Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, agosto 01, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (11/14)

Nel canto e nell'accordo lirico di tutta la gamma dei sentimenti si riversano
la volontà e la pura intuizione, mirabilmente l'una all'altra miste.
Di tutta questa disposizione d'animo, così mista e divisa, l'espressione è il canto puro.
Arthur SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vortellung, I, 3, 28

ALLE RADICI DEL GRANDE ACCORDO UNIVERSALE
Undicesima parte.
 
La filosofia musicale di Platone, definita in termini supremi nella forma di un mito, è una delle più vitali e durevoli nella storia del pensiero, una delle più resistenti alla corrosione del tempo. Protesa come un ponte su epoche e fasi culturali in fuga, sopravvive in condizioni diversissime da quella in cui nasce. Tale persistenza ha molte cause, ma la più forte è una causa negativa, un argumentum ex silentio: per la metafisica musicale della Politeia, inarcarsi sulla storia d'Occidente senza quasi essere scalfita dal logorio di duemila anni - quanti ne intercorrono tra il terzo secolo a.C. e il XVI I secolo dell'era volgare - significa trarre forza dalle innumerevoli postille, anche da quelle più critiche, e riconoscerle sempre iuxta propria principia, poiché sino alla piena maturità del pensiero illuministico nessuna visione della musica parte da premesse radicalmente diverse da quelle di Platone. La musica di sfere, che nel mito di Er si colloca al di là della storia umana e dei fenomeni, in una zona ultramondana e incorruttibile, indica un limite estremo e l'audacia di una provocazione assoluta; l'unica alternativa a tale visione non può essere se non una visione in cui la radice, l'origine e il modello universale della musica siano collocati all'estremo opposto, nell'assoluto dentro anziché nell'assoluto fuori. Se l'essenza della musica, come dichiara Platone riassumendo tutta la linea di pensiero ellenico che lo precede a partire dai pitagorici, è metafisico, non naturalistica, ciò che poteva corrodere quell'interpretazione era soltanto il riconoscere l'origine della musica nella psiche, il più addentro possibile nell'interiorità, e possibilmente nei recessi psichici più profondi e segreti: un'interpretazione fisiologica, o biologica, o sociale, non sarebbe bastata (e infatti non bastò) a togliere attualità al finale della Politeia.
Questo nostro assumere la categoria psicologica di giudizio come l'unico vero oppositum alla categoria metafisica dovrebbe essere chiaro in sé; possiamo illustrarlo meglio con un'analogia riferita alla tradizione religiosa dell'Occidente cristiano. Che esistano non uno ma due cristianesimi dovrebbe essere noto, e soltanto un ipocrita opportunismo intellettuale impedisce di ammetterlo. Esiste un cristianesimo estetico-metafisico-visivo, che affronta il mistero con gli occhi dell'intelletto e con la fantasia poetica; è una forma di libertà, d'intelligenza e di leggerezza dell'anima. Esiste un cristianesimo etico-psicologico-precettistico, che affronta il reale con un moralistico codice di comandamenti e di divieti; è stato, per l'Occidente, oppressione, oscurità, peso. Il primo ha le sue radici vigorose nel pensiero precristiano ("pagano", se vogliamo usare questo aggettivo improprio), nei pitagorici e in Platone, nella dottrina del logos e degli archetipi; è proiettato verso il mondo esterno e la natura, ama la natura, gli animali e le piante (in tal senso, ha persino una sua connotazione ecologica), non disprezza il piacere, non penalizza la sessualità, è affascinato dalla bellezza; è riconoscibile in rari momenti della tradizione cristiana, e neppure tanto "ortodossi", in Origene, negli gnostici, in Francesco d'Assisi; i suoi rappresentanti sono una minoranza. Il secondo ha le sue radici tristi e malate in Paolo di Tarso, e, ancora risalendo, nei testi più cupi, moralistici e colpevolizzanti sparsi nell'Antico Testamento (chiedo scusa: mi si dice che tra poco "Nuovo" e "Antico Testamemo" saranno termini aboliti da una più aggiornata e ahimé più piatta terminologia); dà frutti in interiore homine, quasi una polizia dell'anima, alla ricerca di sussulti d'orgoglio e di tracce dei vizi capitali (alcuni dei quali noi giudichiamo virtù, come la superbia e l'ira); disprezza la natura, gli animali e le piante, ritenuti "inferiori" all'uomo, odia la sessualità, perseguita ogni forma di edonismo, privilegia la bruttezza da esso giustificata come "umiltà"; è riconoscibile negli Atti degli Apostoli (nel raccapricciante episodio di Anania), nelle letture paoline, negli agostiniani conati di "povertà" intellettuale, nell'eresia anabattista, nella struttura stessa della gerarchia ecclesiastica e nella fisionomia punitiva della morale cattolica; oggi, nei cosiddetti movimenti ecclesiali; i suoi rappresentanti sono, nella tradizione cristiana, la strabocchevole maggioranza. Il primo è il germe da cui è nata ogni forma d'arte cristiana, e quindi ogni bellezza fiorita sulla terra sotto il segno del cristianesimo. In particolare, quel germe ha permesso alla musica di rinascere con fatica ma con gloria nei primi secoli del cristianesimo occidentale, dopo che l'azione persecutoria della Chiesa vittoriosa nelle istituzioni aveva posto al bando della comunità la musica, arte peccaminosa e pagana, regno di bellezza, fonte di alto piacere fisico e intellettuale, e perciò rea di edonismo. Quella forma "platonica" di cristianesimo, perdente nella realtà storica, ci ha donato il Graduale triplex e la Missa de angelis, la scuola di Notre-Dame e il discanto, Guillaume de Machaut e Johannes Okeghem, Guillaume Dufay e Gilles Binchois, gli organi Antegnati e la Matthäus-Passion. La seconda, vincente forma di cristianesimo ha tenuto per alcuni secoli la musica in quarantena, e si è espressa attraverso i teologi che, nel Quattrocento, reagivano contro la polifonia dei fiamminghi con argomenti del genere: "Questa concinnitas di voci diverse, a parte il pericoloso individualismo che si annida in ogni pretesa di diversità, solletica i sensi provocando piacere, anzi, è d'irresistibile attrattiva: ergo, è peccato". Oggi invece questo cristianesimo istituzionale sembra colto da una frenesia musicale, e si esprime mediante miriadi di canti del tipo "Dov'è carità e amore, qui c'è Dio": sintassi perfetta, musica adeguata. Quanto alla diversità, rileggiamo la Commedia dantesca: "Diverse voci fanno dolci note" (Paradiso, VI, 124), dove il dissimile e perciò attraente è necessario all'essenza della beatitudine celeste, antitesi del peccato. E' superfluo precisare a quale dei due cristianesimi appartenga il cristiano Dante Alighieri, difensore dei filosofi eretici Sigieri di Brabante e Gioachino da Fiore, affettuoso biografo dell'antiecclesiastico Francesco d'Assisi. Superfluo è anche segnalare l'inconfondibile ispirazione platonica, guida alla filosofia della musica che Dante poeticamente enuncia.
Troppo lunga, l'esposizione di questa analogia? Lunga, può darsi; troppo, niente affatto. Infatti era più che un'analogia; piuttosto, il sommario per una monografia ampia, quasi onnicomprensiva e non scritta, nodo centrale delle croci e delizie d'Occidente, di cui le opposte concezioni della musica costituiscono un capitolo particolare. Se poi quel che è stato detto nelle righe precedenti sia poco oggettivo o troppo ispirato da animus polemico e fazioso, è da discutere. Lo proponiamo, infatti, come oggetto di discussione ai volonterosi e non superciliosi. Nel nostro caso, per giunta, essere faziosi o tendenziosi o partigiani non sarebbe un gran male. Abbiamo denunciato un nemico mortale, il nemico storico della libertà, della giustizia e dell'intelligenza, ma soprattutto il nemico capitale di tre cose più importanti dell'intelligenza, della libertà e della giustizia: il nemico del piacere, della felicità e della bellezza. Siamo convinti che un simile nemico vada combattuto con armi non cavalleresche, ma distruttive; se è possibile, con tecniche d'annientamento. Anche su questo, e sulle applicazioni intellettuali di questa formula, si potrebbe discutere. Molti secoli fa è avvenuto che sia stata posta in forse la legittimità della musica, la sua stessa presenza nella civiltà; la persecuzione potrebbe sempre ripetersi, poiché la storia è imprevedibile, e nessuna vittoria è acquisita per sempre. Una difesa postuma è troppo facile, ma non lo è una difesa atemporale, in assoluto.
Ecco perché abbiamo dato spazio all'analogia. Ci sembra che la moderna filosofia della musica, là dove essa cerca le radici di quest'arte in interiore homine piuttosto che nell'immutabile sfera sopramondana, sia una versione secolarizzata del cristianesimo paolino e moralistico. Poiché ogni posizione estrema genera paradossi, almeno in un aspetto le due concezioni della musica, quella metafisica e quella psicologica, si affiancano. Tanto la prima, culminante nell'eredità pitagorica presente in Platone, quanto la seconda, avviata sistematicamente da Kant con la Kritik der Urtheilskraft, riducono a ben poco il valore filosofico della musica diffusa in natura e del suo germe nascosto negli eventi mondani. La musica è dono cosmico o impulso interiore: è stato più difficile e meno frequente riconoscerla come parte del mondo naturale. La musica germinata dall'Io, ossia il pensiero di Kant e dei filosofi romantici sulla musica, sarà oggetto di nostre future riflessioni, e l'indagine non sarà breve né sommaria. Ora però siamo attratti da un altro terreno, e ci prepariamo a sorvolarlo. Il presupposto di un'origine della musica nel mondo naturale non è storicizzabile come una fase pura e semplice del pensiero, tra l'uno e l'altro estremo, tra Platone e Kant. Esso coesiste stabilmente con il platonismo precristiano e con quello cristiano. Si trova, per esempio, proprio in un dialogo platonico, il Timeo, in funzione dominante. Ciò significa che in Platone il Timeo e la Politeia sono due maniere diverse di concepire la musica come realtà universale: al vertice del mondo, oppure nella compagine del mondo, nelle sue venature, nei suoi meandri, nelle sue creature. Le due dottrine sono solidali in un punto, e ciò crea un secondo paradosso, ossia un affiancamento tutto diverso dal precedente: per l'una e per l'altra, la musica ha sede primaria nell'oggetto, non nel soggetto pensante. L'affinità è di prim'ordine, eppure non è né più né meno importante della drastica differenza in cui subito inciampiamo. Nel finale della Politeia, l'armonia è tutta raccolta e custodita nel sopramondo, intorno al fuso di Necessità; il mondo sublunare è disarmonico per definizione, e può soltanto tendere verso un'imperfetta mimesi dell'armonia. Nel Timeo, l'armonia universale è armonia del mondo, e lo stesso sistema della natura offre gli strumenti e i nessi perché l'armonia possa prodursi e persistere. Questa diversità, su cui si glissa, non potrebbe avere contorni più netti.
Ecco irrompere nei problemi affrontati dalla filosofia della musica il grande tema trattato in un celebre libro da un filosofo che fu anche sommo filologo, Leo Spitzer (Vienna 1887 - Forte dei Marmi 1960). Il libro è Classical and Christian Ideas of World Harmony (edited by Anna Granville Hatcher, John Hopkins Press, Baltimore 1963), pubblicato più di vent'anni fa in lingua italiana (trad. di Valentina Poggi, L'armonia del mondo: storia semantica di un'idea, Il Mulino, Bologna 1967). Il saggio di Spitzer, cui stranamente ricorrono di rado i filosofi, è in realtà un insostituibile strumento preliminare che si offre, come geniale repertorio già rielaborato ad alto livello speculativo, alla riflessione filosofica, imponendole l'obbligo di un'attenzione linguistica e filologica poco radicata nella tradizione, soprattutto italiana. Prima di accedere, nelle prossime puntate, ad alcuni importanti connotati del nesso musica-natura o musica-mondo, è necessario definire in termini essenziali il tema così come Spitzer lo individua.
Spitzer, filologo austriaco di nascita e di scuola (allievo del grande romanista Wilhelm Mayer-Lübke), filosofo di radice ebraica mitteleuropea, intellettuale enciclopedico e tale da rappresentare, come Ernst Robert Curtius ed Erich Auerbach, l'essenza della cultura occidentale e la sua summa di ellenicità, latinità precristiana, latinità bassa e medievale, cristianità romanza, cultura francese, italiana, inglese, germanica, tradizione artistica, musicale, estetica, filosofica, illuminò le proprie inesauribili conoscenze e il mirabile edificio mentale con cui le organizzò usando la vivida lanterna della linguistica, intesa anche come glottologia e studio delle etimologie; disciplina, quest'ultima, che nei padri della Chiesa, nei poeti provenzali e stilnovisti, in Dante stesso, aveva rappresentato un impegno di autentica natura filosofica. Di somma importanza è proprio il dato linguistico da cui Spitzer parte. Il libro, pubblicato postumo, nacque da corsi accademici tenuti in lingua inglese in un'università americana, la John Hopkins, e in lingua inglese fu redatto dalla curatrice, ma la lingua in cui esso fu "pensato" è il tedesco. E' significativo che l'idea di armonia del mondo sia sottoposta da Spitzer all'analisi linguistica preliminare attraverso un termine tedesco che non è, in corrispondenza con quello inglese o italiano o francese, Weltharmonie, bensì Stimmung: una parola ricca di significato musicale, e legata strettamente alla musica mediante la radice Stimme, "voce", nelle più svariate accezioni, da "voce cantante" a "voce di uno straniero" a "voce orchestrale individuabile nella partitura" a "parte strumentale" edita separatamente dalla partitura d'insieme. Presa a sé, la parola tedesca Stimmung è intraducibile. Ciò non vuol dire che frasi come "in guter (schlechter) Stimmung sein" non si possano tradurre con "étre en bonne (mauvaise) humeur" o "essere di buon (cattivo) umore", o che "Stimmung hervorrufen" non possa corrispondere esattamente a "creare un'atmosfera". Manca però nelle principali lingue d'Occidente un termine che, come Stimmung, esprima l'unità dei sentimenti avvertiti da un uomo dinanzi a ciò che lo circonda (un altro uomo, il paesaggio, la natura nel suo insieme) e sappia fondere il dato oggettivo (naturale, fattuale) e quello soggettivo (psicologico) in armoniosa unità. Il filosofo svizzero Henri-Frédéric Amiel (1821-1881), con la sua frase tratta dal Journal e spesso citata, "le paysage est un état d'áme", rivela, tramite l'uso francese di due parole, "état" e "áme", in luogo di una sola, Stimmung, il fondamentale dualismo imposto dalla sua lingua romanza. L'anima tedesca, panteistica per vocazione, tende a superare il dualismo. Un francese non può dire 'Thumeur d'un paysage" né "mori atmosphère", mentre il tedesco può dire "die Stimmung einer Landschaft" o "'meine Stimmung". Soltanto in tedesco il rapporto del soggetto con l'oggetto, dell'uomo con il mondo può alludere con esatta analogia a un accordo musicale, a un insieme sinfonico.
Naturalmente, questa unicità d'uso è esclusiva dello strumento linguistico tedesco, non della sensibilità o delle idee di tradizione germanica. In tal senso, Stimmung esprime un modo d'essere squisitamente europeo, occidentale in senso lato. Un cinese, erede di raffinatissime sottigliezze intellettuali, non potrebbe mai cogliere nel profondo il vero verso di Verlaine, "Il pleure dans mon coeur", né la musica associata da Debussy a quel verso nelle Ariettes oubliées. Se Stimmung allude a qualcosa di musicale, si tratta di musica come noi in Occidente la pensiamo, e la parola sottintende una filosofia della musica quale soltanto in Occidente è intelligibile. Nelle prossime occasioni del nostro discorso, esamineremo le situazioni culturali di rilievo in cui la filosofia ha visto il mondo, non il sopramondo, investito direttamente dal grande accordo universale di cui la musica, con radici propriamente mondane e naturali, è modello.
Quirino Principe
("Musica Viva", n.12, Dicembre 1990, Anno XIV)

1 commento:

Alex ha detto...

Bellissimo! Ci sono gli articoli successivi? Grazie