"Anni fa stavo suonando per la prima volta la Sonata n. 30 op. 109 di Beethoven. Avevo circa diciannove anni e avevo l'abitudine di provare in cittadine canadesi relativamente piccole i pezzi mai suonati prima in pubblico; questa sonata capitò nel programma di un concerto che dovevo tenere in una città universitaria di nome Kingston, a centoventi miglia da Toronto.
Non mi sono mai preso la briga di esercitarmi a lungo - ora quasi non lo faccio più - ma già allora non ero affatto schiavo dello strumento. Tendevo a imparare lo spartito lontano dal pianoforte. Lo imparavo prima tutto a memoria, e solo dopo andavo al pianoforte - e questo rappresentava, naturalmente, un altro stadio del divorzio fra componente tattile e altre manifestazioni espressive.
No, non mi sono espresso accuratamente perché, ovviamente, certe manifestazioni espressive facevano parte del processo di analisi, ma questo non era vero di quel che il pezzo presupponeva dal punto di vista tattile.
Ora, l'op. 109 non è un pezzo particolarmente difficile né faticoso, ma c'è un momento che è un vero spauracchio e si trova nella quinta variazione nell'ultimo movimento - una volata diatonica di seste ascendenti. Le difficoltà nascono non soltanto da problemi di diteggiatura di note sui tasti bianchi contro note sui tasti neri, ma anche a causa di quella zona della tastiera intorno alle due ottave sopra il do centrale, dove la ripetizione delle note spesso presenta dei problemi. Perché a quel punto si deve cambiare da un disegno di seste a un disegno di terze, e lo si deve fare in una frazione di secondo. Avevo sempre visto pianisti che, arrivati a quel punto sembravano cavalli dentro una stalla in fiamme, con il terrore dipinto sul volto, e mi ero sempre chiesto cosa mai ci fosse di così terribile in quel passaggio.
Ad ogni modo, due o tre settimane prima di suonare il pezzo per la prima volta, incominciai a studiare lo spartito e, una settimana prima, a provarlo al pianoforte (può sembrare un suicidio, ma è così che ho sempre lavorato). E la prima cosa che feci, stupidamente - un vero e proprio errore psicologico - fu di pensare: bene, prima proviamo la variazione, giusto per essere sicuri che non c'è alcun problema; non mi era mai sembrato che ce ne fossero quando da ragazzo avevo letto lo spartito... ma meglio provare, meglio mettere a punto un piccolo sistema di diteggiatura, non si sa mai.
Non appena cominciai a pensare al mio sistema, le cose cominciarono ad andare per il verso sbagliato, una dopo l'altra. Nel giro di pochi minuti scoprii di avere sviluppato un autentico blocco intorno a quel passaggio. Tre giorni prima del concerto, il blocco, di cui avevo cercato di sbarazzarmi con ogni genere di sotterfugi - per esempio non suonando affatto - era tanto cresciuto da rendermi letteralmente impossibile arrivare a quel punto senza cominciare a tremare e fermarmi. Quel passaggio mi faceva davvero venire i sudori freddi. Pensai che bisognasse fare qualcosa: o cambiare programma, o cancellare la variazione, o fingere di sapere qualcosa dell'autografo originale che nessun altro sapeva.
Decisi così di ricorrere al metodo Estremi Rimedi, che consisteva nel piazzare accanto al pianoforte un paio di radio o, meglio ancora, una radio e una televisione e accenderle a tutto volume (è proprio lo stesso esperimento di cui venni a conoscenza qualche anno dopo nel campo dell'odontoiatria anti-anestetica), a un volume così alto che, mentre potevo avere la percezione di ciò che stavo facendo al pianoforte, quel che riuscivo a sentire erano più che altro i rumori della radio e della televisione o, meglio ancora, di entrambe.
In quella fase lavoravo per separare le mie aree di concentrazione, ed ero arrivato a un punto tale che mi resi conto che quella cosa di per sé non avrebbe spezzato la catena delle mie reazioni (l'espediente aveva già cominciato ad avere effetto, il problema cominciava a sparire; il fatto di non potersi ascoltare, di non avere alcun riscontro uditivo dei propri errori era già un passo nella direzione giusta). Ma mi convinsi di dover fare qualcosa di più.
Ora, nel punto cruciale di questa variazione, la mano sinistra esegue una sequenza non particolarmente ispirata di quattro note, la terza delle quali è legata a cavallo di due battute. Con queste note non si può fare un granché, tuttavia pensai - va bene, ci sono diciamo almeno una mezza dozzina di permutazioni che io posso fare cambiando accenti e altre cosette simili [ne canticchia alcune], e provai a suonarle nel modo meno musicale possibile. Infatti, meno musicali erano, meglio era, dato che ci vuole moltissima concentrazione a produrre suoni non musicali: devo dire che questo mio sforzo ebbe pieno successo. In ogni caso, in quegli istanti la mia attenzione era esclusivamente concentrata sulla mano sinistra - la destra l'avevo praticamente dimenticata - e continuavo a fare questa cosa variando i tempi e lasciando la radio a tutto volume, e poi arrivò... il momento.
Spensi la radio e mi dissi: non penso di essere ancora pronto... ho bisogno di una tazza di caffè, trovai qualche altra scusa, e poi finalmente mi sedetti al pianoforte e suonai. Il blocco era scomparso. Ed ancora oggi talvolta, così per gioco, provo quel passaggio per vedere se quel blocco se ne è andato per sempre. Non c'è più e quello è diventato uno dei miei pezzi da concerto preferiti.
Ora, a me pare che il punto sia questo: all'inizio bisogna trovare per ogni strumento un modo che ci consenta di sbarazzarci completamente dell'idea che quel dato strumento comporti problemi tattili; ovviamente i problemi ci sono, ma bisogna ridurli alla loro radice quadrata e, avendolo fatto, adattare ogni tipo di situazione al risultato di quella operazione. Il problema è allora di avere abbastanza esperienza pregressa e/o extratattile della musica da impedire a qualsiasi cosa faccia il pianoforte di esserci di intralcio. Nel mio caso cerco di ottenere questo risultato stando lontano dal pianoforte la maggior parte del tempo, sebbene sia un po' difficile visto che ogni tanto si ha voglia di sentire come suona una certa cosa. Ma un certo ideale analitico (che è in qualche modo una contraddizione, non riesco a capire perché - oggi mi sento un po' stupido, ma andiamo avanti...), una completezza analitica è teoricamente possibile solo finché si sta lontani dal pianoforte.
Nel momento stesso in cui ci si siede al piano questa completezza viene alterata da compromessi tattili. Fino ad un certo punto il compromesso è inevitabile, ma la misura in cui è possibile minimizzarne gli effetti è esattamente la misura che si può raggiungere seguendo quell'ideale di cui stiamo parlando".
di Jonathan Cott (tratto da "Conversazioni con Glenn Gould", edt, 2009)
Non mi sono mai preso la briga di esercitarmi a lungo - ora quasi non lo faccio più - ma già allora non ero affatto schiavo dello strumento. Tendevo a imparare lo spartito lontano dal pianoforte. Lo imparavo prima tutto a memoria, e solo dopo andavo al pianoforte - e questo rappresentava, naturalmente, un altro stadio del divorzio fra componente tattile e altre manifestazioni espressive.
No, non mi sono espresso accuratamente perché, ovviamente, certe manifestazioni espressive facevano parte del processo di analisi, ma questo non era vero di quel che il pezzo presupponeva dal punto di vista tattile.
Ora, l'op. 109 non è un pezzo particolarmente difficile né faticoso, ma c'è un momento che è un vero spauracchio e si trova nella quinta variazione nell'ultimo movimento - una volata diatonica di seste ascendenti. Le difficoltà nascono non soltanto da problemi di diteggiatura di note sui tasti bianchi contro note sui tasti neri, ma anche a causa di quella zona della tastiera intorno alle due ottave sopra il do centrale, dove la ripetizione delle note spesso presenta dei problemi. Perché a quel punto si deve cambiare da un disegno di seste a un disegno di terze, e lo si deve fare in una frazione di secondo. Avevo sempre visto pianisti che, arrivati a quel punto sembravano cavalli dentro una stalla in fiamme, con il terrore dipinto sul volto, e mi ero sempre chiesto cosa mai ci fosse di così terribile in quel passaggio.
Ad ogni modo, due o tre settimane prima di suonare il pezzo per la prima volta, incominciai a studiare lo spartito e, una settimana prima, a provarlo al pianoforte (può sembrare un suicidio, ma è così che ho sempre lavorato). E la prima cosa che feci, stupidamente - un vero e proprio errore psicologico - fu di pensare: bene, prima proviamo la variazione, giusto per essere sicuri che non c'è alcun problema; non mi era mai sembrato che ce ne fossero quando da ragazzo avevo letto lo spartito... ma meglio provare, meglio mettere a punto un piccolo sistema di diteggiatura, non si sa mai.
Non appena cominciai a pensare al mio sistema, le cose cominciarono ad andare per il verso sbagliato, una dopo l'altra. Nel giro di pochi minuti scoprii di avere sviluppato un autentico blocco intorno a quel passaggio. Tre giorni prima del concerto, il blocco, di cui avevo cercato di sbarazzarmi con ogni genere di sotterfugi - per esempio non suonando affatto - era tanto cresciuto da rendermi letteralmente impossibile arrivare a quel punto senza cominciare a tremare e fermarmi. Quel passaggio mi faceva davvero venire i sudori freddi. Pensai che bisognasse fare qualcosa: o cambiare programma, o cancellare la variazione, o fingere di sapere qualcosa dell'autografo originale che nessun altro sapeva.
Decisi così di ricorrere al metodo Estremi Rimedi, che consisteva nel piazzare accanto al pianoforte un paio di radio o, meglio ancora, una radio e una televisione e accenderle a tutto volume (è proprio lo stesso esperimento di cui venni a conoscenza qualche anno dopo nel campo dell'odontoiatria anti-anestetica), a un volume così alto che, mentre potevo avere la percezione di ciò che stavo facendo al pianoforte, quel che riuscivo a sentire erano più che altro i rumori della radio e della televisione o, meglio ancora, di entrambe.
In quella fase lavoravo per separare le mie aree di concentrazione, ed ero arrivato a un punto tale che mi resi conto che quella cosa di per sé non avrebbe spezzato la catena delle mie reazioni (l'espediente aveva già cominciato ad avere effetto, il problema cominciava a sparire; il fatto di non potersi ascoltare, di non avere alcun riscontro uditivo dei propri errori era già un passo nella direzione giusta). Ma mi convinsi di dover fare qualcosa di più.
Ora, nel punto cruciale di questa variazione, la mano sinistra esegue una sequenza non particolarmente ispirata di quattro note, la terza delle quali è legata a cavallo di due battute. Con queste note non si può fare un granché, tuttavia pensai - va bene, ci sono diciamo almeno una mezza dozzina di permutazioni che io posso fare cambiando accenti e altre cosette simili [ne canticchia alcune], e provai a suonarle nel modo meno musicale possibile. Infatti, meno musicali erano, meglio era, dato che ci vuole moltissima concentrazione a produrre suoni non musicali: devo dire che questo mio sforzo ebbe pieno successo. In ogni caso, in quegli istanti la mia attenzione era esclusivamente concentrata sulla mano sinistra - la destra l'avevo praticamente dimenticata - e continuavo a fare questa cosa variando i tempi e lasciando la radio a tutto volume, e poi arrivò... il momento.
Spensi la radio e mi dissi: non penso di essere ancora pronto... ho bisogno di una tazza di caffè, trovai qualche altra scusa, e poi finalmente mi sedetti al pianoforte e suonai. Il blocco era scomparso. Ed ancora oggi talvolta, così per gioco, provo quel passaggio per vedere se quel blocco se ne è andato per sempre. Non c'è più e quello è diventato uno dei miei pezzi da concerto preferiti.
Ora, a me pare che il punto sia questo: all'inizio bisogna trovare per ogni strumento un modo che ci consenta di sbarazzarci completamente dell'idea che quel dato strumento comporti problemi tattili; ovviamente i problemi ci sono, ma bisogna ridurli alla loro radice quadrata e, avendolo fatto, adattare ogni tipo di situazione al risultato di quella operazione. Il problema è allora di avere abbastanza esperienza pregressa e/o extratattile della musica da impedire a qualsiasi cosa faccia il pianoforte di esserci di intralcio. Nel mio caso cerco di ottenere questo risultato stando lontano dal pianoforte la maggior parte del tempo, sebbene sia un po' difficile visto che ogni tanto si ha voglia di sentire come suona una certa cosa. Ma un certo ideale analitico (che è in qualche modo una contraddizione, non riesco a capire perché - oggi mi sento un po' stupido, ma andiamo avanti...), una completezza analitica è teoricamente possibile solo finché si sta lontani dal pianoforte.
Nel momento stesso in cui ci si siede al piano questa completezza viene alterata da compromessi tattili. Fino ad un certo punto il compromesso è inevitabile, ma la misura in cui è possibile minimizzarne gli effetti è esattamente la misura che si può raggiungere seguendo quell'ideale di cui stiamo parlando".
di Jonathan Cott (tratto da "Conversazioni con Glenn Gould", edt, 2009)
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