Spoleto. La cronaca è quella di sempre. Migliaia di spettatori assiepati sulla piazza del Duomo, come sempre; platea fitta di seggiole di legno, come sempre, stipate più di sempre, in spazi sempre più esigui; le rondini di sempre con in più, inedito per noi, un coro di più loquaci ma anche meno nottambule cornacchie (solo l'amore di Francesco e della Protezione Animali può assolvere quelle sgradevoli bestie). L'amplificazione inacidisce l'esecuzione come sempre: e se un soprano non legge ma canta a memoria guardando il direttore, ecco che l'asse dell'amplificazione si inclina, e il soprano si perde dietro il bronzeo timbro del mezzosoprano, perfettamente allineata con il suo spartito e col microfono. Orchestra di sempre ma, si direbbe, dimidiata: otto violoncelli e sei contrabbassi sono un po' pochi per un'esecuzione all'aperto, pur amplificata. E dire che hanno preso le ottime trombe di S.Cecilia e della Rai per un'esecuzione stereofonica del "Tuba mirum"; non potevano prendere anche qualche altro arco? E, come sempre, il Requiem di Verdi, pagina bellissima, come si sa, e indubbiamente utile, grandiosa e sublime com'è, a concludere una manifestazione di densità 165 (tanti sono gli spettacoli che si sono succeduti nel 27 Festival). Dunque, la Messa di Requiem. Le varianti di quest'anno sono il direttore, Donato Renzetti, il soprano Marion Vernette Moore il mezzosoprano Klara Takacs e il basso Kolos Kovacs, il tenore Antonio Savastano essendo una vecchia recluta spoletina. Che dire di Renzetti? Quello che abbiamo detto sempre: bravo, qualche volta bravissimo, preciso, capace di momenti assai belli (come la chiusa dell'Offertorio, l'Agnus Dei) ma non di darci un Requiem veramente tragico. E non sappiamo come possa esser visto altrimenti. Tragedia di vivi, non di defunti; tragedia di dover, vivendo, prefigurarsi la morte. Ed è una morte, questa di Verdi, non fisica; è la morte del pensiero, delle idee, il contrario esatto di "Sempre libera degg'io" ("Cuncta stricte discussurus"). Bisogna avere idee per urlare alla morte delle idee: Renzetti non urla perchè le sue idee appartengono alla fisica, non alla metafisica. E' un sano pragmatista, può affacciarsi sull'orlo di un burrone e non avere una scarica di adrenalina, può non domandarsi "cosa succederebbe se...", le ghiandole surrenali perfettamente tranquille. Questo non gli impedisce di darci momenti di grande tensione lirica e una dimostrazione di indubbia abilità di concertatore. Difficoltà deve averne avute molte: basta ascoltare i violoncelli all'inizio dell'Offertorio e, subito dopo, i violini per capire che avrà dovuto faticare molto per realizzare un'esecuzione così complessivamente pulita. Neppure i cantanti si allontanano dalla solidità della terra. Sembra che al solo mezzosoprano, Takacs e, in parte al basso Kovacs, dispiaccia di prevedere la fine di ogni possibile pensiero. Savastano è un tenore di resa sicura, anche se oggi, a furia di spingere, non riesce più a cantare sul fiato; ma dovrebbe convincersi che "ne perenni cremer igne" non vuol dire "nel perenne gelato di crema dell'igne". Così il soprano Moore, dotata di voce bellissima e di intonazione immacolata, dovrebbe realizzare che "Tremens factus sum ego et timeo" vuol dire qualche cosa di più che "Tramance fuctous soom ago at teamaho". Quali tremori, quali timori avrà mai questa pacifica e solare cantante che peraltro osa cantare a memoria e senza suggeritore? Ad onta di alcune soluzioni non adamantine, il mezzosoprano Takacs ci è sembrato il temperamento più adatto all'opera verdiana (e i tempi non erano mai abbastanza lenti per lei: con qualche buona ragione). Il basso Kovacs copriva bene il suo ruolo. E così si può dire del coro diretto da Joseph Flummerfelt e da Ferenc Sapszon (riuniva infatti il Westminster Choir e il Coro della Radio Televisione Ungherese). Alla fine tutti contenti o abbastanza contenti. Giancarlo Menotti applaudiva dalla sua finestra, Christian Badea applaudiva dalla sua, le migliaia di spettatori applaudivano lungo la scalinata, ma non molto a lungo. Alcuni dovevano correre a mettersi in coda ai ristoranti spoletini (tutti lì in piedi a guardare con odio quegli infami che ordinano anche la frutta). E così si chiude anche il 27° Festival dei Due Mondi. L'anno prossimo sarà il Festival dei Tre Mondi. Cambiera qualcosa? Ci sarà un direttore artistico? Il Festival più noto del mondo ha bisogno di nuova linfa, è sempre più vecchio. Mentre avrebbe tutti i numeri per tornare a vivere come nei primi due decenni.
Michelangelo Zurletti ("Repubblica, 17 luglio 1984)
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