Il centenario della nascita sta dimostrando quanto la musica di Olivier Messiaen (Avignone 10 dicembre 1908 - Clichy 27 aprile 1992) sia amata nel mondo e dimostra anche, purtroppo, un certo ritardo che c'è qui da noi, almeno sotto il profilo delle occasioni,di "musica viva'. Esce in questi giorni l'importante traduzione italiana (a cura di Francesco Cilluffo e Daniele Torelli) di un cospicuo volume di saggi (Olivier Messiaen dai canyons alle stelle; edizione originale Faber & Faber The Messiaen Companion, 1995) che contribuirà senz'altro, almeno musicologicamente, a colmare la grave lacuna grazie all'impegno del Festival MITO-Settembre Musica e al Saggiatore nella cui collana, "La cultura" (642), il libro viene pubblicato. Il pianista e musicologo inglese Peter Hill, che ha conosciuto e studiato sia con Messiaen che con la sua seconda moglie Yvonne Loriod (celebre interprete dell'opera pianistica del compositore), è curatore attento di questo tributo al poliedrico artista francese.
Messiaen si è conquistato un certo rispetto come maestro di Boulez, Xenakis, Stockhausen, Kurtag, tanto per citare solo alcuni nomi che costituiscono il "biglietto da visita" con cui egli si presenta alla contemporaneità, ma in compenso ha ricevuto anche molte facili etichette tra loro di segno contrario (come "primitivismo" e contemporaneamente "integralismo costruttivista") che ne adombrano la reale e complessa dimensione poetica ed estetica che si collega alla tradizione classica sviluppandone le premesse principali: l'autonomia del linguaggio musicale dalle altre arti (ciò che non esclude, in Messiaen, la loro riapparizione dall'interno della musica), l'utopia della musica come sistema di segni atto alla comunicazione universale. Per ciò Messiaen accetta nel suo secolo la sfida del paradosso e delle apparenti contraddizioni coniugando una certa qual sfiducia nella scienza - incapace a detta del compositore di vincere "l'incertitude" dell'uomo contemporaneo - con un estremo tentativo di razionalizzazione del metodo compositivo. Per un allargamento del sistema musicale occidentale egli concepisce una singolare formulazione teorica basata sul disvelamento dei limiti del sistema, rintracciando gli elementi primi, dotati, come egli dice, di "charme des impossibilités", accostabili ad altri elementi derivati dalle culture extracuropee (India, Giappone, America precolombiana).
Nel 1944 Messiaen espone nel libro-pamphlet Technique de mon langage musical proprio articolato ed eversivo progetto compositivo: "Noi non rifiuteremo le vecchie regole dell'armonia.
e della forma: ricordiamocene costantemente sia per osservarle, sia per ampliarle, sia per aggiungeme delle altre più antiche ancora (quelle del canto piano gregoriano e della ritmica Indù) o più recenti (quelle suggerite da Debussy e dalla musica contemporanea). Un punto fisserà la nostra attenzione, il fascino delle impossibilità. E' una musica carica di choc che noi cerchiamo dando all'udito dei piaceri voluttuosamente raffinati. [...] modi che non si possono trasportare al di là di un certo numero di trasposizioni poiché si ricade sempre sulle medesime note, i ritmi che non si possono retrogradare poiché ci si ritrova sempre nel medesimo ordine di valori: ecco due impossibilità decisive. [...] Pensiamo all'ascoltatore [...] egli sentirà suo malgrado il fascino strano dell'impossibilità: un certo effetto di ubiquità tonale nella non trasposizione, una certa unità di movimento (dove l'inizio e la fine si confondono perché identici) nella non retrogradabilità dei ritmi, cose che lo condurranno tutte progressivamente a quella sorta di arcobaleno teologico che vuole essere il linguaggio di cui cerchiamo edificazione e teoria".
L'ordine totale in cui Messiaen dispone il proprio universo creativo ignora non solo i confini delle diverse culture, ma anche quelli delle diverse arti: scrive quasi tutti i testi poetici delle sue opere vocali, professa la sinestesia e una sua particolare specie di ornitologia culminante nei sette libri del Catatogue d'oiseaux per pianoforte pubblicati tra il 1956 e il 1958.
Nei Poèmes pour Mi (scritti in due versioni: nel 1936 per soprano e pianoforte, nel 1937 per soprano e. orchestra) Messiaen esercita già ampiamente la sua sensibilità poetica ai valori fonici della parola per dipingere con chiare ascendenze simboliste e surrealiste, l'aura rituale e magica di quadri di vita quotidiana famigliari ispirati dalla figura ferriminile (Mi, è il confidenziale soprannome della prima moglie del compositore, Claire Delbos).
A partire dal 1940 Messiaen muove passi decisivi verso la radicalizzazione dei suoi, principali assunti tecnici, estetici e poetico-filosofici, per sette anni, durante la guerra, è prigioniero nel campo nazista di Görlitz in Slesia dove scrive il Quatuor pour la fin du temps ispirandosi all'Apocalisse; durante la tragica malattia della moglie Claire, che penosamente si protrarrà fino alla morte nel 1959, compone una trilogia profana che dà uno speciale rilievo al tema profano di Amore e Morte e che per molti aspetti si può considerare come una straniante parodia del Tristan wagneriano. In ordine di tempo, viene per prima alla luce una composizione intitolata Harawi (1945) per voce di soprano e pianoforte che funziona chiaramente come atto introduttivo all'intera trilogia. E vengono poi Turangalila symphonie (1948) per grande orchestra, forse l'opera più celebre di Messiaen, e infine i Cinq rechants per 12 voci a cappella (1948). In tutte e tre il mito wagneriano è trattato come un archetipo che prescinde dalle origini storiche del modello. E il principio di straniamento, cui alludevo, deriva dalla sovrapposizione, apparentemente del tutto arbitraria, di leggende proprie delle culture americane pre-colombiane, in particolare quelle che costituiscono il repertorio della antica tradizione peruviana del canto Yaravì (la parola harawi, usata da Messiaen, è approssimativa traslitterazione di un vocabolo quechua). In questa tradizione il tema dell'amore e della morte è presente, ma insieme all'espressione di altri dolorosi sentimenti quali il sacrificio della nazione Inca e di popoli impotenti di fronte al genocidio e all'estinzione della propria cultura: Messiaen riapre dunque il mito a tutto un sistema di sottili interferenze riferite a circostanze biografiche e storiche vissute (la guerra, la prigionia, la malattia della moglie): tanto in Harawi che nei Cinq rechants, Messiaen sperimenta una diversa funzionalità dei testi di poesia che ora non recano più solo l'impronta surrealista, ma nella stessa loro struttura fonosimbolica l'intuizione-invenzione dell'iminagine di un linguaggio oscillante tra le categorie del preverbale e del verbale-primordiale. Così anche la parola diviene per minime strutture veicolo della stessa utopia della musica: dar forma ad un livello di comunicazione universale anche a costo della rinuncia ad un'implicazione semantica, logica, immediatamente decrittabile e precisamente definita delle parole. Nel sesto canto di Harawi - per fare solo un piccolo esempio di come Messiaen prefiguri un bisogno drammaticamente avvertito; nella poesia del Novecento che si intitola Répétition planetaire, la voce ripete a lungo un misterioso richiamo di tre sole sillabe apparentemente senza senso ("Mapa-nama-lila" ma innanzitutto, a ben vedere, oggi possiamo verificame la perfetta congruenza con i sistemi di opposizione consonantica descritti, nella linguistica di Jakobson come prime manifestazioni nella fase delle lallazioni infantili. In secondo luogo però è vero che in queste catene di suoni Messiaen ha certamente occultato anche un significato sillabico esoterico ("mapa-nama" in quechua rimanda all'idea -di sepoltura e/o "essere ricoperto di terra", "lila" in sanscrito a quello di "movimento" o "gioco divino" di Shiva).
Al tema della trilogia tristanica si rifanno ancora le parole del compositore che aprono il libro dell'Hommage pubblicato a Parigi per i suoi settant'anni (1978): "Le ricerche scientifiche, le prove matematiche, le esperienze biologiche accumulatesi, non ci hanno salvato dall'incertezza. Al contrario, esse hanno aumentato la nostra ignoranza, mostrando sempre nuove realtà sotto ciò che si credeva essere la realtà. Infatti la sola realtà è di altro ordine: si situa nel dominio della Fede. E' attraverso l'incontro con l'altro che noi possiamo comprenderla. Ma bisogna passare per la morte e la Resurrezione, ciò che, implica un salto al di fuori del tempo cui stranamente la musica può prepararci come immagine, come riflesso, come simbolo. Infatti la musica è un dialogo perpetuo tra lo spazio e il tempo, tra il suono e il colore, dialogo che tende ad un'unificazione: il tempo è uno spazio, il suono è un colore, lo spazio è un complesso di tempi. sovrapposti, i complessi di suoni esistono simultaneamente come complessi di colore.
Nella bella raccolta del Saggiatore c'è appunto un articolo intitolato semplicemente "Colore" del fine musicologo americano Jonathan W. Bernard: "Sarebbe un grave errore - egli scrive - per chiunque sia interessato alla musica di Messiaen, accantonare subito l'idea del colore come attributo del suono come se fosse semplicemente un'illusione del compositore o una prova del suo carattere eccentrico". La sinestesia in Messiaen non è meramente riferita alle tonalità, come in Skrjabin, ma precisamente agli accordi, agli impasti di suono-colore: una tavolozza mobile e sfuggente, in perpetuo cambiamento. Bernard, lavorando sulle interviste date dal compositore, sulle prefazioni alle opere e le partiture stesse, è giunto a classificare le associazioni fino a fornire una tabella molto precisa ed utile cui aggiungerci però che anche nei testi poetici scritti dal compositore si svela la visone del colore del suono, e nel punto e preciso in cui, secondo Messiaen, la musica la produce.
Messiaen si è conquistato un certo rispetto come maestro di Boulez, Xenakis, Stockhausen, Kurtag, tanto per citare solo alcuni nomi che costituiscono il "biglietto da visita" con cui egli si presenta alla contemporaneità, ma in compenso ha ricevuto anche molte facili etichette tra loro di segno contrario (come "primitivismo" e contemporaneamente "integralismo costruttivista") che ne adombrano la reale e complessa dimensione poetica ed estetica che si collega alla tradizione classica sviluppandone le premesse principali: l'autonomia del linguaggio musicale dalle altre arti (ciò che non esclude, in Messiaen, la loro riapparizione dall'interno della musica), l'utopia della musica come sistema di segni atto alla comunicazione universale. Per ciò Messiaen accetta nel suo secolo la sfida del paradosso e delle apparenti contraddizioni coniugando una certa qual sfiducia nella scienza - incapace a detta del compositore di vincere "l'incertitude" dell'uomo contemporaneo - con un estremo tentativo di razionalizzazione del metodo compositivo. Per un allargamento del sistema musicale occidentale egli concepisce una singolare formulazione teorica basata sul disvelamento dei limiti del sistema, rintracciando gli elementi primi, dotati, come egli dice, di "charme des impossibilités", accostabili ad altri elementi derivati dalle culture extracuropee (India, Giappone, America precolombiana).
Nel 1944 Messiaen espone nel libro-pamphlet Technique de mon langage musical proprio articolato ed eversivo progetto compositivo: "Noi non rifiuteremo le vecchie regole dell'armonia.
e della forma: ricordiamocene costantemente sia per osservarle, sia per ampliarle, sia per aggiungeme delle altre più antiche ancora (quelle del canto piano gregoriano e della ritmica Indù) o più recenti (quelle suggerite da Debussy e dalla musica contemporanea). Un punto fisserà la nostra attenzione, il fascino delle impossibilità. E' una musica carica di choc che noi cerchiamo dando all'udito dei piaceri voluttuosamente raffinati. [...] modi che non si possono trasportare al di là di un certo numero di trasposizioni poiché si ricade sempre sulle medesime note, i ritmi che non si possono retrogradare poiché ci si ritrova sempre nel medesimo ordine di valori: ecco due impossibilità decisive. [...] Pensiamo all'ascoltatore [...] egli sentirà suo malgrado il fascino strano dell'impossibilità: un certo effetto di ubiquità tonale nella non trasposizione, una certa unità di movimento (dove l'inizio e la fine si confondono perché identici) nella non retrogradabilità dei ritmi, cose che lo condurranno tutte progressivamente a quella sorta di arcobaleno teologico che vuole essere il linguaggio di cui cerchiamo edificazione e teoria".
L'ordine totale in cui Messiaen dispone il proprio universo creativo ignora non solo i confini delle diverse culture, ma anche quelli delle diverse arti: scrive quasi tutti i testi poetici delle sue opere vocali, professa la sinestesia e una sua particolare specie di ornitologia culminante nei sette libri del Catatogue d'oiseaux per pianoforte pubblicati tra il 1956 e il 1958.
Nei Poèmes pour Mi (scritti in due versioni: nel 1936 per soprano e pianoforte, nel 1937 per soprano e. orchestra) Messiaen esercita già ampiamente la sua sensibilità poetica ai valori fonici della parola per dipingere con chiare ascendenze simboliste e surrealiste, l'aura rituale e magica di quadri di vita quotidiana famigliari ispirati dalla figura ferriminile (Mi, è il confidenziale soprannome della prima moglie del compositore, Claire Delbos).
A partire dal 1940 Messiaen muove passi decisivi verso la radicalizzazione dei suoi, principali assunti tecnici, estetici e poetico-filosofici, per sette anni, durante la guerra, è prigioniero nel campo nazista di Görlitz in Slesia dove scrive il Quatuor pour la fin du temps ispirandosi all'Apocalisse; durante la tragica malattia della moglie Claire, che penosamente si protrarrà fino alla morte nel 1959, compone una trilogia profana che dà uno speciale rilievo al tema profano di Amore e Morte e che per molti aspetti si può considerare come una straniante parodia del Tristan wagneriano. In ordine di tempo, viene per prima alla luce una composizione intitolata Harawi (1945) per voce di soprano e pianoforte che funziona chiaramente come atto introduttivo all'intera trilogia. E vengono poi Turangalila symphonie (1948) per grande orchestra, forse l'opera più celebre di Messiaen, e infine i Cinq rechants per 12 voci a cappella (1948). In tutte e tre il mito wagneriano è trattato come un archetipo che prescinde dalle origini storiche del modello. E il principio di straniamento, cui alludevo, deriva dalla sovrapposizione, apparentemente del tutto arbitraria, di leggende proprie delle culture americane pre-colombiane, in particolare quelle che costituiscono il repertorio della antica tradizione peruviana del canto Yaravì (la parola harawi, usata da Messiaen, è approssimativa traslitterazione di un vocabolo quechua). In questa tradizione il tema dell'amore e della morte è presente, ma insieme all'espressione di altri dolorosi sentimenti quali il sacrificio della nazione Inca e di popoli impotenti di fronte al genocidio e all'estinzione della propria cultura: Messiaen riapre dunque il mito a tutto un sistema di sottili interferenze riferite a circostanze biografiche e storiche vissute (la guerra, la prigionia, la malattia della moglie): tanto in Harawi che nei Cinq rechants, Messiaen sperimenta una diversa funzionalità dei testi di poesia che ora non recano più solo l'impronta surrealista, ma nella stessa loro struttura fonosimbolica l'intuizione-invenzione dell'iminagine di un linguaggio oscillante tra le categorie del preverbale e del verbale-primordiale. Così anche la parola diviene per minime strutture veicolo della stessa utopia della musica: dar forma ad un livello di comunicazione universale anche a costo della rinuncia ad un'implicazione semantica, logica, immediatamente decrittabile e precisamente definita delle parole. Nel sesto canto di Harawi - per fare solo un piccolo esempio di come Messiaen prefiguri un bisogno drammaticamente avvertito; nella poesia del Novecento che si intitola Répétition planetaire, la voce ripete a lungo un misterioso richiamo di tre sole sillabe apparentemente senza senso ("Mapa-nama-lila" ma innanzitutto, a ben vedere, oggi possiamo verificame la perfetta congruenza con i sistemi di opposizione consonantica descritti, nella linguistica di Jakobson come prime manifestazioni nella fase delle lallazioni infantili. In secondo luogo però è vero che in queste catene di suoni Messiaen ha certamente occultato anche un significato sillabico esoterico ("mapa-nama" in quechua rimanda all'idea -di sepoltura e/o "essere ricoperto di terra", "lila" in sanscrito a quello di "movimento" o "gioco divino" di Shiva).
Al tema della trilogia tristanica si rifanno ancora le parole del compositore che aprono il libro dell'Hommage pubblicato a Parigi per i suoi settant'anni (1978): "Le ricerche scientifiche, le prove matematiche, le esperienze biologiche accumulatesi, non ci hanno salvato dall'incertezza. Al contrario, esse hanno aumentato la nostra ignoranza, mostrando sempre nuove realtà sotto ciò che si credeva essere la realtà. Infatti la sola realtà è di altro ordine: si situa nel dominio della Fede. E' attraverso l'incontro con l'altro che noi possiamo comprenderla. Ma bisogna passare per la morte e la Resurrezione, ciò che, implica un salto al di fuori del tempo cui stranamente la musica può prepararci come immagine, come riflesso, come simbolo. Infatti la musica è un dialogo perpetuo tra lo spazio e il tempo, tra il suono e il colore, dialogo che tende ad un'unificazione: il tempo è uno spazio, il suono è un colore, lo spazio è un complesso di tempi. sovrapposti, i complessi di suoni esistono simultaneamente come complessi di colore.
Nella bella raccolta del Saggiatore c'è appunto un articolo intitolato semplicemente "Colore" del fine musicologo americano Jonathan W. Bernard: "Sarebbe un grave errore - egli scrive - per chiunque sia interessato alla musica di Messiaen, accantonare subito l'idea del colore come attributo del suono come se fosse semplicemente un'illusione del compositore o una prova del suo carattere eccentrico". La sinestesia in Messiaen non è meramente riferita alle tonalità, come in Skrjabin, ma precisamente agli accordi, agli impasti di suono-colore: una tavolozza mobile e sfuggente, in perpetuo cambiamento. Bernard, lavorando sulle interviste date dal compositore, sulle prefazioni alle opere e le partiture stesse, è giunto a classificare le associazioni fino a fornire una tabella molto precisa ed utile cui aggiungerci però che anche nei testi poetici scritti dal compositore si svela la visone del colore del suono, e nel punto e preciso in cui, secondo Messiaen, la musica la produce.
A Venezia sono stato recentemente testimone di un'esecuzione di Harawi che mi sembra aver realizzato pienamente un originale progetto interpretativo intrinseco alla poetica di quest'autore. Una lirica e sensuale vocalità di soprano (Susanna Armani) sostiene emotivamente il testo con tutto il suo carico di excursus semantici e musicali, una sensibile lettura della complessa articolazione pianistica da parte del contemporaneista Aldo Orvieto, il fascino aggiunto dell'interpretazione del colore dei suoni data dal pittore e scenografo Antonio Panzuto seguendo il testo di Messiaen (la performance verrà ripresa il 28 novembre nella duecentesca chiesa sconsacrata di San Nicolò in Chioggia nella stagione lirico-sinfonica clodiense). Penso che in questo tipo di progetti la musica di Messiaen si disponga simultaneamente a molteplici interessanti approcci interpretativi e creativi. Senza nulla togliere, si badi, alla possibilità di ciascuno di conservare la propria percezione soggettiva della sinestesia, differenze di cui Messiaen stesso era perfettamente cosciente: "Credo che le percezioni possano concordare in generale. Non si può vedere un giallo invece del rosso, o un blu invece di un verde. Tuttavia ci sono piccoli dettagli: io, per esempio, vedo grigio, mauve e toni oro nella seconda trasposizione del terzo modo, che mi piace particolarmente. Altre persone possono percepirlo in modo diverso, ma qualsiasi cosa avvenga, vedranno qualcosa di grigio e viola, non sarà magari esattamente mauve e oro, ma al tempo stesso sarà un colore simile e non sarà sicuramente rosso".
Paolo Catellani ("il giornale della musica", Anno XXIV n.252, ottobre 2008)
Paolo Catellani ("il giornale della musica", Anno XXIV n.252, ottobre 2008)
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