Maurizio Pollini (5 gennaio 1942) |
Maurizio Pollini rimane fedele agli ideali che hanno segnato la sua vita di musicista e di innovatore. E, poche settimane dopo la scomparsa dell’amico Pierre Boulez, lancia un grido d’artista, perché non si dimentichi, perché non prevalga l’abitudine, l’ovvietà. L’ora fissata per l’incontro è la solita. A casa, alle 15, dopo una mattinata di studio e dopo il pranzo in cucina.
«Boulez è stato un genio della composizione, un grande direttore d’orchestra, un saggista, un uomo che ha fatto tutto il possibile per diffondere la musica moderna. Con coerenza per tutta la vita: la sua perdita mi lascia triste e preoccupato».
Preoccupato che cali il silenzio sulla musica sua e del suo tempo?
«Il problema è generale. Arnold Schoenberg ha abbandonato la musica tonale più di cento anni fa, però il grande pubblico nel mondo non ha ancora completamente digerito questo passo straordinario, non ha compreso l’espressività di questa musica».
Perché?
«Per un non sufficiente ascolto. Per una mancanza di esecuzioni che avrebbero dovuto abituarlo a seguire con interesse e con gioia il suo linguaggio».
Chi non ama la musica contemporanea dice che è la natura del nostro orecchio a rifiutarla.
«No! Nel 1400 era inconcepibile finire un pezzo di musica come finisce un pezzo dell’età classica e romantica. Non c’è una predisposizione naturale dell’orecchio alla musica tonale. Ci sono convenzioni e abitudini, convalidate da capolavori, ma non una legge di natura».
I compositori contemporanei hanno trascurato il pubblico?
«L’artista spera sempre di essere compreso, ma non può pensare esclusivamente all’ascoltatore. La sua molla è la ricerca, altrimenti sarebbe un intrattenitore, che pensa non alla grandezza dell’opera, ma al piacere effimero».
Il pubblico oggi è impigrito, non vuole correre avventure?
«Questo è senz’altro un problema. Inoltre, gli interpreti non presentano la musica nuova con la frequenza necessaria e le istituzioni sono vittime della paura di rischiare. Per mia esperienza, o per mia fortuna, posso dire che il coraggio è sempre stato ricompensato, anche dal pubblico».
Questo difficile rapporto tra creatività contemporanea e pubblico non si verifica nella pittura, nella scultura, nella letteratura.
«Hanno vita più facile. L’impatto col pubblico avviene in maniera diversa. La musica la devi subire».
Subire?
«Di fronte a un quadro, ad una scultura sei libero: li puoi guardare per ore oppure per cinque secondi e andare via. Un libro che non ti piace lo puoi chiudere. Un grande pezzo di musica devi seguirlo stando fermo per un’ora».
Bisogna immaginare nuovi luoghi per l’ascolto?
«È una riflessione che alcuni compositori, penso a Nono, Berio, Stockhausen, e architetti come Renzo Piano hanno fatto: la sala da concerto tradizionale non funziona per tutti i repertori».
La musica scritta è muta. Va suonata, interpretata. Lei è un interprete carismatico. Che cos’è il carisma?
«Sia a casa quando studio, sia in pubblico il mio lavoro è sul costante rinnovo della comprensione. È un lavoro che non smette mai. Di una musica non puoi mai dire di averla capita una volta per sempre. Questo provoca una tensione che credo si trasmetta al pubblico».
Fedeltà o libertà dell’interprete?
«La fedeltà è necessaria, ma non è sufficiente. C’è sempre un elemento imponderabile che stabilisce l’identificazione dell’interprete con il creatore».
Come si crea l’intesa tra un solista, un’orchestra, un direttore? Tra lei e Abbado, ad esempio.
«Si creano circuiti di un sentire musicale che si fonde o non si fonde. Con Claudio abbiamo ogni volta conquistato un’intesa, facilitati da una sensibilità comune, in tante diverse occasioni che ci ha condotto a raggiungere un’alchimia rara».
Lei ascolta la musica riprodotta?
«Molta su disco. È utile: puoi riascoltare, approfondire. Non ho un computer, sono tagliato fuori da questo mondo».
Che cosa distingue la musica colta, complessa, dalla musica leggera, di consumo?
«C’è una differenza, eccome. Ed è proprio questa differenza che si vorrebbe il pubblico sentisse».
intervista di Sandro Cappelletto (La Stampa, 22 gennaio 2016)
1 commento:
Lessi quest'intervista sul quotidiano torinese La Stampa. Che dire? Il "solito" Pollini. Purista raffinato al pianoforte quanto riformista nel pensiero e da sempre aperto al "nuovo" musicalmente. Peccato che in Italia è già tanto se si ascolti i romantici...La musica classica è trattata varie volte, direi troppe volte (specie da alcuni e in alcune realtà del Paese) come qualcosa di distante, un prodotto di "nicchia", eppure non è o non dovrebbe esser così! Non è solo un problema di fondi, teatri, soldi etc. Purtroppo in vari casi è un problema culturale. La mentalità che va per la maggiore è, troppe volte, anche volutamente distante dalla sensibilità musicale classica
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