R. Avevo un rapporto con la musica principalmente legato alla personalità di mio padre, che aveva studiato violino al Conservatorio B. Marcello di Venezia, ed amava moltissimo la musica. Si gloriava spesso di quando, Wagner, poco prima di morire andò in quel conservatorio a dirigere l’orchestra degli studenti, fra cui c’era anche lui. Chi veramente aveva molta passione per la musica era mio padre. Non fece il professionista perché era avvocato, aveva già una carriera politica avviata e così suonava d’estate. Quando andavamo in villeggiatura in montagna suonava con una nostra amica pianista e mi piaceva ascoltarlo (e si mette a canticchiare un motivetto come a rivivere quei momenti).
D. Lei ha studiato musica?
R. Ho avuto la disgrazia di avere studiato un po’ di pianoforte con un’insegnante che era diventata un’istituzione in famiglia ed era obbligatoria. Insegnava a tutti i miei cugini e nessuno poi ha continuato, perché era un’insegnante fasulla, non sapeva proprio insegnare e così, purtroppo, non ho mai imparato bene la musica.
D. Ma le interessava seguire i concerti?
R. Sebbene a Venezia in quel periodo non vi fossero molte possibilità, perché l’unico teatro era "La Fenice", vi andavo spesso. Pur non godendo di una seria preparazione musicale ne avevo quel tanto che mi bastava per leggere una partitura. Ascoltavo soprattutto Wagner, perché in casa mia c’era questa grande passione per la musica di Wagner. Io andavo alla Fenice in loggione, e mi piazzavo all'estrema sinistra rispetto alla scena.
D. Perché?
R. Le opere che eseguivano le conoscevo abbastanza bene ed allora mi piaceva veder di fianco il direttore e mi appassionavo moltissimo osservare tutti i settori dell’orchestra nel loro avvicendarsi. Mi sembrava che la musica ne venisse arricchita.
D. Col tempo si sarà formato progressivamente una cultura musicale.
R. No, non molta, sempre per questa maledetta faccenda di non avere mai tempo per nulla. Ma ho un ricordo indelebile di un grande avvenimento che si tenne a Padova, nel 1922. Appena laureato sono stato assistente di psicologia in quella università. Per festeggiare il settimo centenario della fondazione dell’Ateneo vennero programmati una serie di concerti nel grande salone, che all'epoca in cui Padova era un comune serviva alle adunate popolari e come consiglio comunale. La sala quindi, non adatta acusticamente, venne fornita di tutta quella serie di accorgimenti acustici di cui necessitava. Un’emozione fortissima mi venne data dal sentire la quinta e la settima sinfonia di Beethoven dirette da Arturo Toscanini.
D. Cosa rappresenta per lei la musica ora, e quali autori ascolta più ricorrentemente?
R. I classici, in particolare Beethoven. Io ho sempre canticchiato, mentre camminavo e correvo, a seconda di ciò che stessi facendo. Anche ora, che non cammino più molto bene, mi piace canticchiare marcette o motivi che improvvisamente ricordo. Anche mentre mi allaccio le scarpe compongo nella mia testa e canticchio questi motivi che poi sono tutte reminiscenze che rielaboro un po’. Potrei dire che la mia vita si è sempre svolta con un sottofondo musicale che variava a seconda delle occasioni.
D. Non avendo molto tempo per la professione che conduce, ascolterà invece molti dischi; vedo sulla sua scrivania "Die Frau Ohne Schatten" ("La donna senz'ombra") di R. Strauss su testo di Hugo von Hofmansthal.
R. No, non ascolto molti dischi, mi diverto piuttosto a suonare la pianola elettrica inventando vari motivetti ed eseguendoli solo con la mano destra, perché non sono capace di fare l'accompagnamento. Questo disco di Strauss, che lei ha visto, mi serve per studiare il tema di una conferenza che dovrei tenere per gli Amici della Scala. Il problema dell’ombra è un problema psicologico molto interessante, il problema del doppio, del gemello, dell’identico, del ritratto, questo motivo dell’immagine di sé stessi riflessa che è uno sdoppiamento ed anche una perdita d’identità. La perdita dell’ombra è la perdita della propria identità; è per studiare questo problema che mi sono procurato il libretto ed il disco della "Donna senz'ombra". Un mio allievo, ora, sta tenendo su questo problema un corso all'Università di Milano. Questo problema è presente non solo in opere di fantasia ed è psicologicamente molto interessante.
D. "Il ritratto di Dorian Gray" di Wilde è esemplificativo di questo problema: lo sdoppiamento d'identità. Ritiene sia molto frequente fra gli artisti?
R. Si, moltissimo. Un artista può andare soggetto a complicazioni nevrotiche come ogni uomo, ma forse in misura maggiore per la forte risonanza della vita emotiva, per i fattori esibizionistici della propria persona o per i problemi di successo ed insuccesso. Lo sdoppiamento d’identità è quasi implicito in un artista: il vedere se stesso sdoppiato, il problema di obiettivare in qualche modo la propria identità.
Chi è il musicista? Il musicista quindi interprete, ricalca il compositore, ricalca l`opera d'arte scritta da un altro, s’identifica nell'opera del compositore; quindi la doppia identità è un problema che abbastanza comprensibilmente tende a coinvolgere in prima persona il musicista in particolare, come del resto anche l’attore. L’attore deve cambiare sempre personalità; quando deve recitare deve essere il personaggio che interpreta.
D. Ed il direttore d'orchestra?
R. Ha lo stesso problema ed in più il problema dell’orchestra. Perché il direttore s’arrabbia? Perché un musicista non suona bene, perché non lo segue, perché è lui che sta suonando tutti gli strumenti, suona con i gesti servendosi dei musicisti, diventa lui stesso l’orchestra intera.
D. Cosa sono i "crampi professionali" che spesso colpiscono i musicisti?
R. Ogni musicista ha un rapporto particolare col proprio strumento; il proprio strumento diventa una sorta di prolungamento del proprio corpo. Anche il direttore suona con tutto il corpo. Questa partecipazione corporea fa si che i musicisti siano particolarmente sensibili e soggetti a manifestazioni di carattere psicosomatico.
Si sviluppa una sensibilità corporea particolare che i tedeschi chiamano il "linguaggio degli organi". Gli organi partecipano interamente all'espressione del pensiero, ed a questo motivo sono riconducibili i crampi professionali, cartina tornasole di conflitti psichici interiori. Questi "crampi" sono delle piccole isterie localizzate, non sono le grandi isterie di una volta caratterizzate da convulsioni ed attacchi epilettici, che avevano tutte, comunque, un preciso significato, erano una rappresentazione, un dramma esplicito gestualmente. Ora questo tipo d’isteria classica è completamente scomparso, esiste solo in alcune zone dell’Abruzzo e nei paesi del Terzo mondo. Non si sa come mai sia scomparso, ma, quando sono stato in Cina nel '55, alcuni medici cinesi mi parlavano di vedere ancora in alcuni pazienti le stesse manifestazioni che a Parigi risalivano alla fine dell’800. Forse sono scomparse in seguito alla capacità d’interpretarle, di darvi un significato. L’attacco isterico, infatti, ha sempre un significato, è un dramma recitato in modo sommario, ma è un dramma.
Adesso non avviene il tipico attacco isterico ma l’isteria è localizzata in uno o più organi particolari, ha quindi un carattere solo parziale. Bruno Walter ne fu colpito ad un braccio, non poteva più dirigere. Ora si tratta sempre di paralisi o contrattura, ciò implica la messa fuori combattimento di un organo fondamentale al proseguimento delle proprie mansioni e quindi scaturisce generalmente da un conflitto psichico profondo.
D. Cosa e successo a Bruno Walter?
R. Bruno Walter venne colpito da una paralisi isterica al braccio destro verso il 1904 che gli impedì di dirigere per un certo periodo di tempo. Walter rimase probabilmente suggestionato da due fattori in particolare: Mahler, che per lui rappresentava un padre, gli consigliò, dopo il fiasco nella direzione del Tannhäuser di Wagner a Vienna, di accettare l’incarico offertogli a Colonia; inoltre aveva a che fare con molti critici e calunniatori antisemiti, in entrambi i casi si trattava di allontanarlo. La paralisi derivò da questi due fattori principalmente e Walter ricorse a Freud che lo aiutò nella soluzione di questo problema. Walter stesso diceva: "Cercai di familiarizzarmi con le idee di Freud, e di imparare da lui. Mi sforzavo di adattare, pur senza danneggiarla, la mia tecnica di direzione alla debolezza del mio braccio; ed a forza di apprendere e dimenticare, di sforzarmi ed avere fiducia, mi riuscì di ritrovarmi padrone della mia attività.
D. Ha avuto in analisi molti compositori?
R. Solo uno, quando era piuttosto giovane, un compositore veneziano scomparso purtroppo molto giovane, Bruno Maderna.
D. Chi è soggetto a maggiori nevrosi fra un esecutore, un direttore, od un compositore?
R. Certamente moltissimo l’esecutore; infatti il problema della musica nel tempo è di enorme portata. Nelle arti plastiche, come in quelle letterarie, o per lo stesso compositore, il prodotto che viene creato rimane ed è modificabile nel tempo. Per l’esecutore (come per l'attore) ciò che egli crea o (ricrea) si svolge ed esaurisce nel tempo. Rimane solo il ricordo ed è quindi un continuo ricreare in ogni momento, sottoponendosi a notevoli stress. Quando poi con le tecniche moderne si parla di registrazioni e quindi di fermare nel tempo un’esecuzione, gli esecutori stessi sono messi in crisi. Si apre tutto un campo nuovo in cui hanno la possibilità di scatenarsi particolari processi nevrotici, come fobie delle registrazioni, dubbi ossessivi sulla loro validità, con propositi di ritirarle o distruggerle.
D. Qual è la causa principale?
R. Questi pazienti sono di grande interesse per uno psicanalista. E' il problema della procreazione, fondamentalmente, in quanto si mandano proprie creature, divenute autonome registrazioni), in tutto il mondo; ed insieme il problema che queste registrazioni non possano essere degne di chi le ha eseguite.
D. Le sarebbe piaciuto fare il concertista, il direttore od il compositore?
R. lo sono già un compositore; quando suono sulla pianola o canticchio, compongo. Comunque credo che questi tre ruoli non possano essere così nettamente divisi, non credo che un compositore non diriga anche i suoi pezzi. Qual è quel compositore che non fa anche il direttore?
D. Oggi più di ieri, mi sembra che la maggior parte dei compositori non diriga le proprie composizioni. Perché le sembra cosi strano?
R. Non so, ma mi sembra che comporre senza dirigere il proprio pezzo diventi un’operazione in certo qual modo artefatta, che una composizione si riduca ad un puro fatto cerebrale, non pienamente vissuta. Perché una composizione sia vissuta deve essere eseguita o diretta dal creatore stesso.
D. Insomma se lei facesse il compositore vorrebbe anche dirigere la "propria creatura"?
R. Sì, se fossi compositore vorrei certamente dirigere tutti i miei pezzi.
D. Del problema del contemporaneo in arte, cosa ne pensa?
R. Il contemporaneo fa sempre un brutto effetto. Nel campo artistico l'innovatore è sempre qualcuno che tenta una via nuova e quindi difficilmente è riconosciuta dal pubblico o dai canali della critica ufficiale. E' sempre necessario molto tempo, prima che questo riconoscimento avvenga; alle volte ci sono persone di particolare intuito che "fiutano" il successo dell'innovatore. La maggior parte delle volte, invece, si parla di successo ritardato per l’innovatore, perché rompe certi schemi a cui il pubblico è abituato, e in cui vorrebbe sempre ritrovare anche i nuovi artisti. C’è sempre, nell'artista contemporaneo, il problema dell’incomprensione. Il nuovo artista ha sempre l'esigenza di creare qualcosa d’innovativo, di ricercare nuovi modi d’espressione ed è quindi naturalmente in contrasto col proprio pubblico, finché la spunta.
Fulvia Riccardi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXIX n. 1, gennaio 1986)
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