Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 24, 2007

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (II)

DALL'OPERA 59 ALL'OPERA 95
Nei tre Quartetti op. 59, pubblicati nel 1808 ma composti entro il 1803 per invito del conte Andrej Kyrillovic Rasumovskij, ambasciatore dello zar presso la Corte di Vienna, Beethoven assume nel quartetto d'archi l'imponenza formale, la densità strutturale e l'epica eloquenza già raggiunte nel dominio sinfonico, potenziando così un medium strumentale d'inaudite risorse senza per questo snaturarne la specificità: al contrario esaltandola e ampliandone gli orizzonti.

Ciò risulta evidente fin dal primo tempo del Quartetto in Do maggiore che apre la serie, dove la lunga fascia di accordi ribattuti a sostegno del dolce e trionfale motivo che germina dalla voce calda del violoncello, da vieta formula di accompagnamento si fa (come già era avvenuto nel Quintetto K. 515 di Mozart, che Beethoven non poté non avere presente) elemento fondamentale di quell'ampliamento del campo tonale sperimentato in modo precipuo nella Terza Sinfonia. Un sottile gioco di contrasti ritmici e fonici, e l'estrema iridescenza armonica di un discorso apparentemente svagato sono le caratteristiche del magico Allegretto rivace e sempre scherzando, che per la sua straordinaria estensione esorbita dalle normali dimensioni e funzioni di uno Scherzo, prefigurando la tipologia di quei movimenti "leggeri" che negli ultimi Quartetti talora sostituiranno gli Adagi o Andanti di tipo serioso: si pensi all'Andante con moto dell'op. 130. Nell'op. 59 n. I il movimento serioso è rappresentato da un Adagio molto e mesto in fa minore, la cui fitta innervatura polifonica, entro la quale serpeggia il canto, si scioglie progressivamente in un divisionismo sonoro a valori minimi concluso con una specie di vasta cadenza del primo violino, il quale plana sul "terna russo" del Finale, gioiosa pagina liberatoria tutta fremente di trilli e di brillanti figurazioni strumentali.
Più conciso ed improntato ad un lirismo cavalleresco e febbrile, quasi schumanniano, il secondo Quartetto in mi minore contiene il suo omaggio motivico al nobile committente russo nello Scherzo Allegretto, un brano contrassegnato da un fervido fraseggiare tutto impennate e ricadute, nel cui Trio fa la sua comparsa in tono lieve e scherzoso il celebre "Slava Bogu na Nebe Slava" (Gloria a Dio nei cieli, gloria) che Musorgskij introdurrà nella scena dell'incoronazione del Boris. Neppure il Finale, col noto attacco a sorpresa della frase che inizia in Do maggiore per terminare in mi minore, elude il clima generale di una composizione che Schumann avrebbe posto sotto l'egida di Florestan.

Di segno contrario appare il terzo Quartetto in Do maggiore, aperto da una breve introduzione accordale: un cordiale omaggio ad Haydn, alla sua spiritosa e virile nonchalance e alla sua scioltezza di mano, realizzato nello spirito di un certo oggettivismo costruttivo e di una gratuita gioia di "far musica" in contrasto con la tensione espressiva dei precedenti lavori. L'Andante con moto, quasi Allegretto, quasi una pastorale dai toni flebili e svagati, è tutta percorsa dal brivido misterioso del pizzicato del violoncello, mentre con il "Minuetto grazioso" i compiacimenti evocativi di un Settecento rivisitato con un atteggiamento intellettuale che chiameremmo estetizzante raggiungono il climax. Un Allegro molto fugato si snoda quindi sotto l'imperio di una pulsazione ritmica che finisce per inglobare nella propria realtà strutturale la stessa entità tematica del soggetto contrappuntistico.

Nell'intervallo di diciotto anni che separa i "Quartetti Rasumovskij" dal gruppo omogeneo degli ultimi capolavori, incontriamo altri due quartetti isolati: creazioni problematiche e stimolanti, presentano notevoli affinità di linguaggio e ispirazione e sono entrambe caratterizzate da un inquieto sperimentalismo che ne fa delle tipiche opere di transizione. Questo è particolarmente vero per il Quartetto in Mi bemolle maggiore op. 74, portato a termine nel 1809 e pubblicato l'anno seguente. Nell'Allegro iniziale, preceduto da un'introduzione lenta "sottovoce", Beethoven sembra perseguire l'intento di ricavare gli effetti più inusitati da materiali di una semplicità estrema. L'elemento strutturale che ha procurato al lavoro l'appellativo di "Quartetto delle arpe", ossia i ricorrenti "pizzicato", appare fin dall'undicesima misura, attraversando dal basso all'alto il tessuto strumentale, per poi dominare col suo colore "impressionistico" lo sviluppo e la ripresa. Verso la fine, il primo violino assume sorprendentemente un vistoso ruolo concertante, emergendo prima sul "pizzicato", poi sul canto imitato del secondo e della viola. Tanto più omogeneo è invece l'Adagio non troppo che prelude al rarefatto lirismo dei movimenti lenti degli ultimi Quartetti. Dopo un vigoroso Presto in do minore - col suo tema martellante che richiama quello della Quinta Sinfonia - e il vorticoso Trio, il Quartetto si conclude con una serie di variazioni su un semplice motivo, innocente e liederistico, dove il materiale viene organizzato con estremo rigore in sei episodi che sono forse il più esemplare modello d'integralismo strutturale beethoveniano: altrettanti esempi di permutazione ritmica, melodica, timbrica, dinamica e persino di attacco di suono.

Il Quartetto in fa minore op. 95, composto nel 1810 e pubblicato nel 1816, accentua l'ambiguità della sua comunicazione espressiva nei violenti chiaroscuri, nelle brusche impennate e nei trasalimenti ritmici dell'Allegro con brio, quasi un inquieto soliloquio che prosegue nell'Allegretto ma non troppo nel quale il finissimo ordito polifonico e l'iridescenza delle armonie accentuano l'enigmaticità del suo lieve sorriso di sfinge. Il movimento porta ininterrottamente all'Allegro assai vivace ma serioso, col tortuoso giro armonico del Trio; del pari un breve Larghetto espressivo è collegato all'Allegretto agitato finale, dallo splendido motivo fervidamente appassionato. Siamo così introdotti in quella ideale continuità di discorso (realizzata in una fluttuazione d'immagini musicali in apparente libertà, in realtà governate da una formidabile logica interna), che presiederà all'universo degli ultimi Quartetti trovando la sua espressione più radicale nell'op. 131.

di Giovanni Carlo Ballola (Philips, (p) 1989)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto interessanti questi due blog sui quartetti di Beethoven.
Come mai non è stato fatto il blog n° III? Mancano le opere più importanti come i quartetti op. 127,130,131,132,135.
Non le sembra un peccato lasciare il blog incompleto?
RobRoy

Anonimo ha detto...

Chiedo venia, dovevo consultare anche il mese di aprile prima di lasciare il mio commento. Ho pensato che la terza parte sui quartetti dovesse ancora essere pubblicata.
Veramente interessanti questi post sulla musica classica.
RobRoy