E’ l’argomento del giorno nell’ambiente italiano della musica classica inteso in senso lato, cioè includendo nella nozione anche i frequentatori non sistematici delle sale da concerto. Ramin Bahrami è un pianista di trent’anni che a guardarlo sembra ancora più giovane. E’ nato a Teheran; adesso vive con la madre in Germania nei dintorni di Stoccarda e ha alle spalle una storia triste. Il padre, ingegnere all’epoca dello Scià, venne incarcerato e ucciso dagli ayatollah. Ramin racconta che fu lui ad avviarlo allo studio del pianoforte e a raccomandargli di suonare soprattutto Bach: “Studia a fondo Bach” gli disse “e non sarai mai solo”. Madre e figlio riuscirono a fuggire dall’Iran e a riparare in Italia. Qui Ramin ha completato gli studi con Piero Rattalino, Alexis Weissenberg e Andràs Schiff. Parla spesso di loro con stima e affetto, al pari dei mitici virtuosi del passato che lo hanno influenzato – Glenn Gould, Claudio Arrau, Vladimir Horowitz, Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Sviatoslav Richter – ma più ancora cita un suo incontro con Rosalyn Tureck, la pianista americana studiosa e interprete di Bach. Tuttavia, un dialogo con Ramin desta la sensazione che il suo amore bachiano sia un tantino eccessivo e possa, nel prossimo futuro, danneggiarlo. Dice che, se gli avviene di eseguire per esempio uno Studio di Fryderyk Chopin, gli sembra di tradire il suo idolo; e la stessa cosa gli accade addirittura se suona (“come bis”, precisa) una Variazione che ha composto su un tema
di Elvis Presley, dedicata a un’amica.
La partitura, oggetto misterioso
Ramin Bahrami tiene concerti già da vari anni e il cd in esame è il terzo che reca la sua firma, dopo le Variazioni Goldberg del 2004 e l’album doppio del 2005 che contiene le sei Partite e l’Overture Francese, entrambi per Decca (il giovane mira in alto scegliendo opere bachiane imperiture). Vogliamo dire che finora non era accaduto nulla di paragonabile al gran parlare che si fa intorno all’Arte della Fuga secondo Bahrami. Cerchiamo di capire perché. Questa volta ci sono iniziative promozionali: citazioni radiofoniche, qualche incontro con l’interprete, concerti a Milano, Torino, Roma, Napoli e Imola, ma niente di trascendentale. Più consistente è l’argomento del fascino della partitura come oggetto misterioso (ci si passi il termine).
Die Kunst der Fuge fu composta da Bach giunto sul passo estremo della vita, è incompiuta perché la morte sopravvenne prima che fossero terminate la scrittura dell’ultima fuga e l’edizione a stampa, ed è priva dell’indicazione dello strumento o degli strumenti cui era destinata. La consuetudine prevalente di usare il pianoforte o il cembalo è frutto soltanto di ipotesi. A ciò si aggiunga che nei cataloghi le edizioni discografiche reperibili sono sempre poche e rare sono le esecuzioni nelle stagioni concertistiche. I solisti, senza dubbio, temono gli abissi espressivi dell’opera più che le difficoltà tecniche, eppure le platee intuiscono l’evento e lo accolgono con emozione. Chi scrive è in grado di ricordare un’interpretazione del pianista Pietro Scarpini nella Sala dei Giganti al Liviano di Padova. Correva l’autunno 1957 e il pubblico non sembrava preparato: eppure fu un trionfo e se ne parlò e discusse per mesi. Bahrami sostiene che Die Kunst der Fuge, a differenza delle Variazioni Goldberg che sono “ancora legate al mondo terreno”, trascende il desiderio di vivere sulla Terra. L’Arte della Fuga “sta fra la Terra e il cielo ed è, come diceva Paul Hindemith, l’accesso di Bach all’eternità”.
Qualunque cosa si pensi di questo concetto, è indubbio che esso influenzi l’interpretazione di Bahrami. I puristi, nell’ascoltarlo sia nel cd sia dal vivo, avanzano riserve rispetto alla loro idea di Bach. Ma il Bach di Bahrami, tecnicamente impeccabile, non è inferiore a quello di altri. E’ soltanto diverso (più “democratico”, afferma lui contraddicendosi un poco) per via del retroterra culturale dell’esecutore. Va detto piuttosto che l’Arte della Fuga di Bahrami non arriva a 78 minuti mentre altri solisti sfiorano i 90. Ciò non è dovuto a galoppate sui tasti, ma a “consigli” della Decca refrattaria a realizzare un doppio cd. E’ difficile essere d’accordo.
Ramin Bahrami tiene concerti già da vari anni e il cd in esame è il terzo che reca la sua firma, dopo le Variazioni Goldberg del 2004 e l’album doppio del 2005 che contiene le sei Partite e l’Overture Francese, entrambi per Decca (il giovane mira in alto scegliendo opere bachiane imperiture). Vogliamo dire che finora non era accaduto nulla di paragonabile al gran parlare che si fa intorno all’Arte della Fuga secondo Bahrami. Cerchiamo di capire perché. Questa volta ci sono iniziative promozionali: citazioni radiofoniche, qualche incontro con l’interprete, concerti a Milano, Torino, Roma, Napoli e Imola, ma niente di trascendentale. Più consistente è l’argomento del fascino della partitura come oggetto misterioso (ci si passi il termine).
Die Kunst der Fuge fu composta da Bach giunto sul passo estremo della vita, è incompiuta perché la morte sopravvenne prima che fossero terminate la scrittura dell’ultima fuga e l’edizione a stampa, ed è priva dell’indicazione dello strumento o degli strumenti cui era destinata. La consuetudine prevalente di usare il pianoforte o il cembalo è frutto soltanto di ipotesi. A ciò si aggiunga che nei cataloghi le edizioni discografiche reperibili sono sempre poche e rare sono le esecuzioni nelle stagioni concertistiche. I solisti, senza dubbio, temono gli abissi espressivi dell’opera più che le difficoltà tecniche, eppure le platee intuiscono l’evento e lo accolgono con emozione. Chi scrive è in grado di ricordare un’interpretazione del pianista Pietro Scarpini nella Sala dei Giganti al Liviano di Padova. Correva l’autunno 1957 e il pubblico non sembrava preparato: eppure fu un trionfo e se ne parlò e discusse per mesi. Bahrami sostiene che Die Kunst der Fuge, a differenza delle Variazioni Goldberg che sono “ancora legate al mondo terreno”, trascende il desiderio di vivere sulla Terra. L’Arte della Fuga “sta fra la Terra e il cielo ed è, come diceva Paul Hindemith, l’accesso di Bach all’eternità”.
Qualunque cosa si pensi di questo concetto, è indubbio che esso influenzi l’interpretazione di Bahrami. I puristi, nell’ascoltarlo sia nel cd sia dal vivo, avanzano riserve rispetto alla loro idea di Bach. Ma il Bach di Bahrami, tecnicamente impeccabile, non è inferiore a quello di altri. E’ soltanto diverso (più “democratico”, afferma lui contraddicendosi un poco) per via del retroterra culturale dell’esecutore. Va detto piuttosto che l’Arte della Fuga di Bahrami non arriva a 78 minuti mentre altri solisti sfiorano i 90. Ciò non è dovuto a galoppate sui tasti, ma a “consigli” della Decca refrattaria a realizzare un doppio cd. E’ difficile essere d’accordo.
da "Il Foglio Democratico" del 23 marzo 2007
1 commento:
A mio avviso un buon pianista ma nulla di trascendentale! Anzi...Se preferite il pianoforte per questa monumentale e magnifica composizione vi consiglio di gran lunga il bravissimo Sokolov. Dovrebbe esser molto ben riuscita anche la ben più recente interpretazione di Angela Hewitt. Peccato che il grande Sviatoslav Richter non vi ci sia cimentato. Personalmente però né consiglierei l'ascolto anche su strumenti a tastiera più tradizionali per quest'opera: organo e clavicembalo. Tra l'altro dell'Arte della Fuga, titolo che ancor oggi non so quanto sia rispondente all'effettiva volontà dell'autore, vi sono anche alcune versioni orchestrali meritevoli di sicura attenzione. Bach fu talmente geniale che in vari casi la sua musica trascende lo strumento utilizzato nel suonarla!
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