Dopo la seconda guerra mondiale, dall'Italia, paese completamente privo di alte tradizioni nel campo della musica da camera, uscirono alcuni complessi che si imposero rapidamente sulla scena intemazionale: nel medesimo panorama cui appartennero oltre al Quartetto Italiano, ai Musici ed al Collegium Musicum Italicum anche il Quintetto Chigiano ed il Quintetto Boccherini, rientra, vorrei dir geneticamente, il Trio di Trieste.
Nel 1992 la EDT pubblicò un volume di Fedra Florit, Il Trio di Trieste. Sessant'anni di musica insieme. Un volume di centocinquantasette pagine, ricco di notizie, di estratti di critiche, di statistiche e di fotografie. La prima fotografia è del 1933, e ritrae i tre ai rispettivi strumenti, De Rosa e Zanettovich in calzoncini corti, Lama, vestito da marinaretto, in calzoni lunghi; sulle pareti campeggiano i ritratti di Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, l'arredamento è quello di una scuola di musica. Nel dicembre del 1993 nasceva il Trio, e la fotografia-ricordo diventava il simbolo di un lungo sodalizio. Ma sulla copia pubblicata nel volume, della Florit si trova, datata "aprile 1943", una dedica autografa di Umberto Nigri ad una signora di Trieste.
Questa dedica mi ha richiamato alla memoria il suo autore, Umberto Nigri, maestro di violino di Zanettovich e, come dire?, amorosa balia musicale del Trio. Ora, Umberto Nigri era una degnissima persona ma non era un luminare come quelli che negli anni tra le due guerre insegnavano all'Accademia di Vienna o alla Hochschule di Berlino o al Conservatorio di Parigi o alla Juilliard School di New York. Il Trio di Trieste, formatosi nel 1933 e che nel 1940 vinse il Concorso nazionale del Sindacato Musicisti, non approdò neppure ai corsi estivi dell'Accademia Chigiana di Siena. E sì che a Siena insegnava Alfredo Casella, pianista della prima esecuzione assoluta dei Trio di Ravel e membro del Trio Italiano, unico complesso nostrano che si fosse conquistato una certa reputazione internazionale. Per motivi fors'anche contingenti - la guerra, ad esempio - il Trio di Trieste crebbe cosi in un ambiente di provincia, sia pure di ottima provincia di tradizioni musicali austriache, e, absit iniuria verbis, con una balia asciutta a fargli da mentore. Tra le premesse e la realtà c'è, senza dubbio, un considerevole iato.
Quando si cerca di capire il Trio di Trieste bisogna considerare il fatto che l'eccellenza dei risultati venne raggiunta attraverso un rapporto assolutamente prevalente con il testo, un colloquio fatto di analisi, di intuizioni, di verifiche, di lenta scoperta delle strutture profonde della musica. Una critica apparsa in un giornale di Graz il 7 febbraio 1942 spiega molto bene lo stupore che accompagnò le prime importanti uscite del Trio sulla scena internazionale:
"Noi tedeschi cadiamo spesso nel pericolo di rendere la musica cerebrale, ciò che non avviene per gli italiani, che hanno la musica nel sangue, che fanno vibrare ogni fibra del loro essere. Ma questi ragazzi sono italiani del Nord e così si spiega come il senso atavico latino e quello germanico si sublimino in un insieme perfetto [...]. Cultura del suono; precisione ritmica, sensibilità dinamica. Insuperabile la sicurezza da sonnambuli che consente loro di suonare a memoria, straordinario il dominio e il controllo degli stili".
Unione, o sublimazione di sensi atavici, latino e germanico, in tre ragazzi nati in una terra di confine? Il giomalista stiriano se la cavava con una garbata banalità. Ma le sue osservazioni analitiche erano più acute del suo giudizio sintetico.
L'esecuzione a memoria, che impressionava tutti, in sé non rappresentava, in realtà, un dato essenziale. Suonava a memoria il Quartetto Kolisch, suonava a memoria il Duo Busch-Serkin, avrebbe suonato a memoria il Quartetto Italiano e il Quartetto Smetana, suonavano a memoria tutti i pianisti, in provincia suonavano a memoria l'Aida o la Tosca, con gran divertimento del pubblico, non pochi strumentisti d'orchestra. Certo, c'era una bella differenza tra l'eseguire a memoria una Sonata per pianoforte di Beethoven e l'eseguire a memoria la parte di violoncello in un Trio di Haydn. Però i pianisti mandavano a memoria anche le sezioni dei concerti in cui il pianoforte è integrato nell'orchestra e - oggi, non ieri - suonano a memoria nei tutti dei Concerti di Mozart. L'esecuzione a memoria del Trio di Trieste non valeva dunque tanto in assoluto, quanto per il fatto che i trii più noti erano allora formati da solisti, i quali "mettevano su" il repertorio del trio con poche prove. Con ciò non voglio dire - basti pensare a Cortot, Thibaud e Casals - che i trii formati da solisti fossero approssimativi o che non raggiungessero risultati di elevato valore. Voglio invece far notare come la somma di tre personalità che trovano tra di loro dei punti di equilibrio sia cosa diversa dalla personalità di un trio. E l'esecuzione a memoria era appunto un segno di un lavoro di gruppo e di una simbiosi, la dimostrazione di una entità artistica che non s'affidava alla genialità e all'estro dei singoli componenti ma ad una ascetica disciplina comune.
Il critico di Graz lodava poi la "cultura del suono", la "precisione ritmica", la "sensibilità dinamica".
La cultura del suono è un qualcosa di radicalmente diverso dalla bellezza del suono. La seconda tende a coprire con il suo manto stellato ogni musica, la prima tende a vestire ogni musica con un manto diverso, la seconda è edonistica e mira ad ammaliare, la prima è intellettuale e mira al coinvolgimento dell'ascoltatore. Il paragone fra il Trio di Beethoven e il Trio di Brahms è a questo proposito molto illuminante. La qualità timbrica e la densità del suono sono diverse, diverso è il tipo di "vibrato" degli archi, diverso è il modo in cui il suono del pianoforte raggiunge la sua massima espansione, diverso è il "legato", diversi sono i vari tipi di "staccato", diverse, in una parola, sono le tecniche del suono, con una maggiore pressione degli archi sulle corde e con un maggior impiego del peso del braccio del pianista in Bralmas, con una condotta dell'arco più rapida e con una maggiore mobilità del polso del pianista in Beethoven. E questa è la cultura del suono, il fare del suono non un dato precostituito ma un linguaggio.
La precisione ritmica è un altro carattere essenziale. Il Trio di Trieste risente in questo caso della svolta impressa, nella concezione del ritmo, da Toscanini. Le variazioni del tactus sono minime, il rapporto fra ritmo e misura è molto ravvicinato. Ci si può ben rendere conto di ciò ascoltando lo Scherzo del Trio op. 97 di Beethoven, l'Arciduca, dal Trio di Trieste e dal Trio Cortot-Thibaud-Casals. I primi mantengono un unico tactus per tutta la composizione, i secondi adottano due tactus diversi, collegati da zone di, potrei dire, impressionismo ritmico. Se da questo livello macroscopico scendiamo all'organizzazione delle frasi notiamo che la preparazione dei punti culminanti e la successiva distensione non sono quasi mai ottenute mediante modificazioni agogiche, e le modificazioni agogiche, quando ci sono, hanno il carattere non di allargamento ma di compressione del tempo.
La declamazione del Trio di Trieste, che è ricca, articolatissima, spesso "parlante", punta invece sulla sensibilità dinamica di cui parlava già nel 1942 il critico di Graz. L'accentuazione, sempre molto pastosa, è l'elemento portante della declamazione, che risulta perciò, rapportata alla particolare ritmica, molto fluente e, come dicevo prima, coinvolgente.
Da tutti questi elementi stilistici nascono "il controllo e il dominio degli stili". Il compito dei complessi da camera è a questo proposito molto più difficile di quanto non sia per i pianisti. Il trio con pianoforte, il quartetto d'archi, i duo violino-pianoforte e violoncello-pianoforte non posseggono un repertorio talmente ricco da potersi concentrare soprattutto su un autore o su un periodo storico. Il trio e il quartetto devono partire da Haydn e arrivare fino ai contemporanei, e devono imparare a differenziare gli stili, a diventare degli arlecchini degli stili. Ora, per chi negli anni Trenta studiava a Vienna o a Berlino o a Parigi o a New York, le occasioni di ascoltare grandi interpreti in tutto il repertorio sinfonico e cameristico erano frequenti e numerose. A Trieste si potevano ascoltare concerti cameristici di rilievo, se andava bene, una volta alla settimana o ogni dieci gionrni, e non c'era un'orchestra sinfonica stabile ma solo una programmazione sinfonica stagionale. La ricerca stilistica, per i "provinciali" di Trieste, non nasceva allora dalla conoscenza e dalla imitazione di modelli, ma dalla cultura del suono.
Un certo tipo di suono, scelto per un certo tipo di musica, ha proiezione nell'ambiente solo se viene articolato in un certo modo e non in un altro. Il testo diventa così una specie di fossile che deve esser rivestito di muscoli e di pelle in modo coerente perché possa rivivere e muoversi con naturalezza. Non come pittori che disegnano il rinoceronte avendolo visto, ma come archeologi che il dinosauro lo disegnano avendolo immaginato a partire dal suo scheletro, operavano i ragazzi del Trio di Trieste. Fin dalle loro prime apparizioni in Europa fu chiaro a tutti che le pelli dei dinosauri erano giuste, o per lo meno verosimili, e comunque convincenti. Da Mozart a Mendelssohn, da Beetboven a Schumann, da Schubert a Brahms, da Dvorak a Ravel, la galleria dei dinosauri diventava il parco dei dinosauri, con le pelli chiare e scure, lucide e opache, grigie e brune e verdoline e rosate Fu un miracolo, il primo di quella stagione in cui i complessi italiani di musica da camera conquistarono le platee di tutto il mondo. Poi fu la presa di coscienza di una poetica che venne lucidamente perseguita per mezzo secolo e che viene spiegata con una rara nitidezza di pensiero da De Rosa, in un'intervista pubblicata nel volume della Florit.
Il miracolo, purtroppo, non si è più ripetuto, perché oggi abbiamo vari complessi di valore, ma non un nuovo Trio di Trieste o un nuovo Quartetto Italiano. E non dobbiamo chiederci che cosa è successo adesso, ma che cosa successe allora.
di Piero Rattalino (1994)
Nel 1992 la EDT pubblicò un volume di Fedra Florit, Il Trio di Trieste. Sessant'anni di musica insieme. Un volume di centocinquantasette pagine, ricco di notizie, di estratti di critiche, di statistiche e di fotografie. La prima fotografia è del 1933, e ritrae i tre ai rispettivi strumenti, De Rosa e Zanettovich in calzoncini corti, Lama, vestito da marinaretto, in calzoni lunghi; sulle pareti campeggiano i ritratti di Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, l'arredamento è quello di una scuola di musica. Nel dicembre del 1993 nasceva il Trio, e la fotografia-ricordo diventava il simbolo di un lungo sodalizio. Ma sulla copia pubblicata nel volume, della Florit si trova, datata "aprile 1943", una dedica autografa di Umberto Nigri ad una signora di Trieste.
Questa dedica mi ha richiamato alla memoria il suo autore, Umberto Nigri, maestro di violino di Zanettovich e, come dire?, amorosa balia musicale del Trio. Ora, Umberto Nigri era una degnissima persona ma non era un luminare come quelli che negli anni tra le due guerre insegnavano all'Accademia di Vienna o alla Hochschule di Berlino o al Conservatorio di Parigi o alla Juilliard School di New York. Il Trio di Trieste, formatosi nel 1933 e che nel 1940 vinse il Concorso nazionale del Sindacato Musicisti, non approdò neppure ai corsi estivi dell'Accademia Chigiana di Siena. E sì che a Siena insegnava Alfredo Casella, pianista della prima esecuzione assoluta dei Trio di Ravel e membro del Trio Italiano, unico complesso nostrano che si fosse conquistato una certa reputazione internazionale. Per motivi fors'anche contingenti - la guerra, ad esempio - il Trio di Trieste crebbe cosi in un ambiente di provincia, sia pure di ottima provincia di tradizioni musicali austriache, e, absit iniuria verbis, con una balia asciutta a fargli da mentore. Tra le premesse e la realtà c'è, senza dubbio, un considerevole iato.
Quando si cerca di capire il Trio di Trieste bisogna considerare il fatto che l'eccellenza dei risultati venne raggiunta attraverso un rapporto assolutamente prevalente con il testo, un colloquio fatto di analisi, di intuizioni, di verifiche, di lenta scoperta delle strutture profonde della musica. Una critica apparsa in un giornale di Graz il 7 febbraio 1942 spiega molto bene lo stupore che accompagnò le prime importanti uscite del Trio sulla scena internazionale:
"Noi tedeschi cadiamo spesso nel pericolo di rendere la musica cerebrale, ciò che non avviene per gli italiani, che hanno la musica nel sangue, che fanno vibrare ogni fibra del loro essere. Ma questi ragazzi sono italiani del Nord e così si spiega come il senso atavico latino e quello germanico si sublimino in un insieme perfetto [...]. Cultura del suono; precisione ritmica, sensibilità dinamica. Insuperabile la sicurezza da sonnambuli che consente loro di suonare a memoria, straordinario il dominio e il controllo degli stili".
Unione, o sublimazione di sensi atavici, latino e germanico, in tre ragazzi nati in una terra di confine? Il giomalista stiriano se la cavava con una garbata banalità. Ma le sue osservazioni analitiche erano più acute del suo giudizio sintetico.
L'esecuzione a memoria, che impressionava tutti, in sé non rappresentava, in realtà, un dato essenziale. Suonava a memoria il Quartetto Kolisch, suonava a memoria il Duo Busch-Serkin, avrebbe suonato a memoria il Quartetto Italiano e il Quartetto Smetana, suonavano a memoria tutti i pianisti, in provincia suonavano a memoria l'Aida o la Tosca, con gran divertimento del pubblico, non pochi strumentisti d'orchestra. Certo, c'era una bella differenza tra l'eseguire a memoria una Sonata per pianoforte di Beethoven e l'eseguire a memoria la parte di violoncello in un Trio di Haydn. Però i pianisti mandavano a memoria anche le sezioni dei concerti in cui il pianoforte è integrato nell'orchestra e - oggi, non ieri - suonano a memoria nei tutti dei Concerti di Mozart. L'esecuzione a memoria del Trio di Trieste non valeva dunque tanto in assoluto, quanto per il fatto che i trii più noti erano allora formati da solisti, i quali "mettevano su" il repertorio del trio con poche prove. Con ciò non voglio dire - basti pensare a Cortot, Thibaud e Casals - che i trii formati da solisti fossero approssimativi o che non raggiungessero risultati di elevato valore. Voglio invece far notare come la somma di tre personalità che trovano tra di loro dei punti di equilibrio sia cosa diversa dalla personalità di un trio. E l'esecuzione a memoria era appunto un segno di un lavoro di gruppo e di una simbiosi, la dimostrazione di una entità artistica che non s'affidava alla genialità e all'estro dei singoli componenti ma ad una ascetica disciplina comune.
Il critico di Graz lodava poi la "cultura del suono", la "precisione ritmica", la "sensibilità dinamica".
La cultura del suono è un qualcosa di radicalmente diverso dalla bellezza del suono. La seconda tende a coprire con il suo manto stellato ogni musica, la prima tende a vestire ogni musica con un manto diverso, la seconda è edonistica e mira ad ammaliare, la prima è intellettuale e mira al coinvolgimento dell'ascoltatore. Il paragone fra il Trio di Beethoven e il Trio di Brahms è a questo proposito molto illuminante. La qualità timbrica e la densità del suono sono diverse, diverso è il tipo di "vibrato" degli archi, diverso è il modo in cui il suono del pianoforte raggiunge la sua massima espansione, diverso è il "legato", diversi sono i vari tipi di "staccato", diverse, in una parola, sono le tecniche del suono, con una maggiore pressione degli archi sulle corde e con un maggior impiego del peso del braccio del pianista in Bralmas, con una condotta dell'arco più rapida e con una maggiore mobilità del polso del pianista in Beethoven. E questa è la cultura del suono, il fare del suono non un dato precostituito ma un linguaggio.
La precisione ritmica è un altro carattere essenziale. Il Trio di Trieste risente in questo caso della svolta impressa, nella concezione del ritmo, da Toscanini. Le variazioni del tactus sono minime, il rapporto fra ritmo e misura è molto ravvicinato. Ci si può ben rendere conto di ciò ascoltando lo Scherzo del Trio op. 97 di Beethoven, l'Arciduca, dal Trio di Trieste e dal Trio Cortot-Thibaud-Casals. I primi mantengono un unico tactus per tutta la composizione, i secondi adottano due tactus diversi, collegati da zone di, potrei dire, impressionismo ritmico. Se da questo livello macroscopico scendiamo all'organizzazione delle frasi notiamo che la preparazione dei punti culminanti e la successiva distensione non sono quasi mai ottenute mediante modificazioni agogiche, e le modificazioni agogiche, quando ci sono, hanno il carattere non di allargamento ma di compressione del tempo.
La declamazione del Trio di Trieste, che è ricca, articolatissima, spesso "parlante", punta invece sulla sensibilità dinamica di cui parlava già nel 1942 il critico di Graz. L'accentuazione, sempre molto pastosa, è l'elemento portante della declamazione, che risulta perciò, rapportata alla particolare ritmica, molto fluente e, come dicevo prima, coinvolgente.
Da tutti questi elementi stilistici nascono "il controllo e il dominio degli stili". Il compito dei complessi da camera è a questo proposito molto più difficile di quanto non sia per i pianisti. Il trio con pianoforte, il quartetto d'archi, i duo violino-pianoforte e violoncello-pianoforte non posseggono un repertorio talmente ricco da potersi concentrare soprattutto su un autore o su un periodo storico. Il trio e il quartetto devono partire da Haydn e arrivare fino ai contemporanei, e devono imparare a differenziare gli stili, a diventare degli arlecchini degli stili. Ora, per chi negli anni Trenta studiava a Vienna o a Berlino o a Parigi o a New York, le occasioni di ascoltare grandi interpreti in tutto il repertorio sinfonico e cameristico erano frequenti e numerose. A Trieste si potevano ascoltare concerti cameristici di rilievo, se andava bene, una volta alla settimana o ogni dieci gionrni, e non c'era un'orchestra sinfonica stabile ma solo una programmazione sinfonica stagionale. La ricerca stilistica, per i "provinciali" di Trieste, non nasceva allora dalla conoscenza e dalla imitazione di modelli, ma dalla cultura del suono.
Un certo tipo di suono, scelto per un certo tipo di musica, ha proiezione nell'ambiente solo se viene articolato in un certo modo e non in un altro. Il testo diventa così una specie di fossile che deve esser rivestito di muscoli e di pelle in modo coerente perché possa rivivere e muoversi con naturalezza. Non come pittori che disegnano il rinoceronte avendolo visto, ma come archeologi che il dinosauro lo disegnano avendolo immaginato a partire dal suo scheletro, operavano i ragazzi del Trio di Trieste. Fin dalle loro prime apparizioni in Europa fu chiaro a tutti che le pelli dei dinosauri erano giuste, o per lo meno verosimili, e comunque convincenti. Da Mozart a Mendelssohn, da Beetboven a Schumann, da Schubert a Brahms, da Dvorak a Ravel, la galleria dei dinosauri diventava il parco dei dinosauri, con le pelli chiare e scure, lucide e opache, grigie e brune e verdoline e rosate Fu un miracolo, il primo di quella stagione in cui i complessi italiani di musica da camera conquistarono le platee di tutto il mondo. Poi fu la presa di coscienza di una poetica che venne lucidamente perseguita per mezzo secolo e che viene spiegata con una rara nitidezza di pensiero da De Rosa, in un'intervista pubblicata nel volume della Florit.
Il miracolo, purtroppo, non si è più ripetuto, perché oggi abbiamo vari complessi di valore, ma non un nuovo Trio di Trieste o un nuovo Quartetto Italiano. E non dobbiamo chiederci che cosa è successo adesso, ma che cosa successe allora.
di Piero Rattalino (1994)
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