Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, settembre 19, 2015

Schoenberg: "Moses und Aron", al Covent Garden

Programma libretto
Il merito principale della recente presentazione dell’opera di Schoenberg Moses und Aron risiede essenzialmente nel fatto che si è cercato di porre anzitutto l’accento sull’aspetto dinamico e drammatico del lavoro - il quale in tal modo acquista la sua più propria fisionomia di opera -, invece di limitarsi (come nel caso delle messe in scena precedenti) a una presentazione statica che conferiva ad esso un andamento di oratorio scenico. La cura di evidenziare la progressione drammatica inerente alla partitura ha ispirato al regista, Peter Hall, una serie di movimenti di masse (cori e comparse) molto efficaci che culminano in una realizzazione a volte magistrale (come pure notevolmente spinta e audace nel suo realismo) della grande scena del Vitello d’Oro del seoondo atto. Tutto ciò, ripetiamolo, non può meritare altro che lodi dato che una simile concezione cinetica e altamente drammatica é, a nostro avviso, la sola valevole. A coronamento di ciò, va detto che l'efficacia di questa presentazione ha ricevuto la più concreta conferma, dal momento che le recite del Covent Garden si sono concluse con un vero trionfo. Ben inteso, il fattore principale di questo successo dev’essere ricercato anzitutto nella forza musicale del lavoro. E' essa - anche se, forse, la maggior parte degli spettatori non ne è cosciente - che sorregge lo spettacolo nella sua totalità. D’altra parte, la realizzazione puramente musicale della partitura é di una qualità tale che permette alla musica di manifestarsi in tutta la sua grandezza.Il merito di ciò spetta soprattutto al direttore d’orchestra, il maestro Georg Solti, la cui ambizione é sempre stata - dal mornento in cui ha rivestito la carica di direttore musicale del Covent Garden - quella di presentare al pubblico londinese uno dei capolavori della musica drammatica di tutti i tempia. Tale proposito non é di agevole compimento, e le difficoltà sono tanto di ordine amministrativo quanto di natura prettamente musicale. Sono innanzi tutto le parti corali a presentare un problema tra i più ardui. In effetti il coro, che è uno dei protagonisti principali del dramma, ha bisogno di una preparazione lunga e accurata (nel caso in questione sembra che le prove si siano protratte per più di un anno), e bisogna riconoscere che il risultato ottenuto a Londra è stato di primissimo ordine. Raramente ho ascoltato un coro cantare con tanta proprietà, tanto entusiasmo, tanta scioltezza e sicurezza. E' indiscutibile che anche in questo elemento risiede buona parte del successo delle rappresentazioni londinesi. Ugualmente, non possono che essere lodati anche i diversi solisti: Forbes Robinson, l'interprete di Moses, il quale (anche se per verità avrei preferito qui una voce più potente e buia) svolge il suo ruolo con una grande dignità; Richard Lewis, il quale sostiene la parte così difficile di Aron con grande lirismo (anche lui difetta un po' di forza drammatica); e gli altri ancora, tra i quali vorrei citare Maureen Guy, la donna malata, il cui breve intervento nel secondo atto si è rivelato tra i più degni d’attenzione. L’orchestra, infine, rende nell'insieme una interpretazione sicura e brillante della difficilissima partitura strumentale (peraltro sembrava migliorare ad ogni replica).
Premesso tutto questo, la rappresentazione pone nondimeno alcune questioni che mi sembra interessante discutere. Non si tratta minimamente - anche se delle riserve si impongono - di manifestare una qualsiasi malevolenza e tanto memo di cercare di minimizzare un successo autentico e ampiamente meritato. Ma, data la natura stessa dell’opera - la sua complessità, la sua audacia e la sua novità cosi radicali -, è chiaro che essa solleva di necessità una quantità di problemi, alcuni dei quali non possono ancora, allo stato attuale, ricevere delle risposte interamente adeguate. E' quanto noi desideriamo sia qui del tutto chiaro.
 
Libretto (interpreti 1)
Si è da più parti criticato il fatto che la pubblicità che ha preceduto le rappresentazioni che qui ci interessano sia stata centrata principalmente sulla grande scena del Vitello d’Oro del secondo atto, cercando di attirare il pubblico con l'aspetto erotico della famosa orgia in cui tale scena si conclude. Si è perfino arrivati a dire che è stata unicamente questa pubblicità (e il lato "scandaloso" che essa implica) a determinare il successo dell’impresa.
Io devo dire che, anche se questo fosse vero (e non lo è assolutamente), non vedrei in ciò niente di condannabile. In primo luogo è chiaro che, per attirare un pubblico tanto vasto - conservatore per definizione - a vedere un’opera cosi difficile, bisogna ben trovare e fare qualcosa che possa sedurlo. In secondo luogo, non c’è alcun male a "fare della reclame per una scena altamente spettacolare di un lavoro, se questa scena - poi - si dimostra di un reale e autentico valore musicale e drammatico. Dopo tutto, una seduzione di questo tipo si colloca completamente "nell’ordine delle cose" quando si tratta di arte
lirica. Non è forse vero che la grande maggioranza del pubblico che frequenta 1’opera ci va attratto quasi sempre da elementi spettacolari di questo genere? Infatti: si tratti di alcune celebri "grandi arie", o del sestetto di Lucia, del quartetto di Rigoletto o del quintetto dei Maestri Cantori, di alcuni balletti o della Cavalcata delle Valkirie, non è forse evidente che è proprio il richiamo di questi "pezzi di bravura" a determinare per molti - e d’a1tra parte in modo legittimo - grande parte del successo e della popolarità di un’opera lirica?
Non mi sembra dunque giusto accusare la direzione del Covent Garden di aver fatto una pubblicità di cattiva lega a riguardo di una scena estremamente significativa e molto potente dell’opera di Schoenberg. Un tale rimprovero appare ancor meno meritato quando si tenga conto che la realizzazione di tale scene ha dato luogo a una soluzione teatrale del più alto interesse. Piuttosto, e in senso tutt'altro contrario, mi sembra invece necessario discutere la concezione stessa che ha presieduto a questa realizzazione.
Ecco alcuni elementi della scenografia, quali si trovano "prescritti" nella partitura di Schoenberg. Anzitutto, è detto che ogni sorta di animali (cammelli, asini, cavalli), così come carretti e portatori carichi delle più svariate vettovaglie, devono trovar posto sulla scena; in seguito, si tratta di far ardere grandi bracieri, di versare vini e olii nelle anfore, e addirittura di macellare alcuni animali, ecc.. Più tardi, i prìncipi delle diverse tribù devono arrivare al galoppo su cavalli; infine, scoppia la vera e propria orgia, e allora si tratta di spandere vini, di sacrificare quattro vergini nude e raccogliere il loro sangue, di creare un parossismo di ebbrezza, di morte, di voluttà e di distruzione, ecc..
La regia del Covent Garden ha proceduto qui con un massimo di realismo, ciò che ha portato (lo abbiamo già notato) a soluzioni spesso molto audaci. Inoltre, il movimento scenico è stato ordinato cosi efficacemente che l'interesse dello spettatore non è mai venuto meno. Purtuttavia, non ci si può esimere - malgrado la riuscita di questa realizzazione - di porre in questione la validità della stessa concezione di una simile concezione scenografica.
In effetti, ricercare il massimo di realismo, può sembrare cosa valida soprattutto se si pensa al progresso qui compiuto nei confronti delle precedenti messe in scena dell’opera (quelle di Zurigo e di Berlino, che volevano essere "stilizzate" e non pervenivano che a una presentazione statica, accademica e smorta di questo momento del dramma). Ma, a ben guardare, non vi è anche qui una contraddizione, un compromesso, una vera e propria impasse? Mi spiego: è fuori dubbio la tentazione di spingere il realismo della scena in questione quanto più lontano sia possibile, proprio perché ciò permette di "drammatizzarla" in modo violento, il che rientra completamente nel suo proprio carattere. Tuttavia, rimane inteso che questo realismo dovrà ben arrestarsi in qualche parte, che vi è un limite al di la del quale non si potrà procedere, giacché il realismo totale non può essere realizzato in qualsivoglia scena di teatro. Se dunque esiste un punto limite a questo riguardo, diviene
evidente che una concezione realistica porta in sé - dall’origine - una contraddizione, 1'assoluta necessità di pervenire a un compromesso, e che essa non può portare che a una impasse.
Mi si potrà obiettare, probabilmente, che questo stesso problema si pone, come questione generale, per tutta l’opera teatrale; che il tutto è fatto per creare delle illusioni e che il realismo assoluto è sempre allo stesso modo inconcepibile per qualsiasi dramma o opera. Moses und Aron non verrebbe dunque a costituire una eccezione, a questo riguardo. Molto bene; tuttavia una simile obiezione non è a mio avviso del tutto valida. In primo luogo, Moses und Aron richiede una quantità maggiore di illusioni che non sia il caso della maggior parte delle opere; ma soprattutto, l'illusione principale che qui si esige e quella de1l’erotismo allo stato bruto, se posso esprimermi in questo modo. E' evidente che questa illusione e - a considerare le cose nel merito - del tutto irrealizzabile in modo realistico. So bene che un assassinio sulla scena, tal quale ci viene mostrato in migliaia di lavori teatrali, non è neppur esso un assassinio vero e proprio; resta tuttavia il fatto che in tale caso si può creare una illusione d'assassinio con dei gesti del tutto realistici (e anzi, più sono realistici più la scena guadagnerà in efficacia), mentre un consimile realismo s’avverte di necessità escluso dalla creazione dell'illusione erotica. D'altra parte, sembra anche che lo sforzo più costante della storia della scenografia (dai suoi inizi a oggi) è stato di creare precisamente delle illusioni, e questo stesso termine non si sposa in alcun modo all’idea realistica, qualsiasi essa sia. Mi sembra anzi possibile affermare che abbiamo qui a che fare con due termini profondamente contraddittori, con due antinomie che reciprocamente si escludono.
Si comprenderà, adesso, la nostra critica a proposito della recente presentazione londinese del Moses und Aron. Ancora una volta: senza voler minimizzare il suo valore, il suo interesse e la sua efficacia dobbiamo ugualmente affermare che essa non realizza ancora che una approssimazione, una tappa (molto significativa e già assai avanzata, senza dubbio), sulla strada che presto o tardi porterà a una soluzione ancora più soddisfacente e completa.
 
Libretto (interpreti 2)
Se è indubbiamente vero che buona parte del pubblico è stato richiamato al Covent Garden dal chiasso fatto attorno alla scena del Vitello d’Oro, è altrettanto vero che il successo di queste rappresentazioni non può unicamente attribuirsi alla seduzione che emana da quella scena. Ho potuto osservare parecchie volte al termine del primo atto (il quale, come si sa, non presenta alcun elemento "scandaloso", e non è stato oggetto di alcun rumore pubblicitario) che la maggior parte delle persone erano profondamente commosse e interessate da quanto avevano visto e ascoltato. Alla stessa maniera, la grande scena della disperazione di Moses, che concluse il secondo atto, non ha mancato di produrre una impressione profonda su tutto l’uditorio. Tutto ciò significa che la realizzazione scenica e musicale non si è concentrata su un solo punto dell’opera, ma si e prodigata con successo in tutto il corso di essa.
Abbiamo detto, all’inizio di queste note, che il merito principale dello spettacolo risiedeva nello sforzo dinamico e drammatico messo in opera, ed è fuori dubbio che, considerato nel suo aspetto globale, esso costituisce un reale progresso in confronto alle realizzazioni che l'anno preceduto. Affermato ciò, abbiamo anche qui bisogno di avanzare alcune riserve che mi sembrano importanti, giacché esse indicano una serie di problemi ancora imperfettamente risolti.
La critica principale che si impone a nostro parere, riguarda l’esatto rapporto che regola gli eventi scenici e musicali; la correlazione, cioè, tra gli elementi visivi e quelli auditivi. Noi abbiamo potuto osservare alcune discrepanze - e talora anche una certa disgiunzione - tra questi diversi elementi, il che fa sì che i rapporti e le correlazioni cui alludiamo non sempre si siano potuti stabilire in modo convincente e soddisfacente. Sin dalla prima scena abbiamo potuto avvertire un grave squilibrio. Moses è solo sulla scena. Ode la voce di Dio espressa, da una parte, da un insieme di sei cantanti solisti posti nella fossa dell’orchestra, e dall’altra parte, da un coro parlato (la voce del rovo ardente), posto dietro la scena. L'effetto principale che si deve ottenere qui è quello di un forte contrasto al tempo stesso visivo e uditivo. Noi vediamo Moses, ma non vediamo i cantanti solisti ne il coro. Dal punto di vista scenico, com’è ovvio, non vi sono difficoltà. Sfortunatamente, la realizzazione musicale, che dovrebbe adeguarsi completamente al contrasto visivo, non è stata all’altezza del suo compito. La voce di Moses deve arrivarci chiaramente e distintamente (in modo "realistico", cioè), ciò che in effetti si è verificato; per contro, le voci dei solisti e del coro devono essere come "velate", misteriose e distanti (completamente "irreali"). Ora, quest’ultimo effetto non è stato assolutamente raggiunto. I sei solisti, intanto, venivano avvertiti come troppo "presenti", e ciò essenzialmente per un eccessivo livello della loro emissione vocale. In tal modo le loro voci non arrivavano a mescolarsi in maniera sufficientemente intima con gli strumenti che suonano all’unisono con loro. In effetti, queste sei voci, soprano, mezzo soprano, contralto, tenore, baritone e basso, si trovano costantemente accompagnate all'unisono da sei strumenti, rispettivamente: flauto, clarinetto, corno inglese, fagotto, clarinetto basso, violoncello solo. Questo accompagnamento non ha soltanto la funzione di facilitare la intonazione dei cantanti, ma soprattutto quella di neutralizzarne e spersonalizzarne il timbro (di conferirgli, precisamente, una qualità "irreale"). Per parte sua, il coro situato dietro la scena, e le cui voci ci pervengono attraverso un mezzo d’amplificazione meccanica, aveva anch’esso una qualità troppo "presente" (emissione troppo forte, e troppo "realistica"), che gli toglieva ogni senso di mistero e  distanza. Il tutto faceva sì che, musicalmente, il contrasto scenico tra il visibile e l’invisibile non riceveva un adeguato rilievo. Mi domando d'altra parte se l'amplificazione meccanica del coro - proposta, è vero, dallo stesso Schoenberg come una delle soluzioni possibili - costituisca veramente la soluzione ideale, o se non sarebbe più conveniente cercare un mezzo di realizzazione acustica del tutto diverso.
Un altro elemento ancora, che m’è sembrato molto spiacevole, ha rapporto con la funzione del sipario. Non ho ben capito la ragione per cui si è preferito illuminare e abbuiare la scena, anziché alzare o calare il sipario, effettuando questi due effetti di luce sempre a sipario levato. Mi sembra che in questo caso è la sezione scenica che non arriva a sottolineare in modo adeguato il discorso musicale. In effetti, noi assistiamo (all’inizio) all’alzarsi del sipario prima ancora che la musica abbia iniziato a farsi sentire, ciò che ci toglie in buona misura l’effetto di "inizio". Schoenberg prescrive l’alzarsi del sipario alla sesta battuta della partitura, ciò che mi sembra molto più opportuno, dato che soltanto in questo momento la scena deve rivelarcisi in senso visivo. Devo dire che la semplice illuminazione della scena (anche se si parte dall'oscurità assoluta) non rende lo stesso effetto, giacché il levarsi del sipario percepito alcuni istanti prima ci ha in qualche modo guastato la sorpresa. Alla stessa maniera, io avrei preferito la discesa del telone dopo la prima scena e soprattutto al termine della seconda, ciò che avrebbe conferito all’azione un significato molto più  "definitivo" (quale viene espresso dalla musica con la massima chiarezza), che invece non viene raggiunto dal semplice abbuiamento. La stessa critica vale per il meraviglioso interludio corale che precede il secondo atto e che - secondo l’indicazione di Schoenberg - deve essere eseguito davanti al sipario abbassato. L’angoscia espressa in questo momento del dramma non può invero manifestarsi che in questo modo, dato che il sipario alzato, in definitiva, ci lascia percepire o almeno indovinare (malgrado il buio) lo spazio scenico, ciò che viene a situare questo momento espressivo in maniera troppo precisa.
Più grave ancora mi sembra la questione che segue. Si è presa 1’abitudine di introdurre un certo numero di pause, di sospensioni, durante lo svolgimento della musica, la maggior parte delle quali non sono per nulla indicate nella partitura. A dire il veto il numero di queste cesure è cosi elevato che esse finiscono per spezzettare il discorso musicale e per privarci di quella continuità drammatica che la regia pure si sforza di realizzare. Ecco un esempio - tra i tanti - particolarmente fastidioso. Si tratta della sospensione (abbastanza pronunciata e che non è affatto indicata nella partitura) che viene praticata tra le battute 334 e 335 del primo atto. Due cantanti solisti stanno terminando (battuta 334) una importante sezione di un pezzo in forma di trio vocale, quello al quale il coro risponde (battuta 335) interrompendo tale trio, il quale non verrà concluso che più oltre (dopo l’intervento del coro). Il contrasto tra questi due elementi viene interamente realizzato dalla subita violenza dell’entrata del coro, sottolineata da un tempo un po’ dilatato (etwas breiter, ci dice la partitura, l'unità della misura essendo sul momento uguale a 100 rispetto al 132
precedente). Purtroppo, questo effetto di violento contrasto viene ad essere annullato (o, per lo memo, affievolito) dalla sospensione in questione, che non fa che interrompere la continuità drammatica.
In un altro ordine di considerazioni, ho avuto modo di rammaricarmi di alcune interpretazioni del tempo che mi sono sembrate erronee. Una di queste (secondo atto, battute 151-165) sminuisce seriamente un nuovo effetto di estrema violenza. Aron viene a dire al popolo (battuta 148) che Moses è stato probabilmente ucciso dal suo Dio e il coro, subito dopo, deve esprimere un intenso sentimento di terrore. Questo viene realizzato da una assai brusca accelerazione del tempo (battute 149-150) che deve portare a un movimento molto rapido (sehr rasch, con la minima uguale a 90) nelle battute che ci interessano. E, a mio parere, veramente spiacevole che queste battute siano state eseguite con tempo in rapporto alla semiminima e non alla minima ("alla breve"), giacché il tempo troppo lento così ottenuto non è riuscito a manifestare in modo compiuto l'agitazione e il terrore, che la messa in scena cercava di trasmetterci.
Se è vero che si potrebbero citare ancora altri esempi di difetti analoghi, rimane il fatto che nell’insieme l'esecuzione musicale si è situata a un livello molto elevato. Così pure, a questo stesso livello, devono essere intese le nostre critiche. Ancora una volta: non era nostra intenzione sottovalutare uno sforzo che ci è sembrato ammirevole; speriamo così di non aver fatto la figura del pedante. Ma ci sembra giusto ripetere questo: Moses und Aron è una delle opere più difficili e più complesse del repertorio lirico; inoltre, essa non figura che da assai breve tempo in tale repertorio. Non è evidente, dato ciò, che essa ha ancora necessariamente del "cammino da fare", prima di arrivare a una realizzazione completamente integrata su tutti i piani? Non è ovvio che, per arrivare a un simile risultato, occorre che gli sforzi si moltiplichino, molto di più di quanto è stato fatto fino a oggi?
Abbiamo cercato di indicate alcuni punti, prendendo coscienza dei quali ci si può e ci si deve, a nostro parere, aiutare a chiarire la strada ancora lunga che rimane da percorrere. E' confortante e incoraggiante aver avuto la possibilità di assistere a rappresentazioni come quelle del Covent Garden le quali, su tale strada, costituiscono già un punto d’arrivo e di partenza del più grande rilievo.
René Leibowitz
("L'Approdo Musicale", numero 21 , ERI, 1966)

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