Ella Adaïewsky (1846-1926) |
Tuttavia, l’argomento, per più di un motivo, mi attrae molto. Quindi mi pongo nella condizione di un postulante che chiede udienza e, poiché si trova fra amici, sa che lo perdoneranno. Parto da un piccolo episodio autobiografico, che però non è esibizionistico. Nel 1991 a Catania, durante un convegno belliniano, fui a pranzo vicino di tavola di una bella signora bionda molto amabile, la quale mi disse di chiamarsi Elsa Ariè di essere la vedova del celebre basso Raffaele Ariè bellissima voce, splendida presenza scenica, morto allora da alcuni anni, protagonista di memorabili spettacoli d’opera, cantante di straordinaria evidenza drammatica.
Del quale io possedevo molte incisioni e che avevo già ascoltato nel settembre del 1951 a Venezia, alla prima esecuzione di The Rake’s Progress di Stravinskij, quando avevo 15 anni ed ero fuggito di casa per andare a sentire appunto La carriera di un libertino. (Preferisco stendere un velo pietoso su quello che successe quando tornai a Gorizia: un mese di punizioni severe...).
Questa signora, che subito mi deliziò rivelandomi piacevoli ricordi, mi disse di essere la figlia di Benno Geiger. Il che crea un primo rapporto, sia pure lontano, con il nostro argomento. Io sapevo benissimo chi fosse Benno Geiger: era una figura che mi aveva incuriosito e di cui avevo trovato alcuni scritti in lingua tedesca.
La signora Ariè Geiger mi invitò poi a casa sua più volte e mi fece vedere molte carte e molti oggetti appartenenti al marito, ma anche alla sua famiglia. Mi consegnò anche il manoscritto di quelle che poi sono diventate le Memorie di un veneziano. Allora la mia casa editrice era la Rusconi: mi venne l’idea di proporre una nuova edizione, magari una ristampa dell’esistente traduzione uscita per Vallecchi.
Però la dirigenza della Rusconi era mutata: la casa si avviava già verso la decadenza. Ricevetti dei garbati assensi che non approdarono a nulla; mi rivolsi poi discretamente ad altri editori, ma non se ne fece nulla. Eppure io ero profondamente convinto dell’assoluta importanza documentaria di questo vastissimo memoriale, per via dell’incredibile e fittissimo tessuto di relazioni tra diverse discipline, tra diverse arti (Geiger, com’è stato ricordato, era un critico d’arte fondamentalmente, ma anche un delizioso scrittore) e soprattutto per l’internazionalità del quadro che ne derivava, e che smentiva la tradizione rondista-solariana della memorialistica italiana. Il fatto che questo libro non fosse stato preso in considerazione mi imbarazzò molto nel continuare i miei rapporti con la signora Ariè Geiger, i quali, senza essere interrotti, si allentarono un po’ alla volta, molto cortesemente, fino a spegnersi qualche modo, tant’è che non ebbi più particolari notizie di questa persona, della quale mi è tornato alla mente il caro ricordo nella presente occasione.
Durante le conversazioni con la signora Geiger, venne alla luce il nome della Adaïewsky. Lo ho ricordato a posteriori: quando me ne parlò l’amico Umberto Berti risposi: “No, non la conosco”. Il fatto è che Berti me la nominò come compositrice. E allora, per quella strana selezione linguistica-lessicale che diventa poi una selezione concettuale, io non vidi quel nome, poiché sapevo della Adaïwsky in quanto etnomusicologa. Devo dire che non ne sapevo molto, ne sapevo quasi nulla, però avrei saputo certamente individuarla. Ho avuto modo di avere sotto gli occhi alcune sue musiche anche molto importanti, fra cui la Griechische Sonate, dei Lieder, composizioni pianistiche, anche se molto c’è ancora da cercare e da indagare, non soltanto da possedere, ma anche da scoprire, immagino.
Ho letto con la massima attenzione il libro cui la prof. Spinozzi alludeva prima, cioè il libro di Renate Hüsken, che è veramente eccellente, un libro esemplare, penso che difficilmente possa essere per due o tre generazioni superato come compiutezza. È la tipica tesi di dottorato, che allinea materiali in modo molto ordinato e lascia al lettore il compito di rielaborarli. Penso che dovrebbe essere proprio una delle personalità scientifiche che ho ascoltato oggi con grande ammirazione a scrivere un saggio che li ricostruisca, perché questo della Hüsken è volutamente destrutturato. Ripeto: il costume universitario vuole, soprattutto da un dottorando, che ci sia un’onestissima esibizione dei materiali che sono serviti per il lavoro. Guai a permettersi di salire di qualche gradino nella rielaborazione: questo spetta a persone più mature, anziane, autorevoli. Comunque, il libro è eccellente, pieno di notizie molto precise. Allora io vorrei, sulla base della mia ignoranza totale, ripetere come un pappagallo quello che ho imparato, ma soprattutto quello che ho selezionato e che serve alla mia riflessione, poiché il titolo del mio modestissimo intervento è quello di una riflessione, non di un’esposizione di alto rilievo culturale, come quelle svolte finora (lo dico con sincera e autentica ammirazione).
Si parla di microstoria, ma ben vengano i microcosmi, ben vengano le microstrutture dove forse il macrocosmo ha l’unica speranza di rigenerarsi. Laddove il macrocosmo non funziona, le stesse strutture in microdimensioni riprendono miracolosamente ad attivarsi, quindi è lì che si deve ritornare, lì e allora, se vogliamo, qui, in luoghi come questo. Non nego che quando dico in luoghi come questo in me gioca anche la gravità del natio loco, il fatto di essere nato più o meno da queste parti, di avere dei parenti a pochi chilometri di distanza, di avere dei genitori che venivano a passare le vacanze a Tarcento, che mi raccontavano durante la guerra, quando non si facevano vacanze e si era sfollati: “Ah, Tarcento, Tarcento, luogo di delizie!”, di essere venuto anch’io a Tarcento qualche tempo e di avere durante la guerra avuto per un attimo la speranza di andarvi con i miei genitori nel 1941-42. Finalmente poi non se ne fece nulla e si andò invece, essendo mio padre capitano medico, durante la guerra, a Sušk-Tersatto, dove abitammo vicino al castello. (A questo proposito, qualcuno mi deve spiegare se i Frangipane di Tersatto sono gli stessi di Tarcento). Posso dire subito che quest’opzione, che in fondo costò solo pochi chilometri di differenza verso sud est, mi porta a una riflessione: questa nostra regione, che dopo la seconda guerra mondiale è stata ricomposta o aggregata in modo arbitrario con il nome di Friuli Venezia Giulia, questa meravigliosa regione emoziona me, emoziona tutti noi, per il fatto di passare attraverso un paesaggio bilingue, di vedere scritto Tarcento-Tarcint, Udine-Udin, il che indica una speranza d’Europa.
Io ogni giorno sento cadere le mie speranze d’Europa, non soltanto perché la Costituzione europea non viene votata da questo o da quello Stato nazionale sovrano, non soltanto perché l’euro viene continuamente accusato (mentre a me tutto sommato non dispiace, ora che finalmente si passa in Austria senza vedere ceffi con la divisa e dogane, quelle ignobili farse che permettono agli uomini d’ordine, genia odiosa, di gonfiare i muscoli solo perché portano i galloni sul berretto); ma anche perché purtroppo vedo l’Europa diventare di giorno in giorno sempre più vile, sempre più vergognosa di essere ciò che è sempre più incline a chiedere scusa di ciò che è mentre io ho una forte speranza d’Europa, e penso che queste speranze d’Europa possano essere confortate soprattutto dalla cancellazione non delle nazionalità ma dei confini nazionali. Noi ne sappiamo tutti qualcosa, proprio in questa regione.
Ma questa nostra regione tanto amata ha anche un altro aspetto meraviglioso: è piccola e nelle sue piccole dimensioni ci permette con qualche sgambata di passare da una propaggine della catena più alta d’Europa, dai monti più belli del mondo, le Dolomiti, fino a uno dei mari più incantevoli, circondato da luoghi fatati, cari ai miti ellenici. Chissà che non sia veramente questa regione l’ombelico del mondo?
Come vi siete accorti, non è che io sia insensibile agli affetti che vengono dal codice o dal nomos, come diceva qualcuno, della terra.
Ciò che si potrebbe dire ora è questo, sottolineando, se faccio una piccola selezione, quello che giustifica anche la selezione. Per il resto, il saggio della Hüken va letto, tenendo presente che tutto quello che è stato detto prima è una meravigliosa postilla a ciò che questo libro, così ben composto e strutturato, ci può insegnare, rivelare e mostrare. Per esempio il discorso splendido fatto dalla prof. Spinozzi Monai sulle relazioni di carattere strutturale tra diversi idiomi gravitanti intorno a questo asse del mondo è veramente fondamentale, un discorso portante, perché io sono profondamente convinto che la lingua sia la più grande invenzione della specie umana: nessun’altra specie ha inventato qualcosa di così splendido.
Nasce, come sappiamo, a Pietroburgo, il 10 febbraio del 1846, ma attenzione: il 10 febbraio è quello del calendario giuliano, secondo il calendario gregoriano il 22 febbraio. Muore a Bonn il 29 luglio del 1926, a ottant’anni e qualche mese.
Mi permetto di notare, come storico della musica, che questa signora, cui non diamo ancora un nome, nasce dieci anni prima della morte di Robert Schumann. Perché tiro fuori questa storia? Evidentemente, ciascuno nasce dieci anni prima della morte di qualcun altro. Io sono nato, pensate, dieci anni prima della morte di Pietro Mascagni, e con questo? Mi permetto di dire però che c’è un legame, che mi è venuto in mente quando, avendo tradotto dal diario degli Schumann l’annata 1844, quella del viaggio in Russia, ho incontrato tra gli altri nomi quello importantissimo di Adolf von Henselt. Il quale era un grandissimo pianista e notevole compositore, dallo stile vagamente tra Hummel e Chopin. Trapiantatosi in Russia, era diventato un grandissimo didatta vicino alla corte, uomo autorevolissimo: era lui che trovò alloggio agli Schumann (tra cui una locanda indecente a Riga, dove Clara non ebbe neanche il coraggio di sedersi su una cassapanca, e dovette chiamarlo per cambiare albergo). Henselt fu il grande insegnante di pianoforte della Adaïewsky.
A lei il nome di Schumann è legato, come dicevo, quanto a data di morte e a luogo di morte, poiché anche Schumann morì un 29 luglio (del 1856), se non proprio a Bonn, in un manicomio vicino a Bonn, quello di Endenich. Ma il legame tra i due non si ferma qui, poiché pare che ci sia una consanguineità molto significativa con l’alta civiltà musicale che un compositore come Schumann rappresenta (lo dico dall’avere sperimentato sulla tastiera le composizioni pianistiche, ma soprattutto le parti pianistiche dei Lieder della Adaïwsky).
Il vero nome della nostra autrice era Elisabeth von Schultz: era figlia di un medico, Georg Julius von Schultz, di famiglia di grado molto elevato, benestante, signorile, di origine baltico-tedesca. Cosa che avveniva molto spesso non soltanto in quelle zone della Russia occidentale dove c’erano nomi di città ancora tedeschi che poi sono diventati lituani, lettoni, estoni o russi (è il caso di Dorpat, poi chiamata Tartu), ma anche nella Russia più interna: moltissime cariche anche elevate, non soltanto culturali, ma anche dell’esercito oppure dell’organizzazione medica erano affidate a persone dal nome e dal cognome tedesco, il che creava poi dei problemi con il patronimico. Allieva di Henselt, diventa una pianista avviata in carriera, va in tourné, conosce l’Europa, incominciano i suoi tour.
Durante questo periodo, incomincia a comporre e già nel 1880-81, ancora giovane, compone la Griechische Sonate. Il fatto che ci sia un nome tedesco dipende dalle occasioni editoriali, è evidente, ma anche da una certa predilezione culturale.
La Sonata rivela una grande, benefica attenzione al mondo greco. Tra i miei motivi di sofferenza profonda, di disperazione autentica vi è ciò che accade oggi nei rapporti tra la nostra Europa e il mondo classico, gravitante intorno ai due strumenti linguistici che sono il greco attico, cioè il greco antico, e la lingua latina classica.
Nel nostro paese, grazie all’opera di “illuminati” ministri della pubblica istruzione, si sta tagliando il legame con questi due strumenti di conoscenza e di comunicazione, sotto l’auspicio di una visione politica generale fondata oggi sulle “i”, domani forse sulle “o” e sulle “u”, spero alla fine sulle “z” per poi sprofondare definitivamente. Ecco, la politica delle “i” mi sembra poco funzionale al risanamento dell’economia o al progresso tecnico, anzi proprio risibile da questo punto di vista, e dannosissima invece da quello della nostra identità culturale, che è la nostra principale forza. Un paese come l’Italia, in particolare, è un paese il cui petrolio, il cui uranio, i cui diamanti sono i nostri beni culturali: la nostra unica, ma smisurata ricchezza.
Una via di Tarcento ha un valore testimoniale e ideale pari a quello di uno Stato dell’Asia centrale. Siamo noi che deteniamo la fonte di ricchezza maggiormente sviluppabile in futuro. Sono forze benefiche nel campo della musica (e non parlo tanto dell’etnomusicologia, quanto della conoscenza storica della musica) persone come la Adaïwsky, sia pure quando commette alcuni errori di prospettiva, prendendo come autentici alcuni frammenti spuri elencati da Athanasius Kircher. So che è improprio anche il fatto di intitolare la seconda sezione in cui è divisa in modo anomalo la Sonata greca, con una disinvoltura terminologica che oggi non sarebbe più proponibile, Partie métabolique, dove si usano criteri terminologici relativi a una musica antica, la metabolé, per indicare ciò che invece si dovrebbe chiamare modulazione, transizione, mutamento di ritmo. Tuttavia io non lo ritengo un’esibizione. Oggi sì che c’è esibizionismo in certi giovani contemporanei, che per dare lustro alle loro composizioni consultano il vocabolario greco, ne prendono una parola e la usano per intitolare. No, lì si tratta invece di una consapevolezza culturale debordante che poteva lasciare il segno. Ricordo che più o meno nell’anno in cui la Adaïewsky compose la Sonata greca un compositore russo notissimo, nato sei anni prima di lei (scusate se ricado nel mio vizio della prossemica cronologica), Cjaikowsky, nella sua Quarta Sinfonia, che più o meno è di quel periodo, impiegò una melodia liturgica greco-ortodossa per il secondo tempo, e la impiegò non in quanto melodia liturgica, ma in quanto tema sinfonico: certo una contaminazione, un’impurità culturale, ma di quelle che fecondano. E noi sappiamo che le specie animali nascono dalle contaminazioni impure.
Nel 1882 avviene un fatto capitale: il trasferimento a Venezia. In quegli anni, moltissime signore di alto livello intellettuale sceglievano la città di San Marco come loro residenza. A me è capitato di incontrarne un’altra, per esempio, un’austriaca, Henriette Perl, che insediata a Venezia nel 1882 divenne la supposta e velleitaria biografa degli ultimi mesi di Wagner, in un libro ampiamente inventato ma interessantissimo come testimonianza di vita culturale. La personalità di questa signora, anche lei compositrice, anche lei ricercatrice di materiale popolare veneziano, ma a un livello culturale infimo, testimonia un certo costume. Tra l’altro, Wagner morì nel 1883. Sarebbe interessante sapere quanto la Adaïwsky abbia vissuto l’esperienza di essere concittadina di Wagner per qualche mese. Dalla pianista, interprete, grande virtuosa, si era sviluppata intanto negli anni la ricercatrice, filologa della musica, etnomusicologa, nel senso più alto e anche più originale della parola, e la compositrice.
Di che cosa compositrice? Soprattutto di pagine pianistiche e di Lieder, ma anche di opere teatrali, per esempio Neprigoshaja, che sarebbe la sua prima opera. In un nostro carteggio ci siamo domandati come trovarla, come poterla mettere in scena qui a Tarcento, quest’opera curiosa, con un titolo alternativo, La figlia del boiardo, che ha come protagonista una donna brutta, ma piena di sensibilità profonda. Dai ritratti fotografici la Adaïwsky appare invece una donna molto bella, almeno secondo il mio gusto, di una bellezza nobilissima, aristocratica.
Di quel periodo, vi è una bellissima fotografia tarcentina del 1886, riprodotta nel libro della Hüsken, dove Ella è fotografata con la sorella minore Pauline. Quest’ultima aveva sposato un ingegnere, Theodor Geiger, malato di nervi, dalla personalità molto fragile, anche se di grande finezza e di grande cultura. Da questo matrimonio, non fortunatissimo per i motivi di cui parlavo, tra Pauline e Theodor Geiger nascono tre figli: Marco, che fra l’altro è ritratto bambino in quella fotografia, Michele e Benno, che è il padre della signora di cui parlavo prima, il grande memorialista, critico e storico dell’arte autonominatosi veneziano. E’ interessante notare come in un momento cruciale nell’Europa di mezzo la grande fisionomia femminile che mancava alla cultura occidentale cominciava a svilupparsi. Si rivelavano personaggi come Lou André Salomé cui era stato vicino Nietzsche, che potrebbe far parte di quella schiera di donne forti, autonome, coraggiose, teste pensanti, acutissime di cui Ella Adaïwsky faceva certamente parte. Quindi incomincia Adaïwsky un periodo italiano, ma soprattutto veneto, che è il periodo centrale delle sue grandi ricerche etnomusicologiche e linguistiche (l’etnomusicologia non può essere infatti dissociata dalla ricerca linguistica). Del resto la Adaïewsky diede degli interessantissimi contributi a un genere “colto” come è quello del Lied, in cui l’azione di un compositore, così come l’azione di un interprete, deve essere molto raffinato. È bene infatti conoscere la lingua e la letteratura da cui è nata una tradizione liederistica. In questo senso la Adaïwsky, collega (o discepola alla pari) di Jan Baudouin de Courtenay, mostra la sua statura, il suo superiore grado di presenza nella storia della cultura musicale europea. Tanto da rendermi sempre più vergognoso della mia ignoranza lunga decenni, e da giustificare delle voci manualistiche ed enciclopediche un po’ più dense e corpose di quelle striminzite e manchevoli, per non dire spesso errate che troviamo nei sia pure maggiori repertori musicali. Dal 1911 Ella si trasferisce nel castello di Segenhaus sul Reno, presso la città di Neuwied, per morire il 29 luglio 1926 a ottant’anni di età. Della sua presenza in Friuli restano numerosissime testimonianze, tra le quali mi ha incuriosito che la Hüken segnali una presenza di Elisabeth e Paulina a San Floriano del Collio, a pochi metri da casa mia.
Ora, vorrei svolgere da un lato una considerazione d’insieme, che osservi l’itinerario della Adaïwsky secondo il titolo del mio intervento; dall’altro qualche considerazione pertinente non alle trascrizioni musicologiche e alle melodie popolari (c’è già chi ne ha parlato con decisiva e insuperabile competenza), ma ai generi di tradizione come i Lieder e le piccole forme pianistiche. Dalle sponde della Neva alle Alpi Orientali, attraverso la metà orientale del nostro continente, il destino di questa donna la porta da una città russa all’estremo nord di un paese nordico. (A me piace questa visione prospettica dei punti cardinali, che ha un valore simbolico altissimo).
Da una città che doveva essere una città occidentale in un mondo altro, che doveva essere la non Russia, l’Antirussia rispetto alla tradizione atavica negli intenti di chi la fondò da làfino a un luogo d’Europa in cui l’Oriente confina con l’Occidente. Infatti il Friuli è uno dei luoghi che io chiamerei in capo al mondo. Io ho avuto più volte la sensazione di trovarmi in capo al mondo, per esempio quando ho visitato l’Oberpfalz, il Palatinato superiore, andando alla ricerca del padre di Richard Strauss e di Max Reger, nati lì: è un luogo dove tutto finisce; oppure la Bretagna, a capo Finisterre, o il Nord della Scozia. Però, fra tutti i luoghi in capo al mondo, questa nostra terra ha una caratteristica che non ha nessun altro: è un punto d’incrocio di tutte le culture, di tutte le civiltà di tutti i ceppi linguistici che hanno caratterizzato e qualificato l’Europa.
Quando c’era la guerra fredda, era molto bello vedere a Tarvisio, fotografati come modelli ermeneutici, l’atteggiamento d’ordine del doganiere austriaco, quello minaccioso e selvaggio del doganiere jugoslavo e quello scettico, di chi non prende la storia sul serio del doganiere italiano.
Ecco, queste tre culture, queste tre civiltà, la precisione assoluta, la ferocia, e il distacco un po’ cinico, in un punto che èil nodo centrale d’Europa. E proprio qui venne a depositarsi con il suo talento la Adaïewsky.
Questo mi sembra altamente simbolico. D’altra parte le sue tourné, i suoi giri per l’Europa, la sua conoscenza della lingue, il fatto che sulla Nuova rivista musicale italiana Ella, pur pubblicando talora in italiano, prediligesse il francese come lingua di trasmissione, tutto ciò le dà una dimensione europea veramente totale. Questo la fa ulteriormente crescere di statura ai nostri occhi. Io vorrei poi insistere sulla mia ammirazione per un suo scritto che ho potuto leggere in un numero della «Rivista musicale italiana» (fascicolo 8 del 1901, pp. 579-601), Les chants de l’eglise grecque-orientale, nel quale è difficile trovare errori di impostazione, anzi si trovano capacità di correzione nei confronti del livello medio della conoscenza storico musicale sull’argomento di quegli anni.
Ella von Schultz si volle chiamare dopo i 24-25 anni Adaïwsky, e si presentava spesso con varie versioni del suo nome, per esempio contaminando il suo nome vero con quello fittizio (Ella von Schultz Adaïwsky), oppure con quell’altro pseudonimo alla francese (Bertramin), che usava quando da musicologa diventava memorialista, scrittrice, bozzettista.
Le composizioni pianistiche - ne ho discusso proprio ieri con il mio carissimo amico Umberto Berti - sia pure molto eleganti, mi sembrano spesso convenzionali. Escludendo ovviamente la Sonata greca, che èun pezzo molto importante, anche dal punto di vista sperimentale, sia della melodia che della forma. Per noi Italiani in una sonata come quella viene anticipata la grande stagione del rinnovamento musicale, quello compiuto dalla generazione degli Ottanta, da compositori come Casella e Respighi. Così come la sua attività musicologica anticipa quello che sarebbe avvenuto vent’anni dopo in Italia con Chilesotti nel Nordest e con Sinigaglia nel Nordovest, rivelatori di tesori preziosi, ma forse un’impollinazione ci fu proprio negli anni Settanta ed Ottanta grazie a persone come la Adaïewsky.
Insomma, mentre c’erano zone di paurosa arretratezza della cultura musicale italiana, c’erano invece zone pionieristiche di punta (si pensi alla rivista «Pagine friulane», che nel 1891, in una bibliografia di Francesco Musoni, elenca accuratamente i testi di Baudouin de Courtenay). Molto più interessanti e originali sono i Lieder, che non pagano grandi debiti ad altri autori. Del resto capita a tutti gli artisti di essere nani sulle spalle dei giganti. Se sia stata un gigante della musica o della musicologia o dell’etnomusicologia Ella Adaïewsky, non so dirlo e non mi interessa dirlo, poiché la categoria del primato e della grandezza diventa irrisoria quando noi assumiamo una visione cosmica, quando riusciamo a capire che ciò che crediamo una massa disorganica è in realtà un’aggregazione organica, un essere vivente.
Evidentemente, le cellule del nostro corpo sono una massa disorganica e casuale per i batteri che vi sono insediati. Se uno spiegasse loro che quella roba è un essere che si innamora e che soffre, i batteri si metterebbero a ridere; invece noi sappiamo che la realtà è questa.
Allo stesso modo, noi dobbiamo pensare che quelle che noi crediamo essere singole tradizioni nazionali, singole lingue incomunicabili sono in fondo collegabili attraverso misteriosi legami, che magari non siamo ancora in grado di osservare.
Quindi, se la Adaïewsky sia stata determinante nella storia dell’etnomusicologia, se sia una grande o media compositrice, per me è meno importante.
Domandiamoci almeno una cosa, cui possiamo dare una risposta immediata, come ce la daremo domani al concerto: è bello o brutto ciò che ascoltiamo, ci piace o non ci piace, ci ha dato un po’ più di felicità di interesse, di curiosità per qualche minuto oppure ci ha lasciati completamente indifferenti?
Se ci avesse lasciati indifferenti, noi potremmo dire, alzandoci dalla nostra poltrona, che in fondo non dobbiamo nulla a questa donna; se invece valesse il contrario, le dovremmo gratitudine e, avendo onorato Tarcento e la nostra Regione della sua presenza, saremmo tenuti a continuare ad onorarla.
Quirino Principe (Atti del Convegno, Tarcento, 18/19 marzo 2006)
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