- Serenata per 9 strumenti
- Salmo di David
- Quartetto per archi in do maggiore
- Pezzi per
violino e pianoforte
- Pensiero nostalgico
- Sinfonia da camera per 17 strumenti
Nel periodo fra le due guerre, tre compositori italiani
furono unanimemente riconosciuti dalla critica come i più
dotati: Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, entrambi
nati nel 1904, e Giovanni Salviucci, nato a Roma nel 1907.
La sorte riservò loro un ruolo scomodissimo: divenire
adulti e protagonisti della nuova musica italiana proprio
quando le idee di “nuovo” e di “avanguardia” venivano
ipotecate dalla dittatura fascista, per cui era impossibile
affermarsi stabilmente sulla scena musicale senza godere
dell’appoggio del regime.
Dallapiccola e Petrassi ebbero modo di superare e
“rielaborare” nella loro maturità i drammatici anni della
dittatura e della guerra, imponendosi come figure eminenti
del Novecento italiano. Questa opportunità fu negata
a Giovanni Salviucci che nel 1937, neppure trentenne,
fu stroncato da una meningite tubercolare. Sebbene
agli occhi dei tradizionalisti il suo uso della tonalità e del
contrappunto apparisse fin troppo modernista, Salviucci
non poteva certo definirsi un compositore d’avanguardia.
La sua scomparsa lo condannò, quindi, allo stesso destino
dei numerosi compositori che nel secondo dopoguerra
scomparvero per lunghi anni dalla memoria. Si trattava di
quegli autori, in genere progressisti, ma rimasti legati alla
tonalità, i quali, dopo la persecuzione da parte del regime
per ragioni razziali, politiche o estetiche, furono archiviati
frettolosamente dalla successiva narrazione, interessata
quasi esclusivamente agli sviluppi e alle implicazioni
dell’atonalismo e della serialità.
La famiglia Salviucci non aveva tradizioni musicali, ma
era fortemente legata agli ambienti clericali della capitale.
Fu così che il piccolo Giovanni studiò musica privatamente
con Ernesto Boezi, direttore della Cappella Giulia in San
Pietro e grande studioso di Palestrina, che gli trasmise
un’eccezionale padronanza e sensibilità contrappuntistica,
rimasta poi la sua cifra stilistica distintiva. Fu un periodo
di formazione che, inizialmente, tenne il giovane Salviucci
distante dai rivolgimenti musicali del nuovo secolo.
Conseguito il diploma di composizione nel 1931, Salviucci
si iscrisse al corso di perfezionamento tenuto da Respighi
all’Accademia di Santa Cecilia. Altrettanto decisivo fu però
l’incontro con Iditta Parpagliolo, anch’essa compositrice
e allieva di Respighi, che divenne poi sua moglie e lo
introdusse nell’ambiente della nuova musica, facendogli
conoscere, fra gli altri, Alfredo Casella e Goffredo Petrassi.
La carriera di Salviucci decolla a partire dal 1932, con
alcune pagine orchestrali accolte in Italia e all’estero da un
successo crescente* , al cui vertice si può collocare forse
Introduzione, Passacaglia e Finale (1934). La scomparsa
improvvisa gli impedì purtroppo di ascoltare le sue ultime
due composizioni, considerate da critici quali fedele D’Amico
e altri, i suoi capolavori: Alcesti. Episodio per coro e orchestra
e Serenata per 9 strumenti. Alla sua morte, Salviucci lasciò
anche tre figli, fra cui una bimba di nove mesi, Giovanna
che, col nome di Giovanna Marini è oggi famosa in Italia e
all’estero come folksinger e compositrice, e grazie alla quale
è stato possibile realizzare queste registrazioni.
Questo disco raccoglie tutte le pagine cameristiche
pubblicate da Salviucci a partire dal 1930, più un
sorprendente Quartetto per archi, composto nel 1932 e
rimasto inedito. In buona parte si tratta di prime registrazioni
discografiche.
I Pezzi per violino e pianoforte, pubblicati nel 1930,
appartengono ancora al periodo giovanile del compositore.
Sono sei brevi pagine di destinazione liturgica nelle quali
la religiosità cattolico-romana dell’ambiente famigliare e il
severo insegnamento di Ernesto Boezi, si coniugano in una
scrittura sobria ed espressivamente misurata, ma padrona di
un contrappunto che già sgorga con suadente naturalezza.
Il clima è prevalentemente elegiaco, con significativi
momenti di tenerezza e di abbandono melodico (n. 2 Elegia;
n. 3 Preghiera; n. 5 Meditatione), nei quali sembra già di
intravedere il tratto distintivo di Salviucci precocemente
intuito da Gianfrancesco Malipiero e sottolineato poi da
Fedele D’Amico: una nativa attitudine espressiva, tenuta
a freno inizialmente da una disciplina contrappuntistica e
formale che, via via, si trasforma e, da freno, si emancipa in
potente veicolo di quell’innata vocazione espressiva.
Dal medesimo clima emotivo dei sei Pezzi scaturisce
anche Pensiero nostalgico. Adagio per violoncello (o violino)
e pianoforte, pubblicato nel 1931: un breve Charakterstück
dagli echi tardo ottocenteschi, animato da una generosa e
vibrante melodia.
Procedendo cronologicamente, si arriva all’anno cruciale,
il 1932 nel quale viene alla luce il Quartetto per archi in
Do maggiore: composizione enigmatica in quanto la sua
ricchezza e la sua forza lasciano senza risposta l’interrogativo
del perché non sia mai stato pubblicato. L’Allegro moderato di
apertura, così come il terzo e ultimo movimento, Allegro vivace,
sfoderano uno slancio ritmico che risente indubbiamente di
quell’andatura martellante tanto enfatizzata nella produzione
musicale italiana del ventennio fascista. Ma Salviucci se ne
appropria in modo personalissimo, con quel suo contrappunto
che si sottrae a ogni stereotipo e si piega ad articolazioni
estremamente mobili e ricche di suggestioni imprevedibili.
A volte, negli unisoni potenti o in certe timbriche acute del
violino, traspare qualche traccia di Respighi, estranea però
a qualsiasi suggestione di arcaismo, a conferma di come
il tirocinio palestriniano si fosse totalmente emancipato
in liberissimo strumento creativo. Il cuore del quartetto
è l’Adagio molto, pagina di straordinaria carica emotiva,
aperta da una luminosa infiorescenza contrappuntistica il
cui respiro la distacca dalla coeva produzione quartettistica
dei connazionali. In un appassionato susseguirsi di densità
cromatiche, accensioni brucianti, abbandoni estatici, questo
Adagio si impone come un autentico gioiello della musica
italiana di quegli anni.
Nella produzione giovanile di Salviucci i brani di
ispirazione religiosa o liturgica, non solo vocali, come si è
visto, hanno una parte rilevante. Il congedo da questo genere
di musica è una pagina del 1933, il Salmo di David per canto
e pianoforte, trascritto anche in versione per voce e orchestra
da camera. La scrittura è di estremo interesse, poiché il
suggestivo involucro modale e arcaicizzante racchiude una
chiara polarizzazione melodico-armonica attorno alle note
Mib, Fa#, La, Do. È un tratto che rivela qualche familiarità
con certe esperienze europee di quegli anni, incentrate
sull’organizzazione ottatonica (ad es. Ravel) e che forse
risente del vivace dibattito sul linguaggio musicale che proprio
in quel periodo si era sviluppato anche in Italia.
Sinfonia da camera per 17 strumenti (1933) e Serenata
per 9 strumenti (1937) sono certamente fra le pagine più
riuscite del compositore. Per architettura e stilemi si possono
entrambe ricondurre all’orizzonte del neoclassicismo, ma la
personalità e la fantasia di Salviucci evitano i luoghi comuni
di genere o di tendenza, con uno stile che ha qualcosa
di narrativo nel susseguirsi sapiente di idee e di contrasti
spiazzanti. In entrambi i casi, l’organico intermedio fra camera
e orchestra consente al compositore di sviluppare pienamente
la dialettica, o competizione se si vuole, fra i due poli della
sua ispirazione; la passione per l’intreccio polifonico da un
lato e la vocazione melodica dall’altro. Sinfonia da Camera,
creata a Roma nel 1934, sotto la direzione di Casella, si
articola in quattro movimenti ed è scritta per flauto, oboe,
clarinetto, fagotto, tromba, corno, 6 violini, 2 viole, 2
violoncelli e contrabbasso. Già nel brano di apertura, Allegro,
memore forse del Concerto per archi op. 40 di Casella, certa
pulsazione omoritmica neobarocca, tipica del compositore
torinese, si ramifica in una trama ritmica e coloristica assai
più agile e raffinata, ricca di episodi solistici e, soprattutto,
di una luminosità che pervade l’intera composizione, dalla
tenera eufonia dell’Adagio, alla vivacità dialogante dei legni
nell’Allegretto vivace, fino all’elettrizzante contrappunto
ritmico dell’Allegro conclusivo.
Serenata, scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto,
tromba e quartetto d’archi, è dedicata al direttore d’orchestra
Nino Sanzogno. Rispetto alla serenità di Sinfonia, qui,
l’intreccio dei contrappunti, i cromatismi, le entrate motiviche
a sorpresa disegnano un tessuto più audace e inquieto. È
l’ultimo Salviucci. I contemporanei che ascoltarono la prima
esecuzione, diretta dallo stesso Sanzogno, al Festival di
Venezia l’8 settembre 1937, quattro giorni dopo la morte
del compositore, furono concordi nel percepire la sovrana
originalità raggiunta dal compositore. Una sorta, per così
dire, di “nuovo Malipiero”, irriducibile a qualsiasi etichetta,
proiettato verso un futuro che purtroppo non ci fu. I movimenti
sono tre. L’Allegro molto ha qualcosa di febbrile (D’Amico),
dominato da una scrittura contrappuntistica torrenziale e
costellato da contrasti improvvisi. Nel secondo movimento,
Canzone (Andantino), intessuto delle sognanti filigrane
solistiche di oboe, violino, fagotto, violoncello, ritroviamo la
magia del Salviucci più lirico. L’Allegro conclusivo suona come
il paradigma anticonformista di un contrappunto divenuto
sismografo della sensibilità individuale, libero di aggirarsi
disinvoltamente fra tonalità e cromatismi, ora ritmicamente
scalpitante, ora teneramente cantabile.
Non sapremo mai quanto l’italianissimo Salviucci
conoscesse della musica europea del proprio tempo,
ma nell’aria che qui si respira ci sono aromi che vengono
sicuramente da oltralpe.
Giordano Montecchi
* Tutti i lavori orchestrali di Salviucci furono eseguiti per la
prima volta al Teatro Augusteo di Roma, che fu demolito nel
1936 per ordine di Mussolini.
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