Una fortuna che, ripensandoci bene, vale forse un destino. Paolo è un ragazzino che vive nella Bassa mantovana. In casa la musica è quella della radio - quando ancora la cultura non era un investimento inutile e i programmi osavano proporre anche due, tre serate settimanali di contemporanea - e quella delle straordinarie pubblicazioni discografi che della Fratelli Fabbri Editori, che il fratello maggiore non manca di acquistare in edicola. L´altra musica, più nascosta, è nel cuore del padre, ottimo violoncellista dilettante, ferroviere per ragioni prima di guerra, e poi di economia famigliare. C´è anche un pianoforte, su cui Paolo impara - da solo, per irreprimibile curiosità - il primo alfabeto dei suoni. Un alfabeto che nulla ha a che fare con le accademie e tutto con le emozioni. Si registra, si mette alla prova, sperimenta, gioca. Poi il padre giunge alla pensione e può dedicarsi a quell´antico amore mai dimenticato. Si arma di nuovo di archetto e torna a suonare. Non solo per sé, ma anche nelle sedi ufficiali: nella Scuola di Musica di Suzzara, in Conservatorio! Lo chiamano a collaborare con i saggi dei ragazzi, a supportare gruppi da camera con il suo violoncello. Lui accetta con slancio. Ad attenderlo in sala, da artista e da docente, c´è anche l´ex ragazzino rapito dalla musica e nel frattempo divenuto musicista. Un cerchio che si chiude.
Cosa ricorda del suo avventuroso “apprendistato” di bambino immobile davanti alla radio o al giradischi?
«Mi immergevo totalmente in una composizione riascoltandola infinite volte per comprendere la ragione delle emozioni che riusciva a suscitarmi. Ricordo l´incontro con le Sinfonie di Beethoven, quello con la musica di Luigi Nono...»
Un amore prima disordinato che nel tempo si fa sempre più centrale, fino a una precisa scelta, almeno di studi...
«Sono arrivato ad uno studio più strutturato della musica muovendo da una prospettiva piuttosto diversa rispetto a quella tradizionale. Prima ho infatti continuato ad indagare la musica e la sua forza anche frequentando i corsi di estetica di Luciano Anceschi alla Facoltà di Filosofia dell´Università di Bologna».
Quali, in questo percorso anomalo, gli incontri clou?
«Tra i tanti, devo menzionare quelli cardinali: Armando Gentilucci, che ho conosciuto a metà degli anni Settanta, e soprattutto Salvatore Sciarrino, con il quale ho studiato per diversi anni, per poi diventarne per qualche tempo l´assistente ai corsi estivi di Città di Castello».
A quando risale la prima vera prova di compositore?
«Nel 1980, a 25 anni, con Diario, un piccolo pezzo per due flauti e pianoforte. È stata quella la volta in cui ho vissuto la mia prima vera esperienza di incontro con il lavoro compositivo: ricordo ancora l´emozione, l´entusiasmo di quei giorni e di quelle notti di lavoro febbrile».
Cosa ricorda del suo avventuroso “apprendistato” di bambino immobile davanti alla radio o al giradischi?
«Mi immergevo totalmente in una composizione riascoltandola infinite volte per comprendere la ragione delle emozioni che riusciva a suscitarmi. Ricordo l´incontro con le Sinfonie di Beethoven, quello con la musica di Luigi Nono...»
Un amore prima disordinato che nel tempo si fa sempre più centrale, fino a una precisa scelta, almeno di studi...
«Sono arrivato ad uno studio più strutturato della musica muovendo da una prospettiva piuttosto diversa rispetto a quella tradizionale. Prima ho infatti continuato ad indagare la musica e la sua forza anche frequentando i corsi di estetica di Luciano Anceschi alla Facoltà di Filosofia dell´Università di Bologna».
Quali, in questo percorso anomalo, gli incontri clou?
«Tra i tanti, devo menzionare quelli cardinali: Armando Gentilucci, che ho conosciuto a metà degli anni Settanta, e soprattutto Salvatore Sciarrino, con il quale ho studiato per diversi anni, per poi diventarne per qualche tempo l´assistente ai corsi estivi di Città di Castello».
A quando risale la prima vera prova di compositore?
«Nel 1980, a 25 anni, con Diario, un piccolo pezzo per due flauti e pianoforte. È stata quella la volta in cui ho vissuto la mia prima vera esperienza di incontro con il lavoro compositivo: ricordo ancora l´emozione, l´entusiasmo di quei giorni e di quelle notti di lavoro febbrile».
Nel 1992 si è aggiudicato il Concorso internazionale di composizione di Vienna con Primavera dell’anima, eseguita dalla Mahler Jugendorchester diretta da Claudio Abbado. A quasi 20 anni da allora, cosa pensa del suo lavoro? È ancora possibile considerare l’arte e la musica come un compito etico?
«Il progressivo degrado culturale a cui stiamo assistendo si manifesta nella musica nei termini di una sua progressiva messa ai margini. Il pubblico non viene neanche posto nelle condizioni di poter scegliere oltre i limiti di un orizzonte rigidamente definito dalla logica dominante del mercato orientata più ad indirizzare il consumo che a permettere l´incontro con i fatti della cultura. È come se stesse riemergendo il timore nei confronti delle potenzialità critiche e innovative del sapere e del pensiero. La musica del nostro tempo, quando non ‘addomesticata’ e ridotta a pura occasione di intrattenimento, fatica ad essere accolta non perché incompresa ma esattamente per il motivo contrario: è la forza creativa e destabilizzante della sua presenza che la società di oggi pare sempre meno disposta ad accogliere. Impaurita dal nuovo, anche così mostra la sua debolezza e la sua decadenza».
Cosa significa allora per lei essere artista?
«L’artista agisce sulle abitudini percettive e sulla configurazione estetica del proprio tempo, modificandole entrambe e inaugurando altri, nuovi, orizzonti di senso. Per questo condivide con lo scienziato la responsabilità derivante dall’avere a che fare con la costruzione e la trasformazione di ciò che diciamo ‘mondo’».
E l’esperienza didattica? Da sempre è in perfetto contrappunto alla composizione...
«Vivo come imprescindibile il mio impegno didattico perché è proprio su questo piano che le valenze educative della musica possono venire esaltate o annullate. Da qui la mia collaborazione con la Scuola di Musica di Suzzara - che ho contribuito a fondare nel 1980 - e i diversi progetti con le scuole superiori e le scuole e nidi d´infanzia di Reggio Emilia».
Come vede la realtà mantovana rispetto alla salute della musica, nelle istituzioni solastiche e nei cartelloni?
«Nel panorama alquanto arretrato e confuso dei Conservatori italiani, quello di Mantova in cui insegno mostra potenzialità importanti: penso alla quantità e qualità delle proposte, ma anche all’attenzione nei confronti della prima formazione musicale. Quanto a Tempo d’Orchestra: oggi fare cultura significa tentare di reagire alla situazione che abbiamo ricordato. Su questo piano la prestigiosa rassegna mantovana sta dando un contributo enorme alla vita culturale della città».
Sabato 14 marzo 2009, Tempo d´Orchestra ospiterà a Suzzara l´esecuzione del suo Folly for to... per pianoforte ed elettronica.
«È un pezzo del 2002 - una commissione dell’Amsterdam Fund for Art - il cui titolo è tratto dall’inizio di What is the world, l’ultimo testo di Samuel Beckett. In esso, anche grazie alla elaborazione digitale, le trasformazioni della materia sonora oltrepassano spesso i limiti che le umane possibilità esecutive avrebbero loro imposto: da qui una sorta di smania (folly) verso un dire altro, il dire a cui accediamo muovendo dallo stupore dell’esperienza estetica, un dire a cui aspira questa musica».
«Il progressivo degrado culturale a cui stiamo assistendo si manifesta nella musica nei termini di una sua progressiva messa ai margini. Il pubblico non viene neanche posto nelle condizioni di poter scegliere oltre i limiti di un orizzonte rigidamente definito dalla logica dominante del mercato orientata più ad indirizzare il consumo che a permettere l´incontro con i fatti della cultura. È come se stesse riemergendo il timore nei confronti delle potenzialità critiche e innovative del sapere e del pensiero. La musica del nostro tempo, quando non ‘addomesticata’ e ridotta a pura occasione di intrattenimento, fatica ad essere accolta non perché incompresa ma esattamente per il motivo contrario: è la forza creativa e destabilizzante della sua presenza che la società di oggi pare sempre meno disposta ad accogliere. Impaurita dal nuovo, anche così mostra la sua debolezza e la sua decadenza».
Cosa significa allora per lei essere artista?
«L’artista agisce sulle abitudini percettive e sulla configurazione estetica del proprio tempo, modificandole entrambe e inaugurando altri, nuovi, orizzonti di senso. Per questo condivide con lo scienziato la responsabilità derivante dall’avere a che fare con la costruzione e la trasformazione di ciò che diciamo ‘mondo’».
E l’esperienza didattica? Da sempre è in perfetto contrappunto alla composizione...
«Vivo come imprescindibile il mio impegno didattico perché è proprio su questo piano che le valenze educative della musica possono venire esaltate o annullate. Da qui la mia collaborazione con la Scuola di Musica di Suzzara - che ho contribuito a fondare nel 1980 - e i diversi progetti con le scuole superiori e le scuole e nidi d´infanzia di Reggio Emilia».
Come vede la realtà mantovana rispetto alla salute della musica, nelle istituzioni solastiche e nei cartelloni?
«Nel panorama alquanto arretrato e confuso dei Conservatori italiani, quello di Mantova in cui insegno mostra potenzialità importanti: penso alla quantità e qualità delle proposte, ma anche all’attenzione nei confronti della prima formazione musicale. Quanto a Tempo d’Orchestra: oggi fare cultura significa tentare di reagire alla situazione che abbiamo ricordato. Su questo piano la prestigiosa rassegna mantovana sta dando un contributo enorme alla vita culturale della città».
Sabato 14 marzo 2009, Tempo d´Orchestra ospiterà a Suzzara l´esecuzione del suo Folly for to... per pianoforte ed elettronica.
«È un pezzo del 2002 - una commissione dell’Amsterdam Fund for Art - il cui titolo è tratto dall’inizio di What is the world, l’ultimo testo di Samuel Beckett. In esso, anche grazie alla elaborazione digitale, le trasformazioni della materia sonora oltrepassano spesso i limiti che le umane possibilità esecutive avrebbero loro imposto: da qui una sorta di smania (folly) verso un dire altro, il dire a cui accediamo muovendo dallo stupore dell’esperienza estetica, un dire a cui aspira questa musica».
intervista di Elide Bergamaschi ("Musicalmente", Anno 5, numero 2, Marzo 2009)
3 commenti:
Mi piace il tuo linguaggio, penso interessante un sera come argomento
Una sera su il linguaggio.
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