Potendo dare uno sguardo all’indietro nel recente passato per curiosare in cosa fossero impegnati audiofili e melomani nell’anno di grazia 1991, lo scenario che ci apparirebbe sarebbe quello di una umanità brulicante e frenetica, alla spasmodica ricerca di qualsiasi cosa somigliasse – sia pur vagamente – a un CD.
Il nuovo medium era apparso una decina d’anni prima, all’inizio piuttosto timidamente, poi aveva rapidamente conquistato fette di mercato sempre maggiori sino alla grande impennata del 1985: grazie a questa i costi dell’hardware poterono sensibilmente diminuire, così pure quelli degli stessi CD, e la crescita assunse livelli esponenziali. L’evento venne mirabilmente immortalato dal celebre articolo dal titolo «Invasion of the Compact Disks» pubblicato dal New York Times il 10 marzo 1985, accanto al quale appariva il simpatico disegno di una flotta di CD che volavano sul territorio della Grande Mela come astronavi di un’invasione aliena. E di alieno il nuovo supporto aveva proprio tutto: ad iniziare dall’irreale assenza di contatto fisico tra il laser di lettura e la facciata del disco contenente le informazioni digitali. L’assenza di rumori estranei alla musica era semplicemente impressionante.
Potevi afferrarlo con le dita unte e bisunte, poi suonarlo egregiamente dopo una modesta pulitura. C’è chi giura di averlo fatto cadere (per errore...) in una pinta di birra e di averlo recuperato solo la mattina successiva: ebbene, dopo una sommaria sciacquatura e asciugatura il CD suonava immacolato come appena tolto dal cellophane.
Nulla di strano che con queste caratteristiche il nuovo giocattolo agisse come una droga su consumatori ben disposti, nel giro di pochi anni, ad abbandonare massicciamente il «polveroso e gracchiante» LP per convertirsi anima e corpo al nuovo medium.
Del resto, questo novello successo dell’audio digitale rappresentava in quel momento una vera boccata d’ossigeno per un mercato da troppi anni impantanato nella palude dell’incertezza. Diversamente da quanto avvenuto nel passato, l’industria discografica poteva inoltre in questa occasione beneficiare di fenomeni sino allora sconosciuti.
Come quello del cosiddetto effetto stock, in virtù del quale i consumatori, perdutamente ammaliati dal fascino del singolare oggetto, tendevano a riacquistare quanto già posseduto in vinile al solo scopo di riconvertire la propria discoteca nel nuovo formato. Naturalmente le aziende interessate ringraziavano, mentre le etichette provvedevano a gran velocità alla ristampa dei propri cataloghi, peraltro a costi irrisori in quanto già ammortizzati da precedenti edizioni.
In buona sostanza, l’euforia collettiva aveva già promosso il Compact Disc come oggetto del futuro, simbolo di trionfi tecnologici capaci di traghettare il canned sound di Edison verso il mito della perfezione assoluta.
Ma era proprio così? Davvero il suono digitale aveva compiuto il grande salto capace di relegare l’ormai vetusto microsolco nella preistoria della riproduzione sonora? In realtà, una corrente di pensiero alternativa, non dichiaratamente ostile al CD ma almeno diffidente, si era manifestata sin dai primi momenti ma l’opinione pubblica, drogata dal fascino dell’oggetto misterioso, sembrò non tenerne conto. Indubbiamente il CD suonava molto bene su dispositivi economici e sui cosiddetti entry-level, ma quando l’impianto iniziava ad essere di media qualità la faccenda si complicava. In questo caso la trasparenza di un suono non corrotto da fruscii e gracidii non riusciva a compensare l’impressione di freddezza che trapelava dall’informazione sonora. Chi aveva investito in impianti di buona qualità dovette ammettere che il caro vecchio disco in vinile era ancora in grado di offrire un suono più convincente e in genere più naturale (ci riferiamo, naturalmente, a un microsolco di buona fattura, ben conservato e non deteriorato dall’usura dei vari passaggi).
Nelle discussioni promosse dalla stampa specializzata iniziò a circolare la metafora che associava l’ascolto del CD all’esperienza di respirare in un ambiente disinfettato, contro la purezza dell’aria di montagna che la riproduzione analogica riusciva invece a ricreare.
Un’arguta sintesi della querelle ci viene offerta dalla penna di Evan Eisenberg, raffinato musicologo, saggista e critico discografico: «Il dibattito sui relativi meriti tra digitale e analogico lo lascio agli estremisti della stereofonia; per noi comuni mortali, non avvezzi ad investire in impianti stereo più che nelle nostre case, la faccenda è da tempo risolta: in cambio di qualche rumore di superficie in meno, accettiamo volentieri una spruzzatina di disinfettante nell’aria».
Ma in realtà non era affatto necessario investire fortune per accorgersi dalla differenza, e lo stesso Eisenberg correggerà il tiro di questa sua affermazione rammentando un’esperienza d’ascolto del Concerto per violino e orchestra di Mendelssohn su microsolco, sostenendo che: «Il calore spontaneo di quell’esecuzione non verrà mai catturato dal CD, esattamente come la calda atmosfera di un caminetto non sarà mai riproducibile da un sistema di riscaldamento centralizzato».
Com’era dunque possibile che un sistema così tecnologicamente evoluto e innovativo presentasse un handicap di questa portata? A darci la risposta è la fisica: la risoluzione di una registrazione analogica è teoricamente infinita, mentre quella di una registrazione digitale è limitata dalla scansione determinata dalla frequenza di campionamento, nel caso 44,1 kHz a 16 bit. Ci si chiederà – allora – come mai non venne all’epoca scelto uno standard con maggiore definizione, ma anche in questo caso la risposta è assai semplice: quando vennero definiti i parametri di produzione, l’hardware informatico era ancora nella preistoria e lo standard prescelto era già il limite massimo di quanto si potesse allora pretendere. Non a caso i team di Sony e Philips, impegnati congiuntamente al progetto, avevano caldamente suggerito di attendere ancora qualche anno prima del suo lancio: l’evoluzione dell’hardware era in quei tempi in rapida crescita (di lì a qualche anno avrebbe visto la luce anche il mitico Macintosh di Steve Jobs) ed un’attesa saggia e ponderata avrebbe certamente consentito la scelta uno standard con maggiore risoluzione.
Purtroppo alcuni settori dell’industria discografica esercitarono notevoli pressioni per anticipare l’uscita del nuovo audio digitale, con conseguente forzatura di uno standard non ideale, rimasto – ahimè – sino ad oggi ancora immutato. Per la cronaca: oggi possiamo disporre di altri media ad alta definizione simili al CD (SACD, DVD Audio, Blu-Ray audio) ma il buon vecchio caro CD resta tutt’ora prigioniero dei suoi 44,1 kHz a 16 bit.
Di tutto questo, naturalmente, poco o nulla trapelava. La comunicazione mediatica, abilmente condizionata dalle major del disco, si guardò bene dal rompere il giocattolo grazie al quale la produzione discografica stava vivendo la propria seconda giovinezza rievocando fasti e splendori degli anni ’60. Uniche isolate voci di verità restarono alcune riviste specializzate in critica discografica e alta fedeltà (prima tra tutte la statunitense Absolute Sound), che coraggiosamente intrapresero la strada d’informare i propri lettori attraverso la pubblicazione di articoli tecnici, chiari, dettagliati e privi di ambiguità.
Tutti gli audiofili appassionati del vinile poterono finalmente riconciliarsi con i loro preziosi dispositivi e la domanda di LP in vinile iniziò rapidamente a risalire. Purtroppo, in quei primi anni Novanta, le principali case discografiche avevano già da tempo dismesso le nuove uscite in microsolco. Sino a quel momento gli irriducibili del vinile avevano almeno potuto contare su ampie scorte di magazzino, ma nel 1993 il supporto veniva ormai dato per moribondo e le nuove uscite su LP stavano rapidamente collassando verso lo zero assoluto. A dispetto della difficoltà, la domanda di vinile non accennava tuttavia a diminuire, e ciò produsse un sensibile aumento dei costi non solo delle poche copie rimaste sugli scaffali, ma anche nel mercato parallelo dei dischi usati. Ce n’era abbastanza perché un’etichetta come Classic Records, nata per l’occasione, tentasse l’avventura di acquistare da major come RCA e Columbia licenze di duplicazione per la stampa di LP da immettere sul mercato in edizione limitata e numerata. Direttamente ricavate dai master originali su nastro, le copie venivano realizzate su supporti in vinile da 180 grammi, particolarmente silenziosi e affidabili nel restituire eccellenti qualità sonore. Attiva inizialmente nel solo settore della classica, la Classic Records estese in seguito i propri cataloghi includendo anche il Jazz e successivamente persino generi come pop o rock. A dimostrazione che la voglia di analogico e di superare la qualità del Compact Disc non era evidentemente monopolio di un singolo settore.
Sulle prime, le major del disco non prestarono particolare attenzione al fenomeno: i mercati di nicchia erano sempre esistiti e mai avevano compromesso le linee generali della produzione mondiale. Ma stavolta si sbagliavano: quello della Classic Records non fu, infatti, un episodio isolato. Gli spazi di mercato lasciati liberi da major non più interessate al vinile sollecitarono l’attenzione di altre etichette indipendenti come Speakers Corner, Analogue Productions, Audio Fidelity, Groove Note e Alto Edition, le quali proponevano ristampe di titoli provenienti da cataloghi come Decca, EMI, Mercury e Virgin. Il costo delle licenze di duplicazione poteva essere ragionevolmente caricato su un prezzo al dettaglio più elevato che l’audiofilo era generalmente ben disposto a sopportare, mentre la qualità dei cataloghi, sia sotto il profilo artistico che tecnico, offriva quanto di meglio fosse mai stato registrato in assoluto. Fu grazie a queste avventure che il vecchio, vituperato, polveroso e gracchiante LP, gettato con troppa disinvoltura dalla finestra agli esordi della rivoluzione digitale, rientrava tredici anni più tardi dalla porta principale con tutti gli onori dovuti ad un supporto ad alta definizione dal suono affidabile e convincente.
Ma c’era anche un’altra ragione per cui il revival del vinile non avrebbe avuto particolari difficoltà a recuperare gli spazi perduti di un tempo: la sua «fisicità». Vedere un disco che gira su un piatto mentre un braccetto di lettura suona in tempo reale l’informazione sonora presente sul solco, è un’emozione che intere generazioni di audiofili e melomani hanno amato e considerato un rito irrinunciabile (e su questo punto, persino gli estremisti del CD avevano stigmatizzato l’aridità del nuovo sistema). Come non ricordare, ad esempio, l’Alex di Arancia meccanica di Stanley Kubrick quando suona la Nona di Beethoven sul suo avveniristico (quello, sì, un vero oggetto alieno!) Transcriptor Hydraulic.
Il resto è storia nota. Da allora sino ad oggi, nonostante l’introduzione nel 1997 del DVD e l’esponenziale evoluzione dell’hardware informatico abbiano consentito anche all’audio digitale di sperimentare nuove strade di supporti ad alta definizione (SACD, Blu-Ray Audio ecc.), la produzione di supporti vinilici sembra non aver conosciuto cenni di cedimento.
Dopo la forte accelerazione avvenuta in Europa nella seconda metà degli anni duemila con punte superiori al 300% (fonte Eurispes), ancora oggi il fenomeno è in continua espansione al punto che non è affatto raro incontrare rivendite di dischi dove la parte del leone la fanno gli scaffali dei vinili, mentre ai CD (causa anche la micidiale concorrenza del famigerato Mp3) sono riservati spazi assai più contenuti. Se poi occorresse un’icona per confermare l’attuale popolarità del vinile, basterà rammentare come appena qualche anno fa un’iniziativa dei Fratelli Fabbri Editori riuscì a portare una collana di vinili da 180 grammi (prima uscita una magnifica Sinfonia di Beethoven diretta da Karajan) persino in edicola. Ma c’è ancora un’ultima considerazione da fare. Indipendentemente dalla sua scarsa risoluzione in termini di frequenza di campionamento, almeno sotto il profilo dell’affidabilità in fatto di durata nel tempo il CD prometteva meraviglie.
Purtroppo, anche questo è un mito non immune da qualche scricchiolio. Molti CD della prima ora iniziano ad avere oggi più di trent’anni d’età, e sebbene la maggior parte di questi suonino ancora egregiamente, non sono infrequenti i casi in cui a volte s’inceppano, saltano intere sequenze di dati per poi bloccarsi definitivamente senza appello.
Pare ciò possa dipendere da processi di micro-ossidazione (ma molto dipende anche dalla cura con cui è stato conservato il supporto) dai quali lo strato di policarbonato di alluminio che contiene i dati non è purtroppo immune. Certo, ci stiamo riferendo a supporti prodotti più di trent’anni fa e sappiamo come da allora l’evoluzione dei materiali impiegati abbia fatto passi da gigante, E' dunque probabile che nel futuro il problema per quelli prodotti negli ultimi 15/20 anni non si ponga affatto. Non possiamo tuttavia esimerci dal rammentare come i dischi stampati da Emil Berliner nel 1889 suonino ancora oggi (a distanza di oltre 120 anni!) senza problemi di sorta.
Questa nostra breve panoramica su morte e trasfigurazione del vinile non sarebbe completa se non rammentassimo come nell’agosto e nel settembre del 1977 due navicelle costruite dall’uomo vennero lanciate alla ricerca di altre civiltà. Entrambe le sonde, Voyager 1 e 2, recano a bordo il Voyager Golden Record, un disco contenente i suoni del nostro pianeta: da un messaggio di saluto pronunciato in 55 lingue a vari brani musicali che spaziano da musiche rinascimentali a una danza da Le Sacre du Printemps, passando attraverso il Concerto Brandeburghese n.2 di Bach, l’aria della Regina della Notte dal Flauto Magico di Mozart, la Quinta sinfonia e la Cavatina dal Quartetto op.130 di Beethoven. Al disco è dunque stato affidato il ruolo di ambasciatore presso civiltà sconosciute attraverso uno dei più importanti messaggi mai formulati dall’uomo.
Un disco che non possiamo definire in «vinile» solo perché le circostanze avevano saggiamente suggerito di realizzare in rame rivestito in oro. A parte il dettaglio sul materiale, il disco è comunque in formato analogico e si presenta identico a quel microsolco che da oltre sessant’anni porta alta la bandiera della riproduzione sonora. Forse l’astronomo Carl Sagan potrà peccare di ottimismo, affermando in uno dei suoi libri che tra un miliardo di anni, quando tutto ciò che abbiamo costruito sulla terra sarà crollato nella polvere, il Voyager Golden Record potrà ancora parlare di noi. In ogni caso ci sentiamo sollevati al pensiero che il nostro messaggio in bottiglia sia stato consegnato ad un supporto di qualità, al momento il più longevo (e certamente il più affidabile) dell’intera storia fonografica.
Roberto Diem Tigani (“Musica”, 275, aprile 2006)
Il nuovo medium era apparso una decina d’anni prima, all’inizio piuttosto timidamente, poi aveva rapidamente conquistato fette di mercato sempre maggiori sino alla grande impennata del 1985: grazie a questa i costi dell’hardware poterono sensibilmente diminuire, così pure quelli degli stessi CD, e la crescita assunse livelli esponenziali. L’evento venne mirabilmente immortalato dal celebre articolo dal titolo «Invasion of the Compact Disks» pubblicato dal New York Times il 10 marzo 1985, accanto al quale appariva il simpatico disegno di una flotta di CD che volavano sul territorio della Grande Mela come astronavi di un’invasione aliena. E di alieno il nuovo supporto aveva proprio tutto: ad iniziare dall’irreale assenza di contatto fisico tra il laser di lettura e la facciata del disco contenente le informazioni digitali. L’assenza di rumori estranei alla musica era semplicemente impressionante.
Potevi afferrarlo con le dita unte e bisunte, poi suonarlo egregiamente dopo una modesta pulitura. C’è chi giura di averlo fatto cadere (per errore...) in una pinta di birra e di averlo recuperato solo la mattina successiva: ebbene, dopo una sommaria sciacquatura e asciugatura il CD suonava immacolato come appena tolto dal cellophane.
Nulla di strano che con queste caratteristiche il nuovo giocattolo agisse come una droga su consumatori ben disposti, nel giro di pochi anni, ad abbandonare massicciamente il «polveroso e gracchiante» LP per convertirsi anima e corpo al nuovo medium.
Del resto, questo novello successo dell’audio digitale rappresentava in quel momento una vera boccata d’ossigeno per un mercato da troppi anni impantanato nella palude dell’incertezza. Diversamente da quanto avvenuto nel passato, l’industria discografica poteva inoltre in questa occasione beneficiare di fenomeni sino allora sconosciuti.
Come quello del cosiddetto effetto stock, in virtù del quale i consumatori, perdutamente ammaliati dal fascino del singolare oggetto, tendevano a riacquistare quanto già posseduto in vinile al solo scopo di riconvertire la propria discoteca nel nuovo formato. Naturalmente le aziende interessate ringraziavano, mentre le etichette provvedevano a gran velocità alla ristampa dei propri cataloghi, peraltro a costi irrisori in quanto già ammortizzati da precedenti edizioni.
In buona sostanza, l’euforia collettiva aveva già promosso il Compact Disc come oggetto del futuro, simbolo di trionfi tecnologici capaci di traghettare il canned sound di Edison verso il mito della perfezione assoluta.
Ma era proprio così? Davvero il suono digitale aveva compiuto il grande salto capace di relegare l’ormai vetusto microsolco nella preistoria della riproduzione sonora? In realtà, una corrente di pensiero alternativa, non dichiaratamente ostile al CD ma almeno diffidente, si era manifestata sin dai primi momenti ma l’opinione pubblica, drogata dal fascino dell’oggetto misterioso, sembrò non tenerne conto. Indubbiamente il CD suonava molto bene su dispositivi economici e sui cosiddetti entry-level, ma quando l’impianto iniziava ad essere di media qualità la faccenda si complicava. In questo caso la trasparenza di un suono non corrotto da fruscii e gracidii non riusciva a compensare l’impressione di freddezza che trapelava dall’informazione sonora. Chi aveva investito in impianti di buona qualità dovette ammettere che il caro vecchio disco in vinile era ancora in grado di offrire un suono più convincente e in genere più naturale (ci riferiamo, naturalmente, a un microsolco di buona fattura, ben conservato e non deteriorato dall’usura dei vari passaggi).
Nelle discussioni promosse dalla stampa specializzata iniziò a circolare la metafora che associava l’ascolto del CD all’esperienza di respirare in un ambiente disinfettato, contro la purezza dell’aria di montagna che la riproduzione analogica riusciva invece a ricreare.
Un’arguta sintesi della querelle ci viene offerta dalla penna di Evan Eisenberg, raffinato musicologo, saggista e critico discografico: «Il dibattito sui relativi meriti tra digitale e analogico lo lascio agli estremisti della stereofonia; per noi comuni mortali, non avvezzi ad investire in impianti stereo più che nelle nostre case, la faccenda è da tempo risolta: in cambio di qualche rumore di superficie in meno, accettiamo volentieri una spruzzatina di disinfettante nell’aria».
Ma in realtà non era affatto necessario investire fortune per accorgersi dalla differenza, e lo stesso Eisenberg correggerà il tiro di questa sua affermazione rammentando un’esperienza d’ascolto del Concerto per violino e orchestra di Mendelssohn su microsolco, sostenendo che: «Il calore spontaneo di quell’esecuzione non verrà mai catturato dal CD, esattamente come la calda atmosfera di un caminetto non sarà mai riproducibile da un sistema di riscaldamento centralizzato».
Com’era dunque possibile che un sistema così tecnologicamente evoluto e innovativo presentasse un handicap di questa portata? A darci la risposta è la fisica: la risoluzione di una registrazione analogica è teoricamente infinita, mentre quella di una registrazione digitale è limitata dalla scansione determinata dalla frequenza di campionamento, nel caso 44,1 kHz a 16 bit. Ci si chiederà – allora – come mai non venne all’epoca scelto uno standard con maggiore definizione, ma anche in questo caso la risposta è assai semplice: quando vennero definiti i parametri di produzione, l’hardware informatico era ancora nella preistoria e lo standard prescelto era già il limite massimo di quanto si potesse allora pretendere. Non a caso i team di Sony e Philips, impegnati congiuntamente al progetto, avevano caldamente suggerito di attendere ancora qualche anno prima del suo lancio: l’evoluzione dell’hardware era in quei tempi in rapida crescita (di lì a qualche anno avrebbe visto la luce anche il mitico Macintosh di Steve Jobs) ed un’attesa saggia e ponderata avrebbe certamente consentito la scelta uno standard con maggiore risoluzione.
Purtroppo alcuni settori dell’industria discografica esercitarono notevoli pressioni per anticipare l’uscita del nuovo audio digitale, con conseguente forzatura di uno standard non ideale, rimasto – ahimè – sino ad oggi ancora immutato. Per la cronaca: oggi possiamo disporre di altri media ad alta definizione simili al CD (SACD, DVD Audio, Blu-Ray audio) ma il buon vecchio caro CD resta tutt’ora prigioniero dei suoi 44,1 kHz a 16 bit.
Di tutto questo, naturalmente, poco o nulla trapelava. La comunicazione mediatica, abilmente condizionata dalle major del disco, si guardò bene dal rompere il giocattolo grazie al quale la produzione discografica stava vivendo la propria seconda giovinezza rievocando fasti e splendori degli anni ’60. Uniche isolate voci di verità restarono alcune riviste specializzate in critica discografica e alta fedeltà (prima tra tutte la statunitense Absolute Sound), che coraggiosamente intrapresero la strada d’informare i propri lettori attraverso la pubblicazione di articoli tecnici, chiari, dettagliati e privi di ambiguità.
Tutti gli audiofili appassionati del vinile poterono finalmente riconciliarsi con i loro preziosi dispositivi e la domanda di LP in vinile iniziò rapidamente a risalire. Purtroppo, in quei primi anni Novanta, le principali case discografiche avevano già da tempo dismesso le nuove uscite in microsolco. Sino a quel momento gli irriducibili del vinile avevano almeno potuto contare su ampie scorte di magazzino, ma nel 1993 il supporto veniva ormai dato per moribondo e le nuove uscite su LP stavano rapidamente collassando verso lo zero assoluto. A dispetto della difficoltà, la domanda di vinile non accennava tuttavia a diminuire, e ciò produsse un sensibile aumento dei costi non solo delle poche copie rimaste sugli scaffali, ma anche nel mercato parallelo dei dischi usati. Ce n’era abbastanza perché un’etichetta come Classic Records, nata per l’occasione, tentasse l’avventura di acquistare da major come RCA e Columbia licenze di duplicazione per la stampa di LP da immettere sul mercato in edizione limitata e numerata. Direttamente ricavate dai master originali su nastro, le copie venivano realizzate su supporti in vinile da 180 grammi, particolarmente silenziosi e affidabili nel restituire eccellenti qualità sonore. Attiva inizialmente nel solo settore della classica, la Classic Records estese in seguito i propri cataloghi includendo anche il Jazz e successivamente persino generi come pop o rock. A dimostrazione che la voglia di analogico e di superare la qualità del Compact Disc non era evidentemente monopolio di un singolo settore.
Sulle prime, le major del disco non prestarono particolare attenzione al fenomeno: i mercati di nicchia erano sempre esistiti e mai avevano compromesso le linee generali della produzione mondiale. Ma stavolta si sbagliavano: quello della Classic Records non fu, infatti, un episodio isolato. Gli spazi di mercato lasciati liberi da major non più interessate al vinile sollecitarono l’attenzione di altre etichette indipendenti come Speakers Corner, Analogue Productions, Audio Fidelity, Groove Note e Alto Edition, le quali proponevano ristampe di titoli provenienti da cataloghi come Decca, EMI, Mercury e Virgin. Il costo delle licenze di duplicazione poteva essere ragionevolmente caricato su un prezzo al dettaglio più elevato che l’audiofilo era generalmente ben disposto a sopportare, mentre la qualità dei cataloghi, sia sotto il profilo artistico che tecnico, offriva quanto di meglio fosse mai stato registrato in assoluto. Fu grazie a queste avventure che il vecchio, vituperato, polveroso e gracchiante LP, gettato con troppa disinvoltura dalla finestra agli esordi della rivoluzione digitale, rientrava tredici anni più tardi dalla porta principale con tutti gli onori dovuti ad un supporto ad alta definizione dal suono affidabile e convincente.
Ma c’era anche un’altra ragione per cui il revival del vinile non avrebbe avuto particolari difficoltà a recuperare gli spazi perduti di un tempo: la sua «fisicità». Vedere un disco che gira su un piatto mentre un braccetto di lettura suona in tempo reale l’informazione sonora presente sul solco, è un’emozione che intere generazioni di audiofili e melomani hanno amato e considerato un rito irrinunciabile (e su questo punto, persino gli estremisti del CD avevano stigmatizzato l’aridità del nuovo sistema). Come non ricordare, ad esempio, l’Alex di Arancia meccanica di Stanley Kubrick quando suona la Nona di Beethoven sul suo avveniristico (quello, sì, un vero oggetto alieno!) Transcriptor Hydraulic.
Il resto è storia nota. Da allora sino ad oggi, nonostante l’introduzione nel 1997 del DVD e l’esponenziale evoluzione dell’hardware informatico abbiano consentito anche all’audio digitale di sperimentare nuove strade di supporti ad alta definizione (SACD, Blu-Ray Audio ecc.), la produzione di supporti vinilici sembra non aver conosciuto cenni di cedimento.
Dopo la forte accelerazione avvenuta in Europa nella seconda metà degli anni duemila con punte superiori al 300% (fonte Eurispes), ancora oggi il fenomeno è in continua espansione al punto che non è affatto raro incontrare rivendite di dischi dove la parte del leone la fanno gli scaffali dei vinili, mentre ai CD (causa anche la micidiale concorrenza del famigerato Mp3) sono riservati spazi assai più contenuti. Se poi occorresse un’icona per confermare l’attuale popolarità del vinile, basterà rammentare come appena qualche anno fa un’iniziativa dei Fratelli Fabbri Editori riuscì a portare una collana di vinili da 180 grammi (prima uscita una magnifica Sinfonia di Beethoven diretta da Karajan) persino in edicola. Ma c’è ancora un’ultima considerazione da fare. Indipendentemente dalla sua scarsa risoluzione in termini di frequenza di campionamento, almeno sotto il profilo dell’affidabilità in fatto di durata nel tempo il CD prometteva meraviglie.
Purtroppo, anche questo è un mito non immune da qualche scricchiolio. Molti CD della prima ora iniziano ad avere oggi più di trent’anni d’età, e sebbene la maggior parte di questi suonino ancora egregiamente, non sono infrequenti i casi in cui a volte s’inceppano, saltano intere sequenze di dati per poi bloccarsi definitivamente senza appello.
Pare ciò possa dipendere da processi di micro-ossidazione (ma molto dipende anche dalla cura con cui è stato conservato il supporto) dai quali lo strato di policarbonato di alluminio che contiene i dati non è purtroppo immune. Certo, ci stiamo riferendo a supporti prodotti più di trent’anni fa e sappiamo come da allora l’evoluzione dei materiali impiegati abbia fatto passi da gigante, E' dunque probabile che nel futuro il problema per quelli prodotti negli ultimi 15/20 anni non si ponga affatto. Non possiamo tuttavia esimerci dal rammentare come i dischi stampati da Emil Berliner nel 1889 suonino ancora oggi (a distanza di oltre 120 anni!) senza problemi di sorta.
Questa nostra breve panoramica su morte e trasfigurazione del vinile non sarebbe completa se non rammentassimo come nell’agosto e nel settembre del 1977 due navicelle costruite dall’uomo vennero lanciate alla ricerca di altre civiltà. Entrambe le sonde, Voyager 1 e 2, recano a bordo il Voyager Golden Record, un disco contenente i suoni del nostro pianeta: da un messaggio di saluto pronunciato in 55 lingue a vari brani musicali che spaziano da musiche rinascimentali a una danza da Le Sacre du Printemps, passando attraverso il Concerto Brandeburghese n.2 di Bach, l’aria della Regina della Notte dal Flauto Magico di Mozart, la Quinta sinfonia e la Cavatina dal Quartetto op.130 di Beethoven. Al disco è dunque stato affidato il ruolo di ambasciatore presso civiltà sconosciute attraverso uno dei più importanti messaggi mai formulati dall’uomo.
Un disco che non possiamo definire in «vinile» solo perché le circostanze avevano saggiamente suggerito di realizzare in rame rivestito in oro. A parte il dettaglio sul materiale, il disco è comunque in formato analogico e si presenta identico a quel microsolco che da oltre sessant’anni porta alta la bandiera della riproduzione sonora. Forse l’astronomo Carl Sagan potrà peccare di ottimismo, affermando in uno dei suoi libri che tra un miliardo di anni, quando tutto ciò che abbiamo costruito sulla terra sarà crollato nella polvere, il Voyager Golden Record potrà ancora parlare di noi. In ogni caso ci sentiamo sollevati al pensiero che il nostro messaggio in bottiglia sia stato consegnato ad un supporto di qualità, al momento il più longevo (e certamente il più affidabile) dell’intera storia fonografica.
Roberto Diem Tigani (“Musica”, 275, aprile 2006)
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