Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, ottobre 10, 2024

Cesare Ferraresi (Trio di Milano)

Ottenni il trasferimento dal conserva
torio di Trieste al conservatorio di Milano nel 1962, e a Milano mi stabilii all'inizio dell'anno scolastico 1962-63. Il mio ingresso nel conservatorio coincise casualmente con il cambio del direttore: Giorgio Federico Ghedini, musicista illustre, andava in pensione, arrivava Jacopo Napoli, assai meno noto. In verità, Ghedini non era affatto contento di andare in pensione, e prima di cedere le aveva tentate tutte. Giulio Confalonieri aveva scritto, non ricordo più su quale giornale, un articolo intitolato ”L'arte non va in pensione a settant'anni”, uomini politici si erano mossi per vedere con il Ministero se si poteva fare un'eccezione, e Ghedini stesso era andato a perorare la sua causa presso il Ministro in persona, giocando una carta che gli era stata fornita da un professore espertissimo di leggi e di regolamenti. ”Maestro, purtroppo non posso far nulla", disse a Ghedini il Ministro, “perché la legge prevede che chi ha raggiunto i settant'anni, a meno che non sia stato sospeso dall'insegnamento durante il fascismo e non abbia perciò raggiunto il massimo degli anni di servizio, debba esser posto in quiescenza". Ghedini era antifascista, ma di sospensioni non ne aveva subite, e quindi... Però, però... “A dir il vero, Signor Ministro”, obbiettò, “c'è un precedente: Cesare Nordio - che aveva fatto la Marcia su Roma e che perciò... - andò in pensione a settantadue anni”. Il Signor Ministro rimase folgorato. Chiamò immediatamente il funzionario che gli aveva fornito le notizie sulla pratica e gli comunico quel che Ghedini gli aveva appena detto.
“È vero, Signor Ministro”, rispose prontamente il funzionario. “Il Maestro Nordio rimase per due anni oltre il limite d'età perché il direttore del Conservatorio di Bolzano deve parlare il tedesco. E siccome il Nordio era l'unico direttore che conoscesse il tedesco venne autorizzato a rimanere finché non fu espletato il concorso ad hoc”. ll Ministro aveva già aperto la bocca per dire “come vede, e mi dispiace, ecc. ecc.”, ma Ghedini lo bloccò fulmineamente. "Perfetto, allora non c'è problema: Nordio era l'unico direttore che sapesse il tedesco, io sono l'unico che sa la musica”. Il Ministro e il funzionario si fecero una bella risata... Ma a ottobre Ghedini dovette lasciare il conservatorio.
Io, arrivato fresco fresco, assistetti al passaggio delle consegne. Ghedini parlò, ascoltò il discorsetto di Jacopo Napoli - che non era un oratore, che balbettava leggermente quand'era emozionato, e che leggeva perciò da un foglio che aveva preparato - e poi avviò con il neodirettore, divertendosi a tenerlo sui carboni ardenti, un colloquio che divenne ben presto un interrogatorio.
Nei mesi precedenti i professori s'erano appassionati al caso-Ghedini, parteggiando pro-il-direttore o pro-il-regolamento, ed erano perciò molto eccitati durante la cerimonia del passaggio delle consegne. Io mi trovai casualmente seduto vicino a Cesare Ferraresi, che era stato un acceso pro-Ghedini e che commentò a bassa voce ogni frase del vecchio e ogni frase del nuovo direttore, spiegandomi le allusioni che io non avrei saputo cogliere.
Avevo conosciuto Ferraresi nel momento in cui m'ero seduto vicino a lui, presentandomi: “Da dove arrivi?", m'aveva detto, “Ah! da Trieste", e s'era messo a parlare di Gabriele Bianchi, direttore del conservatorio di Trieste per alcuni anni, che conosceva e di cui conosceva il Concerto per violino, e poi di altri musicisti triestini. Chiacchierammo - cioè parlò lui, mentre io interloquivo a monosillabi - per una decina di minuti, e quando i due direttori entrarono eravamo già amici.
Conosco troppo bene l'ambiente dei conservatori, e lo conoscevo già benissimo nel 1962, per non sapere che il nuovo arrivato viene in genere guardato con diffidenza. Fui perciò molto stupito per l'accoglienza di Ferraresi, e gli fui grato di non avermi lasciato lì impalato. Sapevo benissimo chi fosse, naturalmente; sapevo anzi più di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare perché me ne aveva molto parlato un contrabbassista mio amico, che era stato con lui nell'orchestra dei Pomeriggi Musicali. Sapevo quindi non solo chi era ma com'era, e sapevo che subito dopo la guerra aveva sbarcato il lunario anche suonando tanghi nelle feste degli industrialotti brianzoli, facendosi poi la fama di grande tanghista ad un punto tale che con una serata in provincia riceveva una somma pari allo stipendio di un mese in orchestra. Nel 1962 Ferraresi aveva lasciato da tempo i Pomeriggi: era la "spalla" dell'orchestra della RAI.
Però era rimasto il musicista-musicista, quello che suona qualsiasi musica - che sia il tango o che sia Brahms - con la stessa passione e con la stessa proprietà stilistica. Suo fratello Aldo, gran virtuoso - mi disse in un'altra occasione -, con i tanghi sfolgorava. Ma anche lui aveva saputo cavarsela; e non si vergognava affatto del suo passato di tanghista-principe, perché per lui la musica era una sola, se era musica. Mozart, in fondo, non la pensava diversamente...
Non vidi mai Cesare Ferraresi fuori dal conservatorio, ma in conservatorio lo vidi molto spesso: in sala professori, nei corridoi, al bar. E con lui parlai moltissimo o, meglio, stetti moltissimo ad ascoltarlo. L'umanità di Ferraresi era senza limiti, la sua gioia di vivere e di far musica era straripante. Uno dei più frequenti argomenti delle nostre conversazioni furono i direttori d'orchestra che venivano invitati nella stagione milanese della RAI, e che io valutavo dalla platea, di schiena, mentre lui li valutava dal palco, di fronte. Da lui imparai a capire la differenza fra l'orchestra che suona volentieri e 1'orchestra che suona, magari benissimo, malvolentieri. Malvolentieri perché il direttore non se l'è fatta amica durante le prove.
Ferraresi prediligeva i direttori che parlano molto con la bacchetta, e detestava quelli  che parlano molto con la lingua. “Grande direttore, grandissimo”, mi disse di uno che era effettivamente grandissimo, "ma dopo due giorni di prova non se ne può più, si comincia a pensare con fastidio al mattino dopo”. Era una grande spalla, Ferraresi, un trascinatore che teneva compatta la fila dei primi violini. Ci sono spalle che durante le prove discutono con il direttore arcate e diteggiature e poi le spiegano alla fila e si arrabbiano se la fila non ha pronta la matita per mettere sulle parti i segni, ci sono spalle che fanno anche studiare la fila, magari per pochi minuti ma portando allo scoperto i pigri e inducendoli indirettamente a guardarsi poi la parte a casa. Però, all'esecuzione, ciò che conta sono la punta dell'archetto della spalla, che tutta la fila vede, il suo gesto di preparazione degli attacchi difficili, la fulminea occhiata in tralice che scambia con il compagno di leggio, il ”concertino”. Ferraresi, sentiti i desiderata del direttore, sceglieva arcate e diteggiature, le faceva vedere alla fila e non si curava di controllare se ciò che aveva deciso veniva o no riportato sulle parti. Tuttavia la fila, al momento del concerto, era pronta ed aveva raggiunto la compattezza di una testuggine romana.
Il fatto è che le diteggiature e le arcate di Ferraresi erano connaturate ad una finalità musicale semplice, immediata, vorrei dire fisiologica. Una volta, dovendo fare delle trasmissioni radiofoniche sugli studi didattici per pianoforte, per violino e per violoncello, chiesi la disponibilità di alcuni strumentisti. Ricordo che Franco Gulli rifiutò: “Per far bene gli Studi di Kreutzer”, mi disse, “dovrei star fermo per tre mesi e dovrei richiedere perciò un onorario che la RAI non potrebbe darmi”. Un altro violinista mi comunicò che accettava con piacere, aggiungendo però che gli Studi di Dont li avrebbe eseguiti, cioè che io avrei dovuto accontentarmi di un'esecuzione più musicale che tecnica. Ferraresi accettò con entusiasmo. Poi, ogni volta che l'incontravo, mi diceva: "Sai, in quel Libon non riesco a trovare la musica. E se non la trovo non so suonarlo”. Alla fine la trovò, e la sua esecuzione non fu né “musicale” né “tecnica” ma semplicemente giusta.
Ferraresi lavorava in un'orchestra italiana ma era come se lavorasse in un'orchestra tedesca, perché aveva formato un complesso d'archi con cui teneva dei concerti extra, aggiungendo a volte dei fiati per fare l'operina.  Era un po', in piccolo, come Renato Fasano, che con i suoi Virtuosi di Roma alternava i concerti e il teatro da camera, e si divertiva ad avere occupata tutta la giornata con la musica. Un giorno - inusitatamente, perché ci incontravamo sempre per caso - venne a cercarmi in classe, per dirmi che aveva formato un trio con Bruno Canino e Rocco Filippini.
E mi chiese - ero allora direttore artistico dell'Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma - se il complesso avrebbe potuto interessarmi. Gli dissi di sì, ma gli obbiettai che forse un trio nuovo non avrebbe trovato molte aperture, visto che c'erano il Trio di Trieste e il Trio di Bolzano. Mi rispose dicendo di averci pensato, ma di esser convinto di  poter coprire i periodi che l'orchestra gli lasciava liberi, e di voler comunque tentare.  Ed ebbe ragione.
Era sorprendente, per me, che si formasse un nuovo trio non con giovani ma con professionisti affermati. Ed era sorprendente che i tre non appartenessero alla stessa generazione. Però Ferraresi doveva aver preferito due che gli somigliavano e sui quali poteva - come dire? - esercitare artisticamente la patria potestà. Fatto sta che il Trio di Milano partì molto bene e che si affermò rapidamente. Cesare Ferraresi scomparve prematuramente: nel 198l, a sessantatré anni non ancora compiuti. E la sua, mi fu detto, fu una morte serenamente accettata. Il Trio  di Milano continuò ad esistere dopo di lui, ed esiste ancora, ormai con quasi trent'anni di attività alle spalle. Fa piacere a me, e credo farà piacere ai miei lettori, ascoltarlo nella prima formazione. E fa piacere a me poter ricordare, e fare conoscere a chi non lo conobbe, Cesare Ferraresi: un uomo verso cui non si poteva non provare simpatia, un musicista a trecentosessanta gradi.
Piero Rattalino
("Symphonia" N° 63 Anno VII, Giugno 1996)

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