Federico Incardona (1958-2006) |
Federico Incardona, 48 anni, musicista «novissimo» della fine degli anni Settanta, nostra avanguardia degli anni Ottanta, profeta maudit di una intera generazione di resistenti alla realtà in nome della musica e della sua capacità negatoria, è morto il 29 marzo stroncato da una malattia lunga dolorosa inesorabile che gli aveva scalfito la magia della sua voce. Con lui se ne va un pezzo della nostra vita, della nostra memoria, della nostra speranza.
Datava maggio 2000 il suo ritorno, dopo un periodo «di silenzio intenzionale, studiato», con una prima assoluta Per fretum febbis (per flauto contrabbasso obbligato coro di voci bianche e orchestra) al Politeama su commissione del teatro Massimo, direttore artistico Marco Betta. Era un requiem in memoria del dilettissimo fratello Marco, il frutto di una sofferta elaborazione del lutto. Lì l'idea-maestra e schoenberghiana che ha sempre sorretto la musica di Incardona ovvero della costruzione come espressione vi raggiunge un esito altissimo e lacerante. Larghe fasce sonore, il tipico procedere per accumulazione, per arresti e improvvisi ri-inizi, una struggente Klangfarbenmelodie tra coro-clarinetto contrabbasso infragilita da una sorta di esotismo orientale. Quella sera ascoltando l'opera mi sorpesi a disegnarne un diagramma: una linea che s'innalza precipita si rialza in un tracciato prima disteso poi sempre più serrato in guglie fittissime. Poi un pedale piatto ma sostenuto. In quella composizione, di un catalogo succinto che si ferma ben prima dei quaranta numeri, ma soprattutto nella successiva Nuova opera (titolo provvisorio, per flauto, clarinetto, sax, corno, due violini, viola, violoncello, pianoforte e percussioni) che fu eseguita a Gibellina nel settembre 2002, nell'ambito delle Orestiadi, si fa strada - come sottolineò Incardona - la possibilità di un «linguaggio nuovissmo che procedendo da Mahler e Webern affonda la sua radice nella profondità dell'Etnía». E ancora «di un procedere compositivo ed umano che sia realmente, secondo Kolisch, decifrato da Metzger, rivoluzione permanente come in quanto tradízione perpetua». Federico aveva maturato sempre più l'idea che il ricorso alle fonti popolari più che costituire identità forti e locali per esibire un neofolk più o meno aggiornato o contaminato, servisse ad elaborare il lutto per il danneggiamento della vita con una strategia della memoria-futuro. Questa sua attitudine rafforzava il legame con Mahler che nella musica popolare coglieva la traccia del dolore non risarcito.
Nuova opera che Incardona ha continuato ad «aumentare», concludeva a Gibellina, credo l'ultimo concerto monografico a lui dedicato e impaginato con le due versioni di Mehr Licht!: la prima, per violino e pianoforte del 1986, e la seconda per voce, violino, pianoforte, flauto, clarinetto, corno, violoncello e percussioni del 1989. Proseguiva con Sulla lontananza dell'amico dilettissimo (1986), e si condudeva con il Far della luna (2000, per flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte), e Obliquo di Luna (2000, per voce, flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte), un omaggio a Francesco Pennisi: un cammeo weberniano ma del Webern che trascrive Bach.
Se consideriamo che data ancora 2000 un nuovo trapianto sulla chanson di Ockeghem Malor me bat ed in cui Incardona con Webern e Nono si china su una tradizione radicale e dimenticata, l'inizio del millennio sembrava averci restituito nonostante le tremende difficoltà esistenziali e materiali il musicista. Nel giugno del 2003 con molta imprudenza l'assessore alla cultura Gianni Puglisi comunicò, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Sylvano Bussotti, un punto di riferimento di Incardona, che sarebbero rinate le «Settimane di nuova musica» con Federico direttore artistico. Ci parve una notizia straordinaria. Chi meglio di Incardona che sin dall'89 a Gibellina e poi nei primi anni Novanta a Palermo con Ars Nova aveva organizzato delle gloriose giornate di musica contemporanea dedicate a Cage, a Maderna, ad Evangelisti ma dando spazio con molta generosità a giovanissimi, poteva riprendere quel filo interrottosi nel dicembre del '68? Chi meglio di Incardona poteva spiegare come la memoria divenga utopia se intesa come memoria del futuro? Ma non se ne fece nulla. Una delle tante robinsonate. L'ultima beffa di una città che non ha né saputo né voluto, ad eccezione dei dioscuri dell'Istituto di storia della musica e nel passato dell'Orchestra Sinfonica Siciliana e di pochi amici, capire quanto Federico fosse importante per la città, per la musica, per tutti.
Ha scritto Heinz-Klaus Metzger, una delle più alte coscienze critiche europee: «La forma estetica non è il bene, bensì il veicolo del giudizio su quel che è male... Da dove giungano quei compositori, tremendamente pochi, la cui musica, come quella di Federico Incardona, diviene veicolo del giudizio su quel che è male, come essi nascano, si sviluppino e si innalzino, a volte poi crollando, è difficilmente deducibile da un punto di vista filosofico».
Caro amico, soave sia il vento...Piero Violante (da "I papillons di Brahms", Sellerio, 2009)
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