La figura di Vernon Lee non è particolarmente considerata ai nostri giorni. Eppure questa scrittrice inglese (il cui vero nome era Violet Paget) ha legato la sua storia indissolubilmente all'Italia, non fosse altro per gli Studies of the Eighteenth Century in Italy del 1880. Allora fecero un certo baccano e per un buon mezzo secolo si ammirò in queste pagine la finezza con cui si tratteggiava l'atmosfera spirituale del Settecento e il garbo capace di interpretare le opere di Metastasio e di Goldoni.
Vernon Lee amava l'Italia e lo spirito italiano. Lei, inglese, nata in Francia a Saint-Léonard nell'ottobre 1856, finì con lo stabilirsi in Toscana, a Maiano, nei pressi di Firenze. E lì, nella sua villa denominata «Il Palmerino», chiuse i suoi giorni nel 1935. Probabilmente questo amore che abbiamo evocato fu di quel genere che sbrigativamente chiamiamo «vittoriano», con mille pudori mescolati a qualche forte irruenza. Chi avesse voglia di togliere il velo a simili sentimenti, non ha che da riaprire un suo dramma del 1903, Ariadne in Mantua, un'opera in versi che vorrebbe penetrare negli incidenti dell'anima italiana. Certo, la sua penna corse altrove, si occupò di tutto. Se negli Essays manifestò il completo amore per l'Italia del Rinascimento - ricordo, tra i molti, Belcaro del 1881, The spirit of Rome del 1905, The spiritual traveller del 1907 -, la Lee si esercitò anche nel saggio filosofico, in opere di impegno politico pacifista, in romanzi e novelle. I titoli sono tanti. Contro la guerra scrisse la trilogia Satan the Waster, che reca la data 1920; rimane anche da ricordare la sempre interessante «scorribanda nel pensiero» Gospels of anarcky del 1908; Miss Brown del 1884 - e qui siamo nell'ambito della narrativa - ebbe qualche riconoscimento.
A ben guardare nell'opera di Vernon Lee si trovano pure le rivendicazioni per i diritti delle donne. Per capire tali orientamenti occorre ricordare che le sue pagine subirono quasi ininterrottamente l'influsso duplice di John Ruskin e di Walter Pater. Come quest'ultimo, la Lee amava addentrarsi nelle questioni filosofiche per uscirne con personaggi da prosa; inoltre si sentiva attratta dal fatale meccanismo che si riassumeva nel motto «l'arte per l'arte». Come Pater ella amava misurare l'arte attraverso l'intensità delle sensazioni che essa sa trasmettere, come Ruskin ella vedeva in ogni molecola della creazione artistica l'aspetto etico.
E' con questi riferimenti che occorre accostarsi al saggio qui riproposto, La vita musicale nell'Italia del Settecento, che viene licenziato da Maiano nel 1906, e che è un'opera scritta sulle tracce di Charles Burney, è cioè sfogliando «il volume, assai malandato, che contiene la cronaca del viaggio» del Burney in Italia. Che cosa significa questa precisazione nella penna della Lee?
Innanzitutto significa che la Lee si è messa sulla scia di uno dei più grandi viaggiatori musicali di tutti i tempi e ne ha rivissuto le sensazioni. Non fu cosa da poco. Charles Burney (1726-1814) suonò il violino e la viola nell'orchestra di Händel e dopo il 1770 compì numerosi viaggi «nel continente» per raccogliere notizie utili alla stesura di una storia della musica. Conobbe i più grandi musicisti del tempo: da Galuppi ad Hasse, da Jommelli a Gluck, da Mozart a Piccinni al leggendario padre Martini. Viaggiò in Francia, in Germania, in Austria, nei Paesi Bassi, soprattutto in Italia. Il frutto di tanto lavoro si legge nella A general History of Music, pubblicata in quattro volumi a Londra tra il 1776 e il 1789. Senza mezzi termini, quest'opera si può considerare la prima storia della musica concepita con criteri moderni, dove trovano felice sintesi i concetti degli enciclopedisti francesi, e in particolare di Rousseau, con il metodo empiristico, del quale erano maestri gli inglesi.
Burney, comunque, tenne anche un diario dei suoi viaggi, del «periodo itinerante». Pensò alla sua pubblicazione molto presto, così almeno si legge in una lettera dell'ottobre 1770 spedita da Napoli all'amico Garrick: «Se la mia storia universale della musica sarà un'opera del tempo, vorrei invece pubblicare, non appena tornerò a casa, un resoconto sulle condizioni attuali della musica in Francia e in Italia, in cui descriverò, secondo il mio giudizio e il mio modo di sentire, il valore di molte composizioni e di molti esecutori che ho ascoltato viaggiando attraverso questi paesi». Va aggiunto a precisazione di queste parole che Burney preparò il viaggio in Italia studiandolo nei dettagli. Organizzò minutamente le visite e gli incontri; a tutti spiegò quel che cercava di realizzare per ottenere le migliori informazioni possibili. Ed ancora non si deve dimenticare che nella sua concezione - si leggono le seguenti parole all'inizio della sua History - la musica «è un lusso innocente non indispensabile alla nostra esistenza, anche se porta piacere e progresso al senso dell'udito».
Dunque la musica è un lusso, ma non si può considerarla al pari di altri orpelli che utilizziamo per attraversare la vita. Essa, ricorda lo storico e musicista inglese, è talmente integrata al vivere civile che non è possibile separarla nettamente da altre attività dell'uomo quali la religione, la filosofia o la politica. E' indispensabile all'umanità per capire e per capirsi, anche se prima di ogni cosa c'è l'essere umano da rispettare. Non a caso l'illuminista ed empirista Burney si lascia scappare una frase che sintetizza bene il suo spirito e il suo secolo, una frase che si legge alla fine del suo diario di viaggio in Germania: «Amo la musica ma ancor più amo l'umanítà».
Fu proprio questo progetto estetico che ruotava attorno all'uomo che Vernon Lee seguì per il suo saggio. La sua Vita musicale è appunto un'odissea completa intorno e dentro lo studioso settecentesco. Convinta che «i compositori italiani e tedeschi del Settecento erano fratelli, o tutt'al più cugini» e che la musica tedesca di quel secolo «non è un semplice adattamento dell'italiana della stessa epoca, ma è un adattamento molto migliorato», la Lee si avventura nello spirito latino mettendone in luce le grandi qualità e il carattere eternamente fecondo. Ella ritiene che i tedeschi presero a prestito dall'Italia «quelle forme melodiche, e anche diverse altre cosette» e ricorda non senza un pizzico di civetteria - che «la nazione che fornisce la materia prima d'una grande arte non è inferiore a quella che, lavorandola, la porta a una perfezione duratura».
Questi problemi, occorre ricordarlo senza mezzi termini, avevano senso nel 1906, tempo in cui era ancora ben viva la polemica risorgimentale contro l'arte tedesca, che la Lee fa sua. Oggi di tutto ciò ha valore il viaggio, le cose mostrate, le notizie. Gli altri vecchi problemi non interessano più alcun studioso. Il viaggio è vivo per le sue tappe, per i giudizi e gli eventuali spropositi di valutazione, per le scoperte, valide ancor oggi. Burney fa, da guida, ma è anche vero che lo storico inglese non ha mai cessato di essere un mèntore di prím'ordine. Infine occorre ricordare la grande utilità che questo saggio recò alla cultura italiana del tempo. La Lee usa una fonte che pochi o nessuno conosce nella stesura originale. La prima traduzione del Viaggio musicale in Italia di Burney si deve a Virginia Attanasio e viene pubblicata a Milano nel 1921, ma è una versione inattendibile perché basata su un testo non originale (fu ricavata da un'altra traduzione francese). Del dottor Burney la Lee dovette anche sondare la vita privata, o almeno quegli aspetti indispensabili per cogliere nel migliore dei modi la sua opera: «... non sono affatto pentita d'aver rivestito i miei personaggi settecenteschi di virtù e di bellezze di mia fabbricazione ... ». Parole che non sono rivolte soltanto ai musicisti del libro, ma anche alla guida. Si ha dunque motivo di credere che oltre la grande History, oltre il Viaggio musicale in Italia, la Lee avesse sottomano l'ampia biografia che sul viaggiatore inglese scrisse la figlia romanziera, quella Fanny Burney d'Arblay che amava molto gli arrangiamenti. La sua opera Memoirs of Doctor Burney, pubblicata in tre volumi nel 1832, va presa sempre con beneficio d'inventario.
In ogni caso il diario di Burney ha offerto del materiale prezioso alla Lee, lontano dalle fonti della nostra storiografia, ricco di dati e di suggestioni. Negli otto giorni trascorsi a Milano, tra il 16 e il 24 luglio 1770, per fare un esempio tra i molti offerti dal Viaggio, il gentiluomo inglese parla sì della musica sacra nella capitale lombarda, dei tesori musicali custoditi all'Ambrosiana, delle meraviglie dell'eco a Milano, dei concerti, ma anche dell'incontro con l'astronomo Boscovich, della città in generale, dei quadri e dei libri del conte Portusali, di un banchetto offerto dal celebre conte di Firmian. Il lettore rivede un mondo, non riascolta semplicemente delle musiche.
Del resto, il saggio della Lee riscopre sistematicamente ciò che il Burney segnala. Nelle due settimane a Venezia - dal 3 al 18 agosto di quel 1770 l'incontro con Benedetto Marcello dà origine a un capitoletto; si spiega in questo modo la particolare attenzione della Lee nei confronti del compositore veneziano. Il tutto è poi arricchito dalla sensibilità di questa scrittrice, che non dimentica i sapori, il paesaggio, le contingenze, qualche civetteria. A questo proposito, basta ricordare quanto la Lee scrive delle fonti da cui attinge notizie: «... Sono principalmente scrittori inglesi e tedeschi, e anche gli stessi francesi, che spesso riconoscevano i singoli difetti della loro musica, senza però ammetterne mai l'inferiorità generale».
Quello che ne risulta è ancor oggi un libro piacevole, lontano dalle mode e dai rigori della ricerca scientifica, però sempre stimolante, informato, attento. E', per dirla in parole semplici, il Settecento di Vernon Lee, con tutti gli aromi che una scrittrice vittoriana sapeva trovare nell'arte italiana. O almeno, qualche aroma ella aggiunse al materiale predisposto da Burney. La prova - una tra le moltissime - la leggiamo ancora nel capitolo dedicato a Marcello. Burney scrive nel suo Viaggio che avrebbe voluto recarsi agli Incurabili per ascoltare il Buranello, ma poi scelse di assistere a un'esecuzione dei Salmi di Marcello. Con puntualità, egli osserva in calce al concerto: «... Il compositore ha completamente sacrificato la musica alla poesia, mutando tempo e stile ad ogni nuova idea espressa dalle parole». Perciò lo trova "flemmatico, del tutto privo di quell'entusiasmo tipico del genio musicale creatore". La Lee con un paragone efficace scrive: «Il Marcello scrisse molta musica da chiesa e da camera, i cui resti ora si disfanno negli archivi e nelle stanze di sgombro, come gli affreschi del Giorgione si son disfatti, chiazza per chiazza, sulle mura dei palazzi veneziani». E, neanche a farlo apposta, ricorda «i suoi Salmi» di cui ammira la grandezza. Tuttavia, quel «flemmatico» di Burney non lo lascia cadere, ma non se la sente più di condividere il duro giudizio: lo rivolge, allora, alla situazione italiana. In tal modo, quei Salmi «bastano a mostrare quale grande e originale compositore si debba a quell'aristocrazia veneziana che, malgrado la sua corruzione, la sua indolenza, era l'unica istituzione rimasta dai tempi più nobili dell'Italia».
Armando Torno (introduzione a "La vita musicale nell'Italia del Settecento" di Vernon Lee, Passigli Editor1, 1999)
Vernon Lee amava l'Italia e lo spirito italiano. Lei, inglese, nata in Francia a Saint-Léonard nell'ottobre 1856, finì con lo stabilirsi in Toscana, a Maiano, nei pressi di Firenze. E lì, nella sua villa denominata «Il Palmerino», chiuse i suoi giorni nel 1935. Probabilmente questo amore che abbiamo evocato fu di quel genere che sbrigativamente chiamiamo «vittoriano», con mille pudori mescolati a qualche forte irruenza. Chi avesse voglia di togliere il velo a simili sentimenti, non ha che da riaprire un suo dramma del 1903, Ariadne in Mantua, un'opera in versi che vorrebbe penetrare negli incidenti dell'anima italiana. Certo, la sua penna corse altrove, si occupò di tutto. Se negli Essays manifestò il completo amore per l'Italia del Rinascimento - ricordo, tra i molti, Belcaro del 1881, The spirit of Rome del 1905, The spiritual traveller del 1907 -, la Lee si esercitò anche nel saggio filosofico, in opere di impegno politico pacifista, in romanzi e novelle. I titoli sono tanti. Contro la guerra scrisse la trilogia Satan the Waster, che reca la data 1920; rimane anche da ricordare la sempre interessante «scorribanda nel pensiero» Gospels of anarcky del 1908; Miss Brown del 1884 - e qui siamo nell'ambito della narrativa - ebbe qualche riconoscimento.
A ben guardare nell'opera di Vernon Lee si trovano pure le rivendicazioni per i diritti delle donne. Per capire tali orientamenti occorre ricordare che le sue pagine subirono quasi ininterrottamente l'influsso duplice di John Ruskin e di Walter Pater. Come quest'ultimo, la Lee amava addentrarsi nelle questioni filosofiche per uscirne con personaggi da prosa; inoltre si sentiva attratta dal fatale meccanismo che si riassumeva nel motto «l'arte per l'arte». Come Pater ella amava misurare l'arte attraverso l'intensità delle sensazioni che essa sa trasmettere, come Ruskin ella vedeva in ogni molecola della creazione artistica l'aspetto etico.
E' con questi riferimenti che occorre accostarsi al saggio qui riproposto, La vita musicale nell'Italia del Settecento, che viene licenziato da Maiano nel 1906, e che è un'opera scritta sulle tracce di Charles Burney, è cioè sfogliando «il volume, assai malandato, che contiene la cronaca del viaggio» del Burney in Italia. Che cosa significa questa precisazione nella penna della Lee?
Innanzitutto significa che la Lee si è messa sulla scia di uno dei più grandi viaggiatori musicali di tutti i tempi e ne ha rivissuto le sensazioni. Non fu cosa da poco. Charles Burney (1726-1814) suonò il violino e la viola nell'orchestra di Händel e dopo il 1770 compì numerosi viaggi «nel continente» per raccogliere notizie utili alla stesura di una storia della musica. Conobbe i più grandi musicisti del tempo: da Galuppi ad Hasse, da Jommelli a Gluck, da Mozart a Piccinni al leggendario padre Martini. Viaggiò in Francia, in Germania, in Austria, nei Paesi Bassi, soprattutto in Italia. Il frutto di tanto lavoro si legge nella A general History of Music, pubblicata in quattro volumi a Londra tra il 1776 e il 1789. Senza mezzi termini, quest'opera si può considerare la prima storia della musica concepita con criteri moderni, dove trovano felice sintesi i concetti degli enciclopedisti francesi, e in particolare di Rousseau, con il metodo empiristico, del quale erano maestri gli inglesi.
Burney, comunque, tenne anche un diario dei suoi viaggi, del «periodo itinerante». Pensò alla sua pubblicazione molto presto, così almeno si legge in una lettera dell'ottobre 1770 spedita da Napoli all'amico Garrick: «Se la mia storia universale della musica sarà un'opera del tempo, vorrei invece pubblicare, non appena tornerò a casa, un resoconto sulle condizioni attuali della musica in Francia e in Italia, in cui descriverò, secondo il mio giudizio e il mio modo di sentire, il valore di molte composizioni e di molti esecutori che ho ascoltato viaggiando attraverso questi paesi». Va aggiunto a precisazione di queste parole che Burney preparò il viaggio in Italia studiandolo nei dettagli. Organizzò minutamente le visite e gli incontri; a tutti spiegò quel che cercava di realizzare per ottenere le migliori informazioni possibili. Ed ancora non si deve dimenticare che nella sua concezione - si leggono le seguenti parole all'inizio della sua History - la musica «è un lusso innocente non indispensabile alla nostra esistenza, anche se porta piacere e progresso al senso dell'udito».
Dunque la musica è un lusso, ma non si può considerarla al pari di altri orpelli che utilizziamo per attraversare la vita. Essa, ricorda lo storico e musicista inglese, è talmente integrata al vivere civile che non è possibile separarla nettamente da altre attività dell'uomo quali la religione, la filosofia o la politica. E' indispensabile all'umanità per capire e per capirsi, anche se prima di ogni cosa c'è l'essere umano da rispettare. Non a caso l'illuminista ed empirista Burney si lascia scappare una frase che sintetizza bene il suo spirito e il suo secolo, una frase che si legge alla fine del suo diario di viaggio in Germania: «Amo la musica ma ancor più amo l'umanítà».
Fu proprio questo progetto estetico che ruotava attorno all'uomo che Vernon Lee seguì per il suo saggio. La sua Vita musicale è appunto un'odissea completa intorno e dentro lo studioso settecentesco. Convinta che «i compositori italiani e tedeschi del Settecento erano fratelli, o tutt'al più cugini» e che la musica tedesca di quel secolo «non è un semplice adattamento dell'italiana della stessa epoca, ma è un adattamento molto migliorato», la Lee si avventura nello spirito latino mettendone in luce le grandi qualità e il carattere eternamente fecondo. Ella ritiene che i tedeschi presero a prestito dall'Italia «quelle forme melodiche, e anche diverse altre cosette» e ricorda non senza un pizzico di civetteria - che «la nazione che fornisce la materia prima d'una grande arte non è inferiore a quella che, lavorandola, la porta a una perfezione duratura».
Questi problemi, occorre ricordarlo senza mezzi termini, avevano senso nel 1906, tempo in cui era ancora ben viva la polemica risorgimentale contro l'arte tedesca, che la Lee fa sua. Oggi di tutto ciò ha valore il viaggio, le cose mostrate, le notizie. Gli altri vecchi problemi non interessano più alcun studioso. Il viaggio è vivo per le sue tappe, per i giudizi e gli eventuali spropositi di valutazione, per le scoperte, valide ancor oggi. Burney fa, da guida, ma è anche vero che lo storico inglese non ha mai cessato di essere un mèntore di prím'ordine. Infine occorre ricordare la grande utilità che questo saggio recò alla cultura italiana del tempo. La Lee usa una fonte che pochi o nessuno conosce nella stesura originale. La prima traduzione del Viaggio musicale in Italia di Burney si deve a Virginia Attanasio e viene pubblicata a Milano nel 1921, ma è una versione inattendibile perché basata su un testo non originale (fu ricavata da un'altra traduzione francese). Del dottor Burney la Lee dovette anche sondare la vita privata, o almeno quegli aspetti indispensabili per cogliere nel migliore dei modi la sua opera: «... non sono affatto pentita d'aver rivestito i miei personaggi settecenteschi di virtù e di bellezze di mia fabbricazione ... ». Parole che non sono rivolte soltanto ai musicisti del libro, ma anche alla guida. Si ha dunque motivo di credere che oltre la grande History, oltre il Viaggio musicale in Italia, la Lee avesse sottomano l'ampia biografia che sul viaggiatore inglese scrisse la figlia romanziera, quella Fanny Burney d'Arblay che amava molto gli arrangiamenti. La sua opera Memoirs of Doctor Burney, pubblicata in tre volumi nel 1832, va presa sempre con beneficio d'inventario.
In ogni caso il diario di Burney ha offerto del materiale prezioso alla Lee, lontano dalle fonti della nostra storiografia, ricco di dati e di suggestioni. Negli otto giorni trascorsi a Milano, tra il 16 e il 24 luglio 1770, per fare un esempio tra i molti offerti dal Viaggio, il gentiluomo inglese parla sì della musica sacra nella capitale lombarda, dei tesori musicali custoditi all'Ambrosiana, delle meraviglie dell'eco a Milano, dei concerti, ma anche dell'incontro con l'astronomo Boscovich, della città in generale, dei quadri e dei libri del conte Portusali, di un banchetto offerto dal celebre conte di Firmian. Il lettore rivede un mondo, non riascolta semplicemente delle musiche.
Del resto, il saggio della Lee riscopre sistematicamente ciò che il Burney segnala. Nelle due settimane a Venezia - dal 3 al 18 agosto di quel 1770 l'incontro con Benedetto Marcello dà origine a un capitoletto; si spiega in questo modo la particolare attenzione della Lee nei confronti del compositore veneziano. Il tutto è poi arricchito dalla sensibilità di questa scrittrice, che non dimentica i sapori, il paesaggio, le contingenze, qualche civetteria. A questo proposito, basta ricordare quanto la Lee scrive delle fonti da cui attinge notizie: «... Sono principalmente scrittori inglesi e tedeschi, e anche gli stessi francesi, che spesso riconoscevano i singoli difetti della loro musica, senza però ammetterne mai l'inferiorità generale».
Quello che ne risulta è ancor oggi un libro piacevole, lontano dalle mode e dai rigori della ricerca scientifica, però sempre stimolante, informato, attento. E', per dirla in parole semplici, il Settecento di Vernon Lee, con tutti gli aromi che una scrittrice vittoriana sapeva trovare nell'arte italiana. O almeno, qualche aroma ella aggiunse al materiale predisposto da Burney. La prova - una tra le moltissime - la leggiamo ancora nel capitolo dedicato a Marcello. Burney scrive nel suo Viaggio che avrebbe voluto recarsi agli Incurabili per ascoltare il Buranello, ma poi scelse di assistere a un'esecuzione dei Salmi di Marcello. Con puntualità, egli osserva in calce al concerto: «... Il compositore ha completamente sacrificato la musica alla poesia, mutando tempo e stile ad ogni nuova idea espressa dalle parole». Perciò lo trova "flemmatico, del tutto privo di quell'entusiasmo tipico del genio musicale creatore". La Lee con un paragone efficace scrive: «Il Marcello scrisse molta musica da chiesa e da camera, i cui resti ora si disfanno negli archivi e nelle stanze di sgombro, come gli affreschi del Giorgione si son disfatti, chiazza per chiazza, sulle mura dei palazzi veneziani». E, neanche a farlo apposta, ricorda «i suoi Salmi» di cui ammira la grandezza. Tuttavia, quel «flemmatico» di Burney non lo lascia cadere, ma non se la sente più di condividere il duro giudizio: lo rivolge, allora, alla situazione italiana. In tal modo, quei Salmi «bastano a mostrare quale grande e originale compositore si debba a quell'aristocrazia veneziana che, malgrado la sua corruzione, la sua indolenza, era l'unica istituzione rimasta dai tempi più nobili dell'Italia».
Armando Torno (introduzione a "La vita musicale nell'Italia del Settecento" di Vernon Lee, Passigli Editor1, 1999)
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