Marco Angius (1975) |
Direttore
di riferimento per il repertorio contemporaneo, Marco Angius è stato
nominato Direttore Musicale dell’Orchestra di Padova e del Veneto:
occasione ghiotta per una chiacchierata a tutto tondo.
Come si coniuga la sua ormai lunga esperienza nella musica del ’900 e contemporanea con l’incarico di direttore artistico e musicale della OPV, Orchestra di Padova e del Veneto, formazione che negli anni si è cimentata per lo più con il repertorio Sette-Ottocentesco?
Penso che per l’Orchestra sia il segnale di un ampliamento di prospettive musicali e per me un’occasione straordinaria di arricchimento artistico. Quanto al repertorio, l’Opv ha già partecipato alla Biennale di Venezia e ospitato diverse prime assolute nei suoi programmi. Inoltre abbiamo recentemente inciso musiche di Dall’Ongaro (Checkpoint) e L’Arte della fuga orchestrata da Scherchen, una versione di raro ascolto che ripercorre il Novecento attraverso le fughe di Bach strumentate in modo inaudito e che rovescia l’abituale concetto di musica antica rispetto a quella attuale (un’indagine che mi sta molto a cuore anche nella programmazione).
Quali saranno le scelte artistiche e di repertorio che fara` alla testa dell’OPV? Ci sono dei progetti musicali che le stanno a cuore?
Come annunciato più volte, la mia intenzione è di proporre una visione attiva della musica contemporanea perché non basta più programmare pezzi nuovi – magari anche con buoni propositi – né condannare il pubblico all’ascolto forzato; bisogna piuttosto (far) riscoprire il piacere di eventi musicali attraenti e strutturati. Mi occupo di musica contemporanea da tanti anni e ho dedicato tutte le mie energie a questo repertorio che non sopporto veder ghettizzato o perfino tollerato rispetto al repertorio classico (che a sua volta viene molto spesso eseguito di routine). Cerco dunque di costruire programmi che rappresentino un percorso nel suono e nella storia, che abbiano una logica rigorosa e siano leggibili in modo molteplice. Per questo ho chiamato Sciarrino come primo compositore in residenza e mi auguro di ripetere l’esperienza anche in futuro con altri compositori. Nella Stagione, inoltre, è presente un percorso Mahler con la Prima, Seconda e Decima (in versioni rielaborate) che continuerà anche in quella successiva ma al rovescio (ossia Mahler che ritocca autori del passato); sia pur nei limiti di una programmazione parziale della stagione in corso, sono riuscito a inserire una prima italiana di Stravinski (le strumentazioni del Clavicembalo ben temperato del 1969), oltre a Petrassi, Berio, Dallapiccola... al centro del mio orientamento vi è la rilettura del passato attraverso il presente con compositori che si rispondono a distanza, ibridi stilistici, spossessamento dell’autenticità unica della partitura rispetto all’opera.
I quasi vent’anni, dal 1983 al 2001, in cui il grande Peter Maag fu a capo dell’orchestra ne hanno segnato indelebilmente il profilo: pensa che tradizione e innovazione possano facilmente coniugarsi?
Tutt’altro che facilmente, direi, ma sono pure possibili percorsi alternativi, sguardi da angolazioni differenti. La tradizione è spesso un alibi per giustificare scelte artistiche standardizzate e in qualche modo accettate supinamente da pubblico e musicisti: ciò si nota nella mania di sistematizzare il repertorio, di porlo in una collocazione museale. Da museo delle cere, però. Faccio un esempio: dopo aver ascoltato l’Orfeo di Monteverdi orchestrato da Respighi e Maderna, oppure Giacomo Carissimi ristrumentato da Henze (formidabile lo Jephte!), Couperin rielaborato da Adès o lo stesso Bach/Webern, è difficile tornare agli originali con la stessa innocente meraviglia. Naturalmente è fondamentale documentarsi sulla prassi esecutiva di ogni epoca ma il passato si può solo reinventare e non ce lo restituirà nessun processo/restauro conservativo. Per questo andrebbe aggiornata sia l’idea di repertorio che quella di nuova musica e, in ogni caso, per quel che riguarda il contesto dell’Opv dovrà essere prima di tutto un orientamento condiviso con l’Orchestra: se le mie scelte troveranno riscontro e sostegno da parte dei Professori anche il pubblico le recepirà, come del resto sta già accadendo.
Pensa di affrontare anche il repertorio lirico, cui l’OPV si accosta annualmente nella stagione del Teatro Verdi di Padova e nella provincia veneta?
In linea di massima ritengo che sia essenziale per la crescita di un’orchestra confrontarsi con tutto il repertorio, pur nel rispetto della dimensione eminentemente sinfonica dell’Opv e della sua storia. Vorrei, in tal senso, andare oltre l’orchestra di servizio e individuare altre possibilità di coproduzione rispetto a quanto fatto negli ultimi anni; bisogna trovare, secondo me, un maggior coraggio nelle scelte artistiche, una filosofia diversa che mostri un percorso individuato e non affianchi un titolo a un altro solo per rispondere a criteri opportunistici (l’esigenza di risparmio non si giustifica con scelte scialbe e inflazionate).
Sono in programma anche registrazioni discografiche con l’OPV?
Naturalmente. Quella in corso e in più tappe riguarda il primo avvento della dodecafonia in Italia con Luigi Dallapiccola e Camillo Togni. Del primo registreremo il Piccolo Concerto per Muriel Couvreux e An Mathilde; del secondo la prima mondiale di Variazioni op. 27 per pianoforte e orchestra (scritte per Benedetti Michelangeli e, dopo la recente riscoperta, in corso di edizione critica) insieme a Helian (da Trakl). In entrambi i casi i solisti saranno il pianista Aldo Orvieto e la soprano Livia Rado.
Quali sono i suoi punti di riferimento per la direzione d’orchestra?
Guardo con curiosità e attenzione al presente e al passato. All’inizio ho citato Scherchen ma ovviamente sono tanti i direttori da cui c’è sempre da imparare, grandi nomi e nomi meno noti. Lei faceva riferimento a Maag e trovo che la sua eredità andrebbe riconsiderata e studiata. In particolare m’interessano le figure innovative, anti-routine, quelle che arricchiscono la storia dell’interpretazione e non seguono percorsi gia` tracciati. Ma più di tutti è l’orchestra il mio vero maestro, un universo da riscoprire ogni volta migliorando le proprie capacità di ascolto in tempo reale. E` fondamentale esplorare gli abissi della composizione musicale partendo non dalla partitura ma dall’altra estremità, quella che avvicina il suono al significato recondito del far musica insieme.
E i suoi riferimenti musicali?
Ho iniziato dirigendo soprattutto piccoli organici ma con opere ipercomplesse eseguite da musicisti eccellenti: Boulez, Ferneyhough, Stockhausen, fino alle generazioni più giovani. Posso dire che, dopo tanta gavetta di ensemble e di centinaia di opere prime, il vero battesimo del fuoco sia avvenuto con l’OSN Rai di Torino nel 2006, durante una delle prime edizioni di Rai Nuova Musica, un’iniziativa dovuta all’acume di Daniele Spini. Ora sto ampliando il repertorio non solo in senso cronologico ma soprattutto interpretativo e senza barriere concettuali. Dopo anni di integralismo intransigente e adorniano sto scoprendo un rinnovato interesse per il teatro musicale, secondo me la grande chance futura per la musica contemporanea. Talvolta si riesce a innovare radicalmente se si proviene da una prospettiva aliena rispetto all’oggetto sonoro che si intende decodificare: Boulez ha insegnato molto in questa direzione quando si è volto al repertorio storico. Altrimenti si resta schiacciati dalla tradizione che, ripeto, è un concetto fuorviante, consolatorio quanto si vuole, ma assuefatto e ipertrofico. Con la contemporanea si è solo parzialmente al riparo dalla routine perché si lavora quasi sempre di prima mano.
I suoi progetti futuri fuori del Veneto?
Con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino festeggio 10 anni di collaborazione e di avventure sonore spericolate, sigla di un affiatamento artistico e umano davvero speciale. Gli appuntamenti con l’Osn riguarderanno la musica contemporanea e il Novecento storico; poi c’e` il Comunale di Bologna, istituzione con cui coltivo un rapporto felice e continuativo, per una nuova produzione di Luci mie traditrici con la regia di Flimm e alcuni progetti su compositori d’oggi.
Stefano Pagliantini ("Musica", n.273, febbraio 2016)
Come si coniuga la sua ormai lunga esperienza nella musica del ’900 e contemporanea con l’incarico di direttore artistico e musicale della OPV, Orchestra di Padova e del Veneto, formazione che negli anni si è cimentata per lo più con il repertorio Sette-Ottocentesco?
Penso che per l’Orchestra sia il segnale di un ampliamento di prospettive musicali e per me un’occasione straordinaria di arricchimento artistico. Quanto al repertorio, l’Opv ha già partecipato alla Biennale di Venezia e ospitato diverse prime assolute nei suoi programmi. Inoltre abbiamo recentemente inciso musiche di Dall’Ongaro (Checkpoint) e L’Arte della fuga orchestrata da Scherchen, una versione di raro ascolto che ripercorre il Novecento attraverso le fughe di Bach strumentate in modo inaudito e che rovescia l’abituale concetto di musica antica rispetto a quella attuale (un’indagine che mi sta molto a cuore anche nella programmazione).
Quali saranno le scelte artistiche e di repertorio che fara` alla testa dell’OPV? Ci sono dei progetti musicali che le stanno a cuore?
Come annunciato più volte, la mia intenzione è di proporre una visione attiva della musica contemporanea perché non basta più programmare pezzi nuovi – magari anche con buoni propositi – né condannare il pubblico all’ascolto forzato; bisogna piuttosto (far) riscoprire il piacere di eventi musicali attraenti e strutturati. Mi occupo di musica contemporanea da tanti anni e ho dedicato tutte le mie energie a questo repertorio che non sopporto veder ghettizzato o perfino tollerato rispetto al repertorio classico (che a sua volta viene molto spesso eseguito di routine). Cerco dunque di costruire programmi che rappresentino un percorso nel suono e nella storia, che abbiano una logica rigorosa e siano leggibili in modo molteplice. Per questo ho chiamato Sciarrino come primo compositore in residenza e mi auguro di ripetere l’esperienza anche in futuro con altri compositori. Nella Stagione, inoltre, è presente un percorso Mahler con la Prima, Seconda e Decima (in versioni rielaborate) che continuerà anche in quella successiva ma al rovescio (ossia Mahler che ritocca autori del passato); sia pur nei limiti di una programmazione parziale della stagione in corso, sono riuscito a inserire una prima italiana di Stravinski (le strumentazioni del Clavicembalo ben temperato del 1969), oltre a Petrassi, Berio, Dallapiccola... al centro del mio orientamento vi è la rilettura del passato attraverso il presente con compositori che si rispondono a distanza, ibridi stilistici, spossessamento dell’autenticità unica della partitura rispetto all’opera.
I quasi vent’anni, dal 1983 al 2001, in cui il grande Peter Maag fu a capo dell’orchestra ne hanno segnato indelebilmente il profilo: pensa che tradizione e innovazione possano facilmente coniugarsi?
Tutt’altro che facilmente, direi, ma sono pure possibili percorsi alternativi, sguardi da angolazioni differenti. La tradizione è spesso un alibi per giustificare scelte artistiche standardizzate e in qualche modo accettate supinamente da pubblico e musicisti: ciò si nota nella mania di sistematizzare il repertorio, di porlo in una collocazione museale. Da museo delle cere, però. Faccio un esempio: dopo aver ascoltato l’Orfeo di Monteverdi orchestrato da Respighi e Maderna, oppure Giacomo Carissimi ristrumentato da Henze (formidabile lo Jephte!), Couperin rielaborato da Adès o lo stesso Bach/Webern, è difficile tornare agli originali con la stessa innocente meraviglia. Naturalmente è fondamentale documentarsi sulla prassi esecutiva di ogni epoca ma il passato si può solo reinventare e non ce lo restituirà nessun processo/restauro conservativo. Per questo andrebbe aggiornata sia l’idea di repertorio che quella di nuova musica e, in ogni caso, per quel che riguarda il contesto dell’Opv dovrà essere prima di tutto un orientamento condiviso con l’Orchestra: se le mie scelte troveranno riscontro e sostegno da parte dei Professori anche il pubblico le recepirà, come del resto sta già accadendo.
Pensa di affrontare anche il repertorio lirico, cui l’OPV si accosta annualmente nella stagione del Teatro Verdi di Padova e nella provincia veneta?
In linea di massima ritengo che sia essenziale per la crescita di un’orchestra confrontarsi con tutto il repertorio, pur nel rispetto della dimensione eminentemente sinfonica dell’Opv e della sua storia. Vorrei, in tal senso, andare oltre l’orchestra di servizio e individuare altre possibilità di coproduzione rispetto a quanto fatto negli ultimi anni; bisogna trovare, secondo me, un maggior coraggio nelle scelte artistiche, una filosofia diversa che mostri un percorso individuato e non affianchi un titolo a un altro solo per rispondere a criteri opportunistici (l’esigenza di risparmio non si giustifica con scelte scialbe e inflazionate).
Sono in programma anche registrazioni discografiche con l’OPV?
Naturalmente. Quella in corso e in più tappe riguarda il primo avvento della dodecafonia in Italia con Luigi Dallapiccola e Camillo Togni. Del primo registreremo il Piccolo Concerto per Muriel Couvreux e An Mathilde; del secondo la prima mondiale di Variazioni op. 27 per pianoforte e orchestra (scritte per Benedetti Michelangeli e, dopo la recente riscoperta, in corso di edizione critica) insieme a Helian (da Trakl). In entrambi i casi i solisti saranno il pianista Aldo Orvieto e la soprano Livia Rado.
Quali sono i suoi punti di riferimento per la direzione d’orchestra?
Guardo con curiosità e attenzione al presente e al passato. All’inizio ho citato Scherchen ma ovviamente sono tanti i direttori da cui c’è sempre da imparare, grandi nomi e nomi meno noti. Lei faceva riferimento a Maag e trovo che la sua eredità andrebbe riconsiderata e studiata. In particolare m’interessano le figure innovative, anti-routine, quelle che arricchiscono la storia dell’interpretazione e non seguono percorsi gia` tracciati. Ma più di tutti è l’orchestra il mio vero maestro, un universo da riscoprire ogni volta migliorando le proprie capacità di ascolto in tempo reale. E` fondamentale esplorare gli abissi della composizione musicale partendo non dalla partitura ma dall’altra estremità, quella che avvicina il suono al significato recondito del far musica insieme.
E i suoi riferimenti musicali?
Ho iniziato dirigendo soprattutto piccoli organici ma con opere ipercomplesse eseguite da musicisti eccellenti: Boulez, Ferneyhough, Stockhausen, fino alle generazioni più giovani. Posso dire che, dopo tanta gavetta di ensemble e di centinaia di opere prime, il vero battesimo del fuoco sia avvenuto con l’OSN Rai di Torino nel 2006, durante una delle prime edizioni di Rai Nuova Musica, un’iniziativa dovuta all’acume di Daniele Spini. Ora sto ampliando il repertorio non solo in senso cronologico ma soprattutto interpretativo e senza barriere concettuali. Dopo anni di integralismo intransigente e adorniano sto scoprendo un rinnovato interesse per il teatro musicale, secondo me la grande chance futura per la musica contemporanea. Talvolta si riesce a innovare radicalmente se si proviene da una prospettiva aliena rispetto all’oggetto sonoro che si intende decodificare: Boulez ha insegnato molto in questa direzione quando si è volto al repertorio storico. Altrimenti si resta schiacciati dalla tradizione che, ripeto, è un concetto fuorviante, consolatorio quanto si vuole, ma assuefatto e ipertrofico. Con la contemporanea si è solo parzialmente al riparo dalla routine perché si lavora quasi sempre di prima mano.
I suoi progetti futuri fuori del Veneto?
Con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino festeggio 10 anni di collaborazione e di avventure sonore spericolate, sigla di un affiatamento artistico e umano davvero speciale. Gli appuntamenti con l’Osn riguarderanno la musica contemporanea e il Novecento storico; poi c’e` il Comunale di Bologna, istituzione con cui coltivo un rapporto felice e continuativo, per una nuova produzione di Luci mie traditrici con la regia di Flimm e alcuni progetti su compositori d’oggi.
Stefano Pagliantini ("Musica", n.273, febbraio 2016)
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