L'anno 1926, con la sua ricca produzione pianistica ad uso personale, per i propri concerti, segna l'inizio d'un impetuoso allargamento d'orizzonti nella carriera di Bartók e nella sua notorietà mondiale. Esecuzioni della Sonata e del Concerto lo portano in tournée in vari luoghi: tra l'altro nel luglio 1927 suona il Concerto per pianoforte e orchestra a Francoforte sotto la direzione di Furtwängler, di solito poco tenero verso le composizioni contemporanee. L'11 dicembre si imbarca a Cherbourg per la sua prima tournée negli Stati Uniti, dove darà concerti a New York (con quella Orchestra Filarmonica, diretta da Mengelberg), a Filadelfia e altrove. Questa prima presa di contatto con gli ambienti americani rivestirà un giorno particolare importanza, quando le circostanze politiche europee costringeranno Bartók a cercare asilo negli Stati Uniti. Nel 1928 l'assegnazione del premio Coolidge al Terzo Quartetto di Bartók, a pari merito con la Serenata per cinque strumenti di Alfredo Casella, viene a sancire l'inserzione di Bartók tra i protagonisti del movimento musicale contemporaneo. (Il premio veniva assegnato ogni anno dalla fondazione americana della signora Elizabeth Sprague-Coolidge alla composizione giudicata piú importante e significativa da una giuria estremamente qualificata).
Scritto nel 1927, il Terzo Quartetto pone la curiosità di vedere se Bartók avrebbe portato, in questa forma consacrata alle manifestazioni piú intime e piú sincere della sua sensibilità, la recente esperienza neoclassica consumata nella Sonata e nel Concerto per pianoforte e orchestra, o se sarebbe rimasto fedele a quelle accensioni di tendenza, grosso modo, espressionistica, che abbiamo visto affermarsi, lo stesso anno, nella Suite All'aria aperta. Sebbene dell'esperienza neoclassica vi rimanga acquisito il gusto del contrappunto, e della ostinata scrittura a canone, il Terzo Quartetto appartiene alla tendenza soggettiva, romantica e visionaria dell'arte di Bartók. La scrittura quartettistica resta sempre per lui un invito alla confessione, all'approfondimento dell'impegno espressivo.
Anche qui egli è assillato dal problema della forma totale della composizione: come coordinare le singole parti, escludendo il vecchio impianto sonatistico in quattro movimenti, in modo da ottenere la massima omogeneità e organicítà della composizione. Il Terzo Quartetto ricorre alla drastica soluzione che Bartók aveva già adottato una volta, nella Seconda Sonata per violino e pianoforte (1922): due soli movimenti, di cui il primo è un'introspettiva meditazione, con carattere tormentoso, di angoscia interiore, il secondo quasi un Allegro di Sonata, con due temi, sviluppo e ripresa. I due movimenti trapassano senza interruzione l'uno nell'altro, ma per meglio chiudere, per sanzionare l'unità di queste due parti contrastanti, il compositore le riproduce poi ancora, sempre senza interruzione, in estensione ridotta, con una «ricapitolazione della prima parte» e una «coda». Abbiamo cosí, in sostanza, quattro episodi che si succedono senza interruzione: il primo è un movimento Moderato, sopra una cellula tematica per cosí dire astratta, fondata su due intervalli, uno di quarta ascendente, l'altro di terza discendente, con spunti di lento contrappunto germinale e con invenzioni timbriche straordinarie, che suggeriscono effetti di Musica della notte; il secondo episodio è un Allegro di chiara ispirazione popolare, dal ritmo ben scandito, benché irregolare e mobilissimo, con pittoreschi effetti di sonorità dovuti a glissando, pizzicati, suoni armonici, ampi accordi di violoncello simili a suono di chitarra. Poi la «ricapitolazione della prima parte» reca una pausa di raccoglimento interiore, in cui ogni senso di costruzione formale pare disgregarsi nella intensità di rotti accenti espressivi, di interiezioni isolate; infine la breve coda trascina il pezzo alla conclusione in una ronda rapidissima di suoni fantomatici e irreali.
Il primo tempo è una delle concezioni piú dense e difficili di Bartók, specie di sviluppo continuo fondato sulla costante rigenerazione del discorso da un'unica cellula, attraverso l'impegno del contrappunto.
L'estate del 1928 vede Bartók impiegato nella composizione d'una delle opere destinate ad essere indicate come uno dei suoi capolavori, e cioè il Quarto Quartetto, dove gli esperimenti, i tentativi e le ricerche eff ettuati nei Quartetti precedenti intorno alla sistemazione della forma totale giungono a soluzione soddisfacente con l'attuazione completa di ciò che viene chiamata la «forma a ponte».
Esso si svolge nei tempi: Allegro, Prestissimo con sordino, Non troppo lento, Allegretto pizzicato, Allegro molto.
Giunge qui a un punto estremo un carattere che si era manifestato progressivamente nei Quartetti precedenti, e cioè l'originalità, non solo delle idee musicali, ma piuttosto della qualità stessa del suono: diciamo pure, la stranezza del suono. Un ascoltatore non avvertito, che avesse ad ascoltare il Terzo o il Quarto Quartetto senza vederne l'esecuzione, probabilmente avrebbe difficoltà a capire che si tratta, appunto, di un quartetto: forse non sospetterebbe che i decorosi strumenti ad arco cui Haydn aveva insegnato ad avviare la loro ordinata conversazione a quattro, siano, i produttori di cosí brutali scoppi di suono, sbuffi, sibili, miagolii.
La necessità della «invenzione del suono» sta diventando in questo periodo una delle convinzioni piú ferme e ossessionanti di Bartók. Ogni musicista s'industria, quando compone, a trovare nuove combinazioni di note, complessi inediti di melodia, armonia e ritmo. Perché, invece, l'elemento suono dovrebbe accettarlo supinamente dalla tradizione e dalle consuete possibilità fisiche degli strumenti, senza tentare anche qui di approfondire, di scavare, in una parola, di «creare» per ogni composizione i suoni che ad essa si addicono? Faceva parte dell'amore profondo di Bartók per la Natura - amore ch'era bisogno imperioso di conoscenza - la sua curiosità irresistibile pel mondo del rumore: la soglia che separa il suono musicalmente organizzato dalla realtà incondita dei rumori naturali, egli tentò continuamente di varcarla, e meglio ancora di abbatterla.
Certamente Bartók rappresenta il punto piú avanzato nella esplorazione del mondo fisico del suono, prima che la musica moderna faccia ricorso alla produzione elettronica del suono stesso. Ma appunto dal costante impiego dei mezzi fonici tradizionali, e magari i piú severi ed apparentemente inadatti alla produzione del rumore, come il pianoforte o il quartetto ad arco, i risultati timbrici di Bartòk conseguono una validità superiore a quella degli effetti ottenuti con l'illimitata ampiezza delle possibilità elettroniche.
Tale era già, nei suoi primi lavori pianistici, il significato dell'abbondanza sorprendente di abbellimenti: acciaccature, mordenti, notine ornamentali appiccicate a quelle principali. Tutto ciò non era dettato da uno scopo esornativo, com'era il caso degli abbellimenti settecenteschi, ma dallo sforzo esasperato di trasformare la natura della nota musicale, per darle la ricchezza piena e confusa del rumore, appiccicandole attorno suoni secondari. Gli abbellimenti mirano a intorbidare l'artificiale purezza della «nota» musicale, fino ad ottenere un aggregato sonoro che presenti la naturalità grezza del rumore.
Quanto piú il mezzo dì produzione è paradossalmente classico e tradizionale, tanto piú convince il risultato, proprio per effetto delle limitazioni affrontate dal compositore, che invece di ricorrere a strumenti già per loro natura pittoreschi, come arpe, celesta, campanelli, gong, xilofoni e via dicendo, si serve specialmente del pianoforte o del Quartetto d'archi. Gli effetti d'esecuzione in quest'ultimo caso potranno essere di volta in volta l'alternanza del pizzicato, dello staccato, e del legato, il rimbombo sonoro di larghi accordi pizzicati del violoncello, il fantomatico tremolio di suoni sul ponticello, la brutale violenza di accordi ottenuti col legno, l'uso alterno del vibrato e del non vibrato su una stessa nota lungamente tenuta, e infine - piú vistoso fra tutti questi artifici timbrici - il glissando degli archi, talvolta isolati, talvolta alterni, talvolta contemporanei, che produce un effetto di vero e proprio miagolio, o di lamentoso sospiro. Il giovanile interesse di Bartók per il virtuosismo strumentale trova ora la propria giustificazione in questo impiego creativo del virtuosismo esecutivo a scopo di «inventare il suono».
In quel magazzino di rumori che viene ospitato nei Quartetti di Bartók e nelle altre composizioni della sua fase matura, si manifesta in forma estrema uno degli aspetti piú profondi e interessanti della sua arte: il lato visionario della sua psicologia, quella sua certezza istintiva che, al di là delle apparenze sensibili, la realtà nasconda un nucleo essenziale piú riposto e genuino. Di qui l'ansia di penetrare al di là di questa soglia, il continuo batterla, tempestarla di pugni perché s'apra. E la volontà di aprire tutte le porte chiuse che, nell'unica opera teatrale di Bartók, conduce la protagonista alla sua rovina. Qui, nei Quartetti, la soglia che Bartók si sforza accanitamente di varcare è appunto quella fra suono musicale e rumore. Il rumore come presenza acustica della Natura, il rumore sentito come una chiave, un filo d'Arianna per penetrare nel cuore della Natura.
A questa ricca originalità della materia sonora corrisponde nel Quarto Quartetto, come s'è detto, una compiuta codificazione della forma, per ottenere quell'unità complessiva della composizione che a Bartók stava tanto a cuore. E' quella sua soluzione caratteristica che viene descritta come «forma a ponte», e che si potrebbe forse meglio definire come «forma concentrica». Il numero dei tempi che compongono il Quartetto diventa dispari, come già nel Primo e nel Secondo Quartetto, ma sale a cinque (e cosí sarà pure nel Quinto Quartetto e nel Concerto per orchestra). Avviene cosí che il terzo tempo si trovi sepolto nel piú intimo centro della composizione, come un seme nel frutto, e avvolto da due strati simmetrici di diversa espressione: secondo e quarto tempo rapidi e leggeri, in stile di Scherzo, se il terzo tempo era lento, com'è il caso nel Quarto Quartetto; primo e quinto tempo piú estesi, sonatistici. Tale è appunto l'architettura generale del Quarto Quartetto, che si costruisce tutto, o sarebbe meglio dire, cresce tutto attorno al seme riposto del terzo tempo, il Non troppo lento, in cui a un largo canto del violoncello, quasi improvvisatorio, declamante, in un clima di malinconia pastorale, segue un episodio di misteriosi rumori naturali, di fosforescenze sonore, la cui ispirazione è paragonabile a quella della Musica della notte nei pezzi pianistici di All'aria aperta.
Quindi ripresa del canto di violoncello, secondo uno schema di forma ternaria. Attorno a questo nucleo riposto il secondo e quarto tempo con carattere di Scherzo, entrambi contraddistinti da un particolare esecutivo: l'uno, Prestissimo, è tutto da eseguire con sordino; l'altro, Allegretto, è tutto pizzicato. Entrambi affermano ostinati schemi di forma ternaria. Infine l'Allegro e l'Allegro molto stanno alla superficie della composizione, come due strati sonatistici esterni.
E' ovvio che, a seconda che il tempo centrale sia un tempo lento, oppure uno scherzo rapidissimo, come sarà nel Quinto Quartetto, l'intera portata espressiva e stilistica della composizione resta rivoluzionata. Sono le due facce dell'io di Bartók che prevalgono di volta in volta: quella introspettiva ed espressionistica portata alla ricerca visionaria della realtà segreta delle cose e all'auscultazione interiore dei tumulti che avvengono nelle cellule della materia; e l'altra, la serena faccia realistica, alimentata dall'ispirazione popolare e dal contatto attivo con la collettività, tanto concreta quanto l'altra è impalpabile e penetrante.
di Massimo Mila ("L'arte di Béla Bartók", Einaudi, 1996)
Scritto nel 1927, il Terzo Quartetto pone la curiosità di vedere se Bartók avrebbe portato, in questa forma consacrata alle manifestazioni piú intime e piú sincere della sua sensibilità, la recente esperienza neoclassica consumata nella Sonata e nel Concerto per pianoforte e orchestra, o se sarebbe rimasto fedele a quelle accensioni di tendenza, grosso modo, espressionistica, che abbiamo visto affermarsi, lo stesso anno, nella Suite All'aria aperta. Sebbene dell'esperienza neoclassica vi rimanga acquisito il gusto del contrappunto, e della ostinata scrittura a canone, il Terzo Quartetto appartiene alla tendenza soggettiva, romantica e visionaria dell'arte di Bartók. La scrittura quartettistica resta sempre per lui un invito alla confessione, all'approfondimento dell'impegno espressivo.
Anche qui egli è assillato dal problema della forma totale della composizione: come coordinare le singole parti, escludendo il vecchio impianto sonatistico in quattro movimenti, in modo da ottenere la massima omogeneità e organicítà della composizione. Il Terzo Quartetto ricorre alla drastica soluzione che Bartók aveva già adottato una volta, nella Seconda Sonata per violino e pianoforte (1922): due soli movimenti, di cui il primo è un'introspettiva meditazione, con carattere tormentoso, di angoscia interiore, il secondo quasi un Allegro di Sonata, con due temi, sviluppo e ripresa. I due movimenti trapassano senza interruzione l'uno nell'altro, ma per meglio chiudere, per sanzionare l'unità di queste due parti contrastanti, il compositore le riproduce poi ancora, sempre senza interruzione, in estensione ridotta, con una «ricapitolazione della prima parte» e una «coda». Abbiamo cosí, in sostanza, quattro episodi che si succedono senza interruzione: il primo è un movimento Moderato, sopra una cellula tematica per cosí dire astratta, fondata su due intervalli, uno di quarta ascendente, l'altro di terza discendente, con spunti di lento contrappunto germinale e con invenzioni timbriche straordinarie, che suggeriscono effetti di Musica della notte; il secondo episodio è un Allegro di chiara ispirazione popolare, dal ritmo ben scandito, benché irregolare e mobilissimo, con pittoreschi effetti di sonorità dovuti a glissando, pizzicati, suoni armonici, ampi accordi di violoncello simili a suono di chitarra. Poi la «ricapitolazione della prima parte» reca una pausa di raccoglimento interiore, in cui ogni senso di costruzione formale pare disgregarsi nella intensità di rotti accenti espressivi, di interiezioni isolate; infine la breve coda trascina il pezzo alla conclusione in una ronda rapidissima di suoni fantomatici e irreali.
Il primo tempo è una delle concezioni piú dense e difficili di Bartók, specie di sviluppo continuo fondato sulla costante rigenerazione del discorso da un'unica cellula, attraverso l'impegno del contrappunto.
L'estate del 1928 vede Bartók impiegato nella composizione d'una delle opere destinate ad essere indicate come uno dei suoi capolavori, e cioè il Quarto Quartetto, dove gli esperimenti, i tentativi e le ricerche eff ettuati nei Quartetti precedenti intorno alla sistemazione della forma totale giungono a soluzione soddisfacente con l'attuazione completa di ciò che viene chiamata la «forma a ponte».
Esso si svolge nei tempi: Allegro, Prestissimo con sordino, Non troppo lento, Allegretto pizzicato, Allegro molto.
Giunge qui a un punto estremo un carattere che si era manifestato progressivamente nei Quartetti precedenti, e cioè l'originalità, non solo delle idee musicali, ma piuttosto della qualità stessa del suono: diciamo pure, la stranezza del suono. Un ascoltatore non avvertito, che avesse ad ascoltare il Terzo o il Quarto Quartetto senza vederne l'esecuzione, probabilmente avrebbe difficoltà a capire che si tratta, appunto, di un quartetto: forse non sospetterebbe che i decorosi strumenti ad arco cui Haydn aveva insegnato ad avviare la loro ordinata conversazione a quattro, siano, i produttori di cosí brutali scoppi di suono, sbuffi, sibili, miagolii.
La necessità della «invenzione del suono» sta diventando in questo periodo una delle convinzioni piú ferme e ossessionanti di Bartók. Ogni musicista s'industria, quando compone, a trovare nuove combinazioni di note, complessi inediti di melodia, armonia e ritmo. Perché, invece, l'elemento suono dovrebbe accettarlo supinamente dalla tradizione e dalle consuete possibilità fisiche degli strumenti, senza tentare anche qui di approfondire, di scavare, in una parola, di «creare» per ogni composizione i suoni che ad essa si addicono? Faceva parte dell'amore profondo di Bartók per la Natura - amore ch'era bisogno imperioso di conoscenza - la sua curiosità irresistibile pel mondo del rumore: la soglia che separa il suono musicalmente organizzato dalla realtà incondita dei rumori naturali, egli tentò continuamente di varcarla, e meglio ancora di abbatterla.
Certamente Bartók rappresenta il punto piú avanzato nella esplorazione del mondo fisico del suono, prima che la musica moderna faccia ricorso alla produzione elettronica del suono stesso. Ma appunto dal costante impiego dei mezzi fonici tradizionali, e magari i piú severi ed apparentemente inadatti alla produzione del rumore, come il pianoforte o il quartetto ad arco, i risultati timbrici di Bartòk conseguono una validità superiore a quella degli effetti ottenuti con l'illimitata ampiezza delle possibilità elettroniche.
Tale era già, nei suoi primi lavori pianistici, il significato dell'abbondanza sorprendente di abbellimenti: acciaccature, mordenti, notine ornamentali appiccicate a quelle principali. Tutto ciò non era dettato da uno scopo esornativo, com'era il caso degli abbellimenti settecenteschi, ma dallo sforzo esasperato di trasformare la natura della nota musicale, per darle la ricchezza piena e confusa del rumore, appiccicandole attorno suoni secondari. Gli abbellimenti mirano a intorbidare l'artificiale purezza della «nota» musicale, fino ad ottenere un aggregato sonoro che presenti la naturalità grezza del rumore.
Quanto piú il mezzo dì produzione è paradossalmente classico e tradizionale, tanto piú convince il risultato, proprio per effetto delle limitazioni affrontate dal compositore, che invece di ricorrere a strumenti già per loro natura pittoreschi, come arpe, celesta, campanelli, gong, xilofoni e via dicendo, si serve specialmente del pianoforte o del Quartetto d'archi. Gli effetti d'esecuzione in quest'ultimo caso potranno essere di volta in volta l'alternanza del pizzicato, dello staccato, e del legato, il rimbombo sonoro di larghi accordi pizzicati del violoncello, il fantomatico tremolio di suoni sul ponticello, la brutale violenza di accordi ottenuti col legno, l'uso alterno del vibrato e del non vibrato su una stessa nota lungamente tenuta, e infine - piú vistoso fra tutti questi artifici timbrici - il glissando degli archi, talvolta isolati, talvolta alterni, talvolta contemporanei, che produce un effetto di vero e proprio miagolio, o di lamentoso sospiro. Il giovanile interesse di Bartók per il virtuosismo strumentale trova ora la propria giustificazione in questo impiego creativo del virtuosismo esecutivo a scopo di «inventare il suono».
In quel magazzino di rumori che viene ospitato nei Quartetti di Bartók e nelle altre composizioni della sua fase matura, si manifesta in forma estrema uno degli aspetti piú profondi e interessanti della sua arte: il lato visionario della sua psicologia, quella sua certezza istintiva che, al di là delle apparenze sensibili, la realtà nasconda un nucleo essenziale piú riposto e genuino. Di qui l'ansia di penetrare al di là di questa soglia, il continuo batterla, tempestarla di pugni perché s'apra. E la volontà di aprire tutte le porte chiuse che, nell'unica opera teatrale di Bartók, conduce la protagonista alla sua rovina. Qui, nei Quartetti, la soglia che Bartók si sforza accanitamente di varcare è appunto quella fra suono musicale e rumore. Il rumore come presenza acustica della Natura, il rumore sentito come una chiave, un filo d'Arianna per penetrare nel cuore della Natura.
A questa ricca originalità della materia sonora corrisponde nel Quarto Quartetto, come s'è detto, una compiuta codificazione della forma, per ottenere quell'unità complessiva della composizione che a Bartók stava tanto a cuore. E' quella sua soluzione caratteristica che viene descritta come «forma a ponte», e che si potrebbe forse meglio definire come «forma concentrica». Il numero dei tempi che compongono il Quartetto diventa dispari, come già nel Primo e nel Secondo Quartetto, ma sale a cinque (e cosí sarà pure nel Quinto Quartetto e nel Concerto per orchestra). Avviene cosí che il terzo tempo si trovi sepolto nel piú intimo centro della composizione, come un seme nel frutto, e avvolto da due strati simmetrici di diversa espressione: secondo e quarto tempo rapidi e leggeri, in stile di Scherzo, se il terzo tempo era lento, com'è il caso nel Quarto Quartetto; primo e quinto tempo piú estesi, sonatistici. Tale è appunto l'architettura generale del Quarto Quartetto, che si costruisce tutto, o sarebbe meglio dire, cresce tutto attorno al seme riposto del terzo tempo, il Non troppo lento, in cui a un largo canto del violoncello, quasi improvvisatorio, declamante, in un clima di malinconia pastorale, segue un episodio di misteriosi rumori naturali, di fosforescenze sonore, la cui ispirazione è paragonabile a quella della Musica della notte nei pezzi pianistici di All'aria aperta.
Quindi ripresa del canto di violoncello, secondo uno schema di forma ternaria. Attorno a questo nucleo riposto il secondo e quarto tempo con carattere di Scherzo, entrambi contraddistinti da un particolare esecutivo: l'uno, Prestissimo, è tutto da eseguire con sordino; l'altro, Allegretto, è tutto pizzicato. Entrambi affermano ostinati schemi di forma ternaria. Infine l'Allegro e l'Allegro molto stanno alla superficie della composizione, come due strati sonatistici esterni.
E' ovvio che, a seconda che il tempo centrale sia un tempo lento, oppure uno scherzo rapidissimo, come sarà nel Quinto Quartetto, l'intera portata espressiva e stilistica della composizione resta rivoluzionata. Sono le due facce dell'io di Bartók che prevalgono di volta in volta: quella introspettiva ed espressionistica portata alla ricerca visionaria della realtà segreta delle cose e all'auscultazione interiore dei tumulti che avvengono nelle cellule della materia; e l'altra, la serena faccia realistica, alimentata dall'ispirazione popolare e dal contatto attivo con la collettività, tanto concreta quanto l'altra è impalpabile e penetrante.
di Massimo Mila ("L'arte di Béla Bartók", Einaudi, 1996)
1 commento:
non si poteva aver dubbi sul fatto che Mila riuscisse a far parlare un testo come quello di Bartok che non è tra i più eseguiti e ascoltati. per me è stata l'occasione per tornarci sopra; grazie di questo post (ce ne sono tanti in questa miniera da esplorare che possono riaprire gli orecchi ed oltre).
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