata e dominata nello steso istante, allora si è colti dall'ammirazione davanti alla potenza di quel cervello che, in gioventù, già possedeva materia sufficiente per compiere prodigi incredibili, ma che qui ha ottenuto il più inverosimile degli esiti». Osservazione, questa, che rivela una comprensione totale dell'opera, ne svela il centro vitale: ma si tratta di quelle osservazioni che si dedicano, più volentieri ai classici, vale a dire ai trapassati. Senza arrivare ai nidi viperei, anche entro la scuola di Vienna ribollivano le pentole delle streghe. Quando Schoenberg poté prendere visione diretta della sinfonia, tutte le sue facoltà orecchio, gusto, sentimento della forma erano radicalmente lontane dall'armonia marcatamente tonale riaffermata in questo anche più che in precedenti lavori: basti la densità cromatica, il pullulare delle «durezze» nel primo movimento della Settima. Ma ora Mahler aveva voluto, per accogliere il Paraclito, un linguaggio evidente, immediato nei limiti del possibile. Osserviamo i due tempi più dappresso. Il primo si ancora, seppure con grande agio, nella forma-sonata tradizionale. Se ne notano subito le deliberate disuguaglianze: un'esposizione di 168 battute, contro le 82 della ripresa: il che ne muta radicalmente il carattere, ne sposta l'acme, anzitutto, emozionale. Anche più prevaricante la funzione dello sviluppo, che è di 184 battute, più le 54 destinate alla doppia fuga; infine, una coda di ben 92 battute, tale da cangiarne ancora il peso: non un epodo, ma una proclamazione allelujatica. Si assommano così, in questo primo tempo di sonata di apparenza ortodossa, seduzioni dell'antica polifonia, della fuga come archetipo o ideale eterno, ma ancora, secondo quanto osserva il citato biografo, del ricercare rinascimentale da un lato; dall'altro la decisa preminenza data, a tratti almeno, al timbro: come una risposta ai modelli offerti, in quegli anni, dalla civiltà dell'Impressionismo. Si nota inoltre, nella totalità dell'opera, una palmare derivazione genetica dei temi: essi sono catalogabili secondo filiazioni, tutte a loro volta riconducibili in qualche modo a una datità primitiva. Con giusto orgoglio, Mahler affermava, in una lettera alla moglie, l'essenzialità di quelle Urzellen (cellule primigenie) «che esistevano già da miliardi di anni, organizzate perché comparisse qualcosa di tal genere, già pronto, nel repertorio del futuro». Il legame fra i singoli temi è qui attuato dalla presenza di minimi nuclei intervallari, perfettamente riconoscibili, travalicanti dall'uno all'altro tema. La necessaria antitesi, ad esempio, fra primo e secondo, è mantenuta, giusta le famose regole, ma attraverso una copresenza di dati elementari identici. Incredibilmente la sgomenta ammirazione di Schoenberg è legittima affatto tutti questi dati melodici, espansi come tali nelle incontenibili frasi melodiche, ovvero sovrapposti in polifonie estremamente complesse, fino al magistrale fugato, riescono a reggere l'attenzione da cima a fondo. Se volessimo una definizione alla Berg (il quale, ben s'intende, si inginocchiava davanti ad imprese siffatte), potremmo definire la sinfonia come un ciclo di variazioni (o meglio Veränderungen) sopra una serie di intervalli, resi anche più pregnanti dall'evidenza timbrica, dalla fisionomicità tagliente del rilievo sonoro: l'arte dell'orchestrazione, su cui Mahler aveva ancora dubbi, che risolveva con continue correzioni a prove inoltrate, o a esecuzione avvenuta, tocca probabilmente in questa Ottava un insorpassabile vertice. Eredità beethoveniana, la mira, l'ansimo verso quanto oltrepassa il limite, lo Streben infine, faustiano affatto, ricerca il conflitto del materiale: e lo trova, secondo una tipica vocazione romantica, nella fuga: che essa fosse già stata invocata come esercizio ascetico compositivo prima dell'opzione di Beethoven (il Capriccio fugato, in la bemolle minore!, che chiude la Sonata op. 7 di Carl Czerny, risale al 1810) nulla toglie all'intransigenza della soluzione beethoveniana: illumina invece radici sotterranee della Romantik. Vi è ancora da sottolineare, accolta la suddetta familiarità tematica, la facilità realmente sbalorditiva con cui essa può generare linee canore talmente appagate di sé, da risolversi integralmente entro la propria compiaciuta eufonia. Va molto oltre l'aneddotica la testimonianza di chi ascolta il maestro disperarsi durante una lettura, e rivolgendosi ai presenti chiedere che, dopo la sua morte, qualcuno che giudicasse la sonorità imperfetta correggesse senza rimorsi. Come in innumerevoli luoghi di sinfonie precedenti, Mahler opta per una tematica aggressiva, giocando il tutto per il tutto: la perfezione della scrittura valendo a riscattare la banalità dell' invenzione, derivazione o ricordo o citazione diretta di testi qualunque, suscettibili tutti peraltro di riscattare l'origine nella esattezza del rimando, e nella fonicità riscattata del virtuosismo sinfonico. Avvezzi come siamo a sentir ripetere la vecchia solfa d'una essenziale antitesi con Strauss, gioverà rileggere una generosa ammissione dell' «uomo che... incarna la volontà artistica più seria e più sacra del nostro tempo» così Mann dopo l'audizione dell'Ottava sul Don Quixote del collega: «E' un capolavoro! Naturalmente (sottolineatura nostra), il disegno resta sempre in secondo piano. Ciò che predomina è senza posa l'immaginazione sonora, ma in maniera sempre artistica. Tutto si risolve in suoni, non vi è quasi più materia». Non era quello certo il primo caso: al contrario, Mahler proseguiva in una intrepida, quasi eroica sublimazione del quotidiano, persino del volgare: linea che, fra l'altro, l'opera italiana conosceva e praticava da sempre, anche se non sempre certo con l'esito auspicabile. Non occorre attendere il secondo movimento (una libera cantata, su episodi indipendenti, pur se arpionati da una ferrea volontà di riscatto) per riconoscere il procedimento in questione. Basta considerare nel primo l'andamento cullante (n. 18) all'inizio dello sviluppo. Un ricorso al folklore era pratica corrente: ma il modo di Mahler è ben più corrivo che non l'avocazione di objets trouvés compiuta da Debussy in territorio spagnuolo, o cinese. Ascoltiamo quel luogo, ovvero altri consimili nella scena goethiana: se Oriente è, come sarà nel gran Lied successivo, è quello che imperversava nell'operetta, dal Mikado e la Geisha a Das Land des Lächelns: e si vorrebbe allora la voce di Fritz Wunderlich, «doppio» di Leháry, esattamente come Schoenberg, per l'opera «comica», avrebbe sognato Tauber: infine, le volute dello Jugendstil. Va da sé che tutto questo è inaccettabile da ogni poetica purista: ancora Hans Meier ha sollevato l'indice severo sulla «paratassi insolubile» dell'opera: una composizione che è un abuso totale, religioso quanto poetico». A noi sembra, per contro, altamente significante che uno stile tanto composito (ma, come si diceva, implacabilmente controllato) sia prescelto in ispecie per una innodia metafisica che celebra l'essenza profonda delle cose, l'innominabile Wesen: che poi, come Natura naturans, Terra mater, Vita venturi saeculi, Risurrezione o, romanticamente, Notte generatrice, è, di tutto Mahler, l'entelechia. Nell'Ottava l'affermazione diviene perentoria, sdegna le più provvide cautele: ciò spiega il furore di Adorno, che trovava qui un dato inassimilabile, non riportabile alle coordinate del suo discorso critico, ritratto pur così ammirevole, e più d'ogni altro correo: se «fra poco sarà notte», dove finirà questo glorificante Empireo, retto da una Göttin che è l'Ewig Weibliches, ma anche la Theotokos! E «dea» non l'aveva già celebrata la canzone petrarchesca? La diffidenza ci è chiara, anche se travolti dall'appassionata adesione alla musica. Ad onore di Adorno, tuttavia, gioverà aggiungere che l'Ottava viene da lui accolta in un altro empireo, quello della «falsa coscienza» che andrebbe (il testo dice va) «dai Meistersinger fino al Palestrina di Pfitzner, e a cui soggiacciono anche le concezioni ideali di Schoenberg, l'eroe della Glückliche Hand come l'Eletto della Jakobsleiter». Una idiosincrasia non meno fonda dell'altra espressa, allora, da Strawinskij: verso quel «benessere generale», tale «onesto agio». (Molti anni dopo avrebbe dato gli occhi per non averlo scritto). Noi non riusciamo a sognare un miglior paradiso.

Mario Bortolotto (Repubblica, 27 novembre 2001)

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