La sera del 23 Maggio 1824 nella Gran Sala del Ridotto della Hofburg di Vienna fu replicata la Nona Sinfonia di Beethoven, eseguita per la prima volta il 7 Maggio. Al pubblico fu distribuito un foglio con su stampata un'Ode a Lodovico van Beethoven. Né biografie, né storie, né saggi fecero mai cenno dell'Ode che fu sequestrata e poi sepolta negli armadi dei segreti e veleni della k.k. Polizei dove rimase nascosta anche dopo la fine della Monarchia con tutte le carte che avessero a che vedere con la morte di Mozart, una storia che, dopo duecento e ventun anni, resta più che mai misteriosa. Più che mai dico, perché le memorie si vanno cancellando, le nuove generazioni nulla più sanno, né imparano, e non c'è revisionismo che riesca a scrostare strati e strati di menzogne consolidate. La menzogna dapprima imposta, poi ripetuta, poi difesa, e infine dimenticata, diventa la Storia. Come vediamo, da cinquant'anni.
L'Ode, che l'autore chiamò «alcaica» perché imitata su quelle d'Orazio, cantava le lodi di Beethoven, ma passò negl'incarti mozartiani perché su venti strofe di cui era composta, ben quattro contenevano allusioni alla fine di Mozart per un veleno che gli avrebbe propinato Antonio Salieri (1750-1825), leggenda che conobbe in tempi vicini un lurido risveglio.
Questo autore, che lungo trent'anni raccolse libri documenti e notizie, dalla cui elaborazione uscì il libro presente, mai ebbe notizia dell'Ode di Bassi e delle conseguenze che la seguirono. Il caso ha voluto che, mentr'era intento negli ultimi capitoli d'una biografia da pubblicare nella prossima primavera, s'imbattesse in una nota a commento della lettera che Beethoven scrisse il 26 Maggio 1824 al suo ultimo mecenate, il principe Nikolaus Galitzin, cui doveva il trionfo della Missa Solemnis a Pietroburgo il 7 Aprile: il committente e dedicatario dei primi tre degli ultimi Quartetti: «Le allego una riproduzione della Medaille, mezza libbra d'oro, che S. Maestà di Francia mi ha mandato in segno di soddisfazione per la mia Messa, e versi italiani su di me ... ».
Nel recente Epistolario diretto dal professor Brandenburg del Beethovenhaus e stampato da Henle di Monaco una nota chiarisce (Vol. 5, p. 330): «L'Ode a Lodovico van Beethoven di Calisto Bassi fu declamata nell'Akademie del 23.5.1824 e, a causa delle allusioni alle circostanze della morte di Mozart, chiamata in giudizio dai dirigenti della Polizia e della Censura», e termina con rinvio a un articolo, Zu Mozarts Tod, pubblicato da tale Gustav Gugitz (ignoto non solo a me, ma alla sterminata MGG) nel terzo numero delle «Mozarteum Mitteflungen» del 1920.
Questa nota mi divenne, la scorsa estate, un nuovo mistero del mai finito, mai chiuso, mai aperto e sempre crepitante macabro mozartiano: una continuazione, finora ignota, del rumore che il povero Salieri aveva suscitato accusandosi, dall'ospedale dei pazzi dove l'avevano accolto, d'aver avvelenato Mozart. In definitiva questo episodio mi appare la più importante novità emersa nei sei anni dopo l'apparizione di questo libro.
Calisto Bassi, la cui personalità si ricostruisce riunendo due fasce biografiche finora incomunicanti, italiana e tedesca, nacque, secondo il Dizionario degli Italiani, a Cremona, al principio del sec. XIX, da Nicola, cantante buffo napoletano: fu traduttore e arrangiatore in tre lingue di libretti d'opera, arrivò a Vienna con Barbaja, l'impresario di Rossini che aveva preso in appalto il Kärtnerthortheater. Partecipò in modo che il Dizionario definisce «singolare» senza spiegar nulla, alle Quattro giornate di Milano e moti, nella miseria dei teatranti, «nell'Ospedale di Abbiategrasso verso il 1860».
La sua sortita oratoria e poetica in favor di Beethoven giunge, nei suoi limiti, sensazionale perché rivela una spaccatura finora ignota nel campo italiano di fronte alla disgrazia di Salieri. Seppure i tedeschi appaiano divisi su quella favola di veleni, come perfino i Quaderni di conversazione di Beethoven rivelano, la rumorosa colonia italiana sembrava finora stretta intorno al Kapellmeister di Legnago e all'appassionata «Lettera [ ... ] in difesa del M° Salieri calunniato dell'avvelenamento del M° Mozzard», scritta e subito pubblicata nella «Biblioteca italiana» di Milano dal comasco Giuseppe Carpani (1752-1825), il biografo di Haydn plagiato da Stendhal.
Nell'Ode, il giovane Bassi si schiera impetuosamente con gli accusatori di Salieri, loquaci e attivi anche in casa Beethoven. Ma «fino a che le fantasie del malato ormai morente passavano di bocca in bocca», spiega il fantomatico Gugitz, la Polizia e la Censura non ebbero in mano una ragione d'intervenire. Gliela dette Bassi che, «aizzato forse da un forsennato irragionevole amore per la musica tedesca», li provvide finalmente di versi scritti e firmati. Dove tuttavia nessun nome è scritto in chiaro, e fin che Bassi canta del livore al suo [di Mozart] lato» e del «nappo avvelenato», gl'inquisitori avevano poco da stringere. Credettero d'avere in pugno il poeta dove l'Ode passava a un «VECCHIO, che in non roca voce / cantò Maria piangente il Figlio in croce», perché Salieri aveva scritto uno Stabat Mater. Ma Bassi replicò che non sapeva nulla d'uno Stabat Mater di Salieri, lui intendeva quello di Pergolesi. Per continuare a perseguire il giovane, il soprintendente dei teatri statali, conte Moritz Dietrichstein-Leslie, dové farsi fare un apposito Hofdekret, che arrivò al galoppo il 29-31 Maggio.
Molte volte ho cercato d'indovinare quali valori difendessero questa Polizei e questa Zensur: se l'onore di Mozart, Kammerkonipositeur imperiale e regio, o l'onore dell'aristocratico ritenuto committente occulto del Requiem, o l'onore del governo e polizia austriaci che nella morte e sepoltura di Mozart furono implicati in misura pesante e mai bene calcolata. Davanti a questo documento in versi che fu subito sequestrato perché conteneva indecifrabili allusioni a un mai provato delitto di trentatré anni prima, mi domando chi intendessero difendere quelle autorità di Polizei e Zensur, se l'onore del settantaquattrenne Hofkapellmeister ormai fuori di sé, o l'enorme ben chiuso involucro di menzogne che s'inventarono per quella morte lontana, e furono tenacemente difese sotto la Monarchia e la Repubblica, e il Terzo Reich, e la nuova Repubblica Austriaca.
Resto convinto che Mozart morisse per cause naturali, seppure nel quadro di una natura anomala e rara, e che la gestione della sua morte generasse un mostruoso cumulo, tutto absburgico, di turpissime favole, a cominciare con la «fossa comune». Che non fu fossa, e tanto meno comune, ma una finta cassa da morto che si apriva su un lato da cui il cadavere scivolava nella calce viva dove si sarebbe sciolto: una procedura che, si assicurò allora, era stata inventata personalmente da Giuseppe II, da cui la copiò esultante la mafia siciliana. Non doveva restare traccia di quel cadavere, e non restò.
Resta, invece, la convinzione, che tra poche pagine esprimo, essere la biografia di Beethoven «il filtro e la foce» del mondo mozartiano: non per nulla lo chiamarono «il secondo Mozart». Un tipo che Polizei e Zensur tennero sempre d'occhio. Senonché, quando fu morto, non si trovarono davanti un gruppetto di parenti e intriganti spaventati, ma un oceano di ventimila persone che seguivano la bara, non sudditi di una degradata dinastia ma, come li chiamò Franz Grillparzer, il solo poeta che l'Austria avesse, «il popolo tedesco».
di Piero Buscaroli (Prefazione alla II edizione de "La morte di Mozart", Rizzoli BUR)
L'Ode, che l'autore chiamò «alcaica» perché imitata su quelle d'Orazio, cantava le lodi di Beethoven, ma passò negl'incarti mozartiani perché su venti strofe di cui era composta, ben quattro contenevano allusioni alla fine di Mozart per un veleno che gli avrebbe propinato Antonio Salieri (1750-1825), leggenda che conobbe in tempi vicini un lurido risveglio.
Questo autore, che lungo trent'anni raccolse libri documenti e notizie, dalla cui elaborazione uscì il libro presente, mai ebbe notizia dell'Ode di Bassi e delle conseguenze che la seguirono. Il caso ha voluto che, mentr'era intento negli ultimi capitoli d'una biografia da pubblicare nella prossima primavera, s'imbattesse in una nota a commento della lettera che Beethoven scrisse il 26 Maggio 1824 al suo ultimo mecenate, il principe Nikolaus Galitzin, cui doveva il trionfo della Missa Solemnis a Pietroburgo il 7 Aprile: il committente e dedicatario dei primi tre degli ultimi Quartetti: «Le allego una riproduzione della Medaille, mezza libbra d'oro, che S. Maestà di Francia mi ha mandato in segno di soddisfazione per la mia Messa, e versi italiani su di me ... ».
Nel recente Epistolario diretto dal professor Brandenburg del Beethovenhaus e stampato da Henle di Monaco una nota chiarisce (Vol. 5, p. 330): «L'Ode a Lodovico van Beethoven di Calisto Bassi fu declamata nell'Akademie del 23.5.1824 e, a causa delle allusioni alle circostanze della morte di Mozart, chiamata in giudizio dai dirigenti della Polizia e della Censura», e termina con rinvio a un articolo, Zu Mozarts Tod, pubblicato da tale Gustav Gugitz (ignoto non solo a me, ma alla sterminata MGG) nel terzo numero delle «Mozarteum Mitteflungen» del 1920.
Questa nota mi divenne, la scorsa estate, un nuovo mistero del mai finito, mai chiuso, mai aperto e sempre crepitante macabro mozartiano: una continuazione, finora ignota, del rumore che il povero Salieri aveva suscitato accusandosi, dall'ospedale dei pazzi dove l'avevano accolto, d'aver avvelenato Mozart. In definitiva questo episodio mi appare la più importante novità emersa nei sei anni dopo l'apparizione di questo libro.
Calisto Bassi, la cui personalità si ricostruisce riunendo due fasce biografiche finora incomunicanti, italiana e tedesca, nacque, secondo il Dizionario degli Italiani, a Cremona, al principio del sec. XIX, da Nicola, cantante buffo napoletano: fu traduttore e arrangiatore in tre lingue di libretti d'opera, arrivò a Vienna con Barbaja, l'impresario di Rossini che aveva preso in appalto il Kärtnerthortheater. Partecipò in modo che il Dizionario definisce «singolare» senza spiegar nulla, alle Quattro giornate di Milano e moti, nella miseria dei teatranti, «nell'Ospedale di Abbiategrasso verso il 1860».
La sua sortita oratoria e poetica in favor di Beethoven giunge, nei suoi limiti, sensazionale perché rivela una spaccatura finora ignota nel campo italiano di fronte alla disgrazia di Salieri. Seppure i tedeschi appaiano divisi su quella favola di veleni, come perfino i Quaderni di conversazione di Beethoven rivelano, la rumorosa colonia italiana sembrava finora stretta intorno al Kapellmeister di Legnago e all'appassionata «Lettera [ ... ] in difesa del M° Salieri calunniato dell'avvelenamento del M° Mozzard», scritta e subito pubblicata nella «Biblioteca italiana» di Milano dal comasco Giuseppe Carpani (1752-1825), il biografo di Haydn plagiato da Stendhal.
Nell'Ode, il giovane Bassi si schiera impetuosamente con gli accusatori di Salieri, loquaci e attivi anche in casa Beethoven. Ma «fino a che le fantasie del malato ormai morente passavano di bocca in bocca», spiega il fantomatico Gugitz, la Polizia e la Censura non ebbero in mano una ragione d'intervenire. Gliela dette Bassi che, «aizzato forse da un forsennato irragionevole amore per la musica tedesca», li provvide finalmente di versi scritti e firmati. Dove tuttavia nessun nome è scritto in chiaro, e fin che Bassi canta del livore al suo [di Mozart] lato» e del «nappo avvelenato», gl'inquisitori avevano poco da stringere. Credettero d'avere in pugno il poeta dove l'Ode passava a un «VECCHIO, che in non roca voce / cantò Maria piangente il Figlio in croce», perché Salieri aveva scritto uno Stabat Mater. Ma Bassi replicò che non sapeva nulla d'uno Stabat Mater di Salieri, lui intendeva quello di Pergolesi. Per continuare a perseguire il giovane, il soprintendente dei teatri statali, conte Moritz Dietrichstein-Leslie, dové farsi fare un apposito Hofdekret, che arrivò al galoppo il 29-31 Maggio.
Molte volte ho cercato d'indovinare quali valori difendessero questa Polizei e questa Zensur: se l'onore di Mozart, Kammerkonipositeur imperiale e regio, o l'onore dell'aristocratico ritenuto committente occulto del Requiem, o l'onore del governo e polizia austriaci che nella morte e sepoltura di Mozart furono implicati in misura pesante e mai bene calcolata. Davanti a questo documento in versi che fu subito sequestrato perché conteneva indecifrabili allusioni a un mai provato delitto di trentatré anni prima, mi domando chi intendessero difendere quelle autorità di Polizei e Zensur, se l'onore del settantaquattrenne Hofkapellmeister ormai fuori di sé, o l'enorme ben chiuso involucro di menzogne che s'inventarono per quella morte lontana, e furono tenacemente difese sotto la Monarchia e la Repubblica, e il Terzo Reich, e la nuova Repubblica Austriaca.
Resto convinto che Mozart morisse per cause naturali, seppure nel quadro di una natura anomala e rara, e che la gestione della sua morte generasse un mostruoso cumulo, tutto absburgico, di turpissime favole, a cominciare con la «fossa comune». Che non fu fossa, e tanto meno comune, ma una finta cassa da morto che si apriva su un lato da cui il cadavere scivolava nella calce viva dove si sarebbe sciolto: una procedura che, si assicurò allora, era stata inventata personalmente da Giuseppe II, da cui la copiò esultante la mafia siciliana. Non doveva restare traccia di quel cadavere, e non restò.
Resta, invece, la convinzione, che tra poche pagine esprimo, essere la biografia di Beethoven «il filtro e la foce» del mondo mozartiano: non per nulla lo chiamarono «il secondo Mozart». Un tipo che Polizei e Zensur tennero sempre d'occhio. Senonché, quando fu morto, non si trovarono davanti un gruppetto di parenti e intriganti spaventati, ma un oceano di ventimila persone che seguivano la bara, non sudditi di una degradata dinastia ma, come li chiamò Franz Grillparzer, il solo poeta che l'Austria avesse, «il popolo tedesco».
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