Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 04, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (7/14)

Perché tutti godono del ritmo, del canto, e in generale della musica?
Non è forse perché noi godiamo per natura dei moti conformi a natura?
Lo dimostra il fatto che ne godono i bambini appena nati.
ARISTOTELE, Problemi di musica, 921 a.

MUSICA E SPAZIO
Settima parte.
 
Museo di Capidomonte
(Scalone Esagonale)
Ci siamo domandati, nella precedente puntata di queste indagine, dove sia la musica. Né puerilità né semplificazione: la domanda va presa alla lettera. Anche i filosofi più radicati in una visione metafisica del reale non possono evitare un dato immediato della coscienza: la musica avrà pure la sua fonte in un sopramondo o in un antimondo, o esisterà magari una musica-archetipo sulla quale la musica sensibile è modellata, ma la musica dell'uomo, fatta dall'uomo e per l'uomo, è hic et nunc, in questo mondo dell'esperienza materiale presente ai sensi che sembra proprio essere l'unico mondo assegnato al pensare e all'operare umano. Esiste uno spazio corporeo, e la musica è in questo spazio.
Ma che cos'è lo spazio? Si potrebbe scrivere una storia della filosofia indagando fra le risposte date a questa domanda. Il passo aristotelico in exergo è la visione di un filosofo "antico", ma formalmente è al centro della filosofia, è il punto d'arrivo di un percorso già lungo secondo le ragioni della logica, non secondo le ragioni del tempo storico e rettilineo, dal momento che due secoli - quanti ne corrono dalle formule orfiche al maggior discepolo di Platone - sono di fronte alla realtà cosmica assolutamente nulla quanto sarebbero nulla diecimila anni. La musica, sottintende Aristotele, è movimento la cui misura è il tempo, e il movimento "conforme a natura" non può attuarsi se non nello spazio fisico. Detto questo, quasi tutte le idee sono state pensate, quasi tutti i giochi sono fatti. Si è detto che gli autentici percorsi del pensiero, circolari e non rettilinei, male si adattano alla rappresentazione storicistica della filosofia secondo il prima e il poi, in cui il post hoc è per diseducativa abitudine scambiato per un propter hoc. La connessione logica tra diverse definizioni dello spazio segue spesso un itinerario rovesciato rispetto a quell'astrazione che è il tempo rettilineo e storico, ed è sorprendente ma indubbio che proprio l'Occidente, intriso di storicità, abbia sviluppato un pensiero in cui molte formule trovano compimento in enunciati più antichi. Fra le visioni che legano lo spazio alla natura della musica, la più complessa e onnicomprensiva è nella filosofia occidentale quella esposta da Platone nel finale della Politeia; le speculazioni medievali, soprattutto quelle di Tommaso d'Aquino o della scuola di Chartres, sono dell'enunciazione platonica più premesse che postille. A sua volta, per quanto sembri irriverente il dirlo, l'analisi critica di Kant sembra preparare il terreno all'estetica dell'aquinate o di Chartres, poiché, malgrado la drastica dissimiglianza di linguaggio e di forma mentis, sgombra il campo da problemi preliminari.
Una celebre antinomia kantiana coinvolge direttamente la concezione della musica. Se lo spazio, pure immenso, è finito, la musica è una realtà d'incalcolabile ampiezza e di inconcepibili possibilità, ma delimitata; una gigantesca architettura di suoni entro confini forse inavvicinabili ma certi. Se lo spazio è infinito, anche la musica è infinita. Com'è noto, gli oppositori di Kant hanno sempre addebitato un errore al filosofo del criticismo: lo spazio kantiano è forma a priori dell'intuizione sensibile, ed è teorizzato come un "prima" rispetto alle cose intuite dall'esperienza. Il razionalismo contemporaneo alla Kritik der reinen Vernunft, e più tardi, con particolare irritazione polemica, il neotomismo, hanno osservato ripetutamente che non esiste uno spazio vuoto di oggetti, poiché soltanto gli oggetti esistenti generano, con il loro esistere, i rapporti di distanza e di volume, e quindi lo spazio è un "poi", un'astrazione che compendia in un termine le relazioni tra le cose sensibili. Otto anni dopo la prima edizione del grande libro kantiano, Johann Schulz, predicatore alla Corte del re di Prussia e professore ordinario di matematica all'Università di Königsberg, pubblicò la sua Pröfung der kantischen Kritik der reinen Vernunft (Hartung, Königsberg 1789), in cui commentava la definizione di Kant: "Lo spazio è il sentimento esteriore (äußere Empfindung) dell'esser-fuori-l'una-dall'altra (Äußereinanderseyn) delle sostanze". Schulz osservò: "Sarebbe superfluo ricordare per l'ennesima volta che la rappresentazione dell'esser-fuori-l'una-dall'altra presuppone già la rappresentazione dello spazio. Eccoci dinanzi a un circolo vizioso. E aggiungo: quale senso esteriore ci fornisce questo 'sentimento', come lo chiama Kant? Per ogni tipo di sentimenti o sensazioni di ciò che è esterno a noi è chiamato in causa un particolare organo di senso. Ma lo spazio è completamente diverso da tutte le sensazioni che noi riceviamo mediante i nostri cinque sensi. Esso, in quanto puro spazio indipendente dagli oggetti che in esso si collocano, non si può vedere, né udire, né toccare, né assaporare, né odorare" (pp. 153-154).
Quindi, secondo gli orientamenti antikantiani, inclini a una concezione finita della realtà spaziale, lo spazio di per sé non genera suono, né rapporti misurabili tra i suoni. Sono le cose sensibili che, generando lo spazio con il loro proprio ed effettivo esistere, generano anche il suono, le distanze, i rapporti tra grandezze, le misure. Negli enunciati, in verità, Kant non risolve l'antinomia finito-infinito, e lascia problematica la decisione. Ma è indubbio che date le conseguenze culturali tutte indirizzate verso l'infinito, secondo il corso del pensiero romantico, malgrado l'apparente equilibrio antinomico mantenuto da Kant, la tesi di uno spazio infinito è la più destabilizzante e nuova, la più insidiosa per la concezione teologica tradizionale. La visione dell'infinito favorisce la centralità dell'Io-penso kantiano e della Ichheit fichtiana che in gran parte ne deriva; è la strada che conduce all'Idea autocreatrice di Hegel, e ne sono coinvolti il soggettivismo di Jean Paul, l'es muß sein beethoveniano e la coppia schumanniana Eusebius-Florestan.
Nello spazio finito, scelto come tesi di battaglia soprattutto dall'opposizione cattolica a Kant, la musica predilige i contorni formali, la fedeltà alla "forma" e al "genere", la struttura matematica, le leggi "razionali" dell'armonia. Supporre lo spazio infinito significa privilegiare inevitabilmente lo spazio interiore, non misurabile ed estensibile ad libitum, e la musica più espressiva che non formale, in cui ogni composizione tende a farsi forma e genere a sé. La grande controversia che nel secolo XIX anima il fiero dissenso di un Hanslick contro Berlioz, Liszt e Wagner ha le sue radici anche nel mondo con cui storicamente viene frantumata l'antinomia kantiana finito-infinito.
La vivacità della controversia nel campo dell'estetica musicale è parallela all'asprezza della polemica contro l'infinito kantiano, che dagli anni in cui la Kritik der reinen Vernunft sommuove il pensiero occidentale si protende fino al decennio in cui muore Schumann. La durezza degli attacchi è sospinta dalla coscienza, talora inconfessata, che Kant non teorizza ex nihilo, ma rappresenta il punto d'arrivo di una grandiosa offensiva, scandita da potenti scosse: Isaac Newton (1642-1724), Philosophiae naturalis principia mathematica (1687); Leonhard Euler (1707-1783), Mechanica (1736); Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), Theoria philosophiae naturalis, 1763. E' un'offensiva di radice laica che tende ad escludere il tema di una creazione divina del mondo dal novero dei problemi propriamente filosofici e scientifici (è giusto osservare, tuttavia, che il tema si riaffaccia oggi nei punti cruciali di molte laicissime tesi cosmologiche a proposito del big bang come "evento-singolarità" dell'universo), e di conseguenza mira a dare dello spazio un'interpretazione matematica, indipendente dall'esistenza di oggetti, siano essi creati o non creati. E' inevitabile che l'indole matematica di tale analisi, in Newton come in Euler, favorisca la tesi di uno spazio infinito.
L'atteggiamento filosofico di altri uomini di scienza, implicante una visione teologica e creazionistica, è tanto più intransigente quanto più agguerrita è l'offensiva laica, né si può negare il suo sottile rigore. Nel secolo XIX, il prete cattolico Bernhard Bolzano (Praga, 5 ottobre 1781 - ivi, 18 dicembre 1848), figura di straordinaria altezza intellettuale, sviluppa una critica all'idea kantiana d'infinito nella Wissenschaftslehre (1837) e nei postumi Paradoxen des Unendlichen (1851).
La matematica è per Kant il campo d'esemplificazione privilegiato, in cui si attua più che altrove il punto di forza che egli attribuisce alla ragione, la sintesi a priori, che garantisce, in quanto a priori, trascendentalità rispetto all'esperienza e quindi verità, e aggiunge, in quanto sintesi, nuove conoscenze. Kant definisce 5 + 7 = 12 un giudizio cui alla nozione del soggetto, 5 + 7, si aggiunge una nozione tutta nuova, 12, non pensata prima. Bolzano obietta che per ottenere dalla somma di due numeri un terzo numero è sufficiente un'aggiunzione progressiva del tipo 7 + 1, 8 + 1, 9 + 1, ecc.: un'operazione "pre-pensata", analitica, implicita come procedimento a priori nel formarsi della serie dei numeri naturali. Ma la critica di Bolzano è fondata su un fraintendimento: Kant vuole evidenziare non il rapporto interno tra gli elementi dell'operazione, bensì il processo mentale compiuto nell'operazione.
Così Kant compie un tormentoso sforzo di assegnare alla ragione, malgrado i suoi ferrei limiti di azione in un mondo fenomenico e non noumenico della percezione sensibile e la sua impossibilità di cogliere in quanto ragion pura la cosa in sé e di assumere come oggetto di scienza le idee della metafisica tradizionale, un ruolo che le consenta di creare nuove conoscenze e nuovi oggetti del pensiero; la "tragedia della ragione", ossia l'inattingibilità della cosa in sé o noumeno, non impedisce a questo strumento dell'Io penso di utilizzare le infinite possibilità presenti nello spazio infinito e nel tempo infinito. Bolzano, nella cui concezione cattolica spazio e tempo sono finiti (soltanto Dio è infinito, né gli oggetti creati possono avere i caratteri d'infinità e di eternità propri del creatore), esclude che la ragione possa creare: può trovare il già esistente, e illuminarlo soltanto rivelandone la forma.
La conseguente concezione della musica trova il suo alveo nella cornice culturale disegnata dalla forte opposizione tra le tesi di fondo. Kant, che non esita a darci un'interpretazione tutta interiorizzata della musica, insiste nel legare il gusto musicale all'Empfindung. La vita emotiva e sentimentale allarga nello spazio interiore inesauribili possibilità alla musica, ma sempre in quella dimensione. Questa collocazione della musica è riduttiva, eppure coltiva, rendendolo fertile, il terreno da cui nascono, tra l'altro, quegli esempi di musica mozartiana in cui la libertà formale fa leva sull'intensità dell'Empfindung: momenti supremi, le misure introduttive del Dissonanzenquartett in do maggiore KV 465 (1785), o il Rondò in la minore KV 511 (1787). A Kant, assai più che non a Hegel, fa riferimento il linguaggio musicale romantico, e alla concezione kantiana dello spazio interiore sono consanguinei gli indirizzi di ricerca verso zone "intermedie" dell'armonia: la scomposizione cromatica degli intervalli, l'evento repentino di accordi alterati, l'improvvisa espansione o contrazione del discorso musicale.
Paradossalmente, il filosofo moderno il cui pensiero ha avuto gli esiti più critici nei confronti della tradizione rende finalmente chiara l'estetica musicale prevalente nel medioevo cristiano. La rende chiara nelle sue motivazioni più profonde rivelando i suoi argumenta ex silentio. Il collocare la musica esclusivamente nell'interiorità dell'Empfindung, errore riduttivo, isola il problema che i maggiori filosofi della Scolastica non affrontano, o affrontano con reticenza, eppure presuppongono secondo le loro intuibili inclinazioni culturali: la necessità di negare l'interiorità della musica, assegnando al canto e al suono degli strumenti unicamente lo spazio esterno e nella compagine della natura mondana, entro la cui cornice essi devono essere giudicati. Ma poiché quello spazio, secondo gli Scolastici, è l'unico che possa controllare i pericolosi turbamenti prodotti nell'animo della musica, e poiché è un'allegoria del creatore in quanto sua creatura, è inevitabile, nel discorso degli Scolastici, un'intenzionalità metafisica. E' ciò che esamineremo nella prossima riflessione.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 7, Luglio 1990, Anno XIV)

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