Tutta l'opera wagneriana è un'immedesimazione in miti e simboli: sta sotto il segno del sacro, e svolge la metafisica del mondo sulle ali dell'immagine scenica, poetica e sonora. Il dramma dei personaggi è dramma di figure imbevute di senso cosmico, che sono già per se stesse in rapporto universale con la realtà totale, negativo o positivo; sono gli arya e gli asura della mitologia indiana. Un solo dramma o commedia fa eccezione: I Maestri Cantori di Norimberga. Qui Wagner torna all'usato teatro di immedesimazione nella vita stessa qual'è, trovandovi l'armonia e la melodia delle cose e delle creature. Naturalmente non c'è commedia di alta perfezione che non sia un'armonia di suprema unità fra le creature e tutta la vicenda della vita che racchiude, e che quindi non divenga essa stessa una espansione in simboli universali, nei quali l'uomo ritrova se stesso, figure tipiche che si allargano oltre i tempi e gli spazi. Ma questi tipi sono il mondo in cui viviamo: il genio del teatro si immerge nella vita quotidiana e ne scorge e vive il destino sotto le apparenze banali, aleatorie e discordi, così che la vita quotidiana stessa diventa un quadro d'arte.
Wagner fu d'altronde colui che per primo immerse la musica nella natura, e ne trasse dall'orchestra tutte le voci. Seppe far cantare la materia vivente e cosmica, non soltanto le passioni umane, a cui quasi esclusivamente si era ristretta l'espressione musicale fino a lui. Se nei Maestri Cantori è la commedia umana che prevale, inevitabile era che anche qui il Maestro si valesse della magia di cui era grande evocatore per suscitare dall'orchestra gli incantesimi della notte lunare, le voci - dal coro - della folla discorde, i brusii notturni di una città addormentata. E questo è l'incanto del secondo atto, dove una strada di Norimberga diventa nell'alta notte un pezzo di cosmo in cui la natura vicina e lontana confluisce e si stempera.
Ma sopra l'intera magia di Norimberga si distende, come un diffuso vapore, la visione buddica del mondo; l'occhio del cantore vede dall'alto la città addormentata, e ne contempla poi il risveglio e l'incipiente giornata come una follia del gioco di lila della vita: «Wahn! Wahn! - Uberall Wahn!». E' l'antico saggio che lo dice attraverso Hans Sachs, il quale sta seduto nel mattino di San Giovanni nella grande poltrona della sua contemplazione interiore. Con ciò rivela il senso stesso dell'azione drammatica di ogni tempo, quando rappresenta la commedia umana: una visione ciclica della follia del mondo, speculum vanitatis.
Non è un'opera buffa, e neanche comica, I Maestri Cantori: è una melanconica visione della vita soffusa della sottilissima polvere di un sereno sorriso.
Vi si scarica una gran parte della considerazione che l'autore faceva del mondo. C'è il senso delle masse umane e del popolo, come vita innumerevole che è come una disseminazione di piccole pietre preziose. L'anima totale attraverso innumerevoli vite: non la passione individualista, il dramma di qualche personaggio storico o fantastico dell'opera usuale, ma il dramma ridevole di tutti. La passione di Walther ed Eva è come un bacino d'acqua chiara nel circuito sterminato della natura. Non essa, ma la vita sociale con i dolori e le gioie comuni dei giovani e dei vecchi, degli ambiziosi dei generosi, degli avari e dei bizzosi, degli orgogliosi e dei modesti è il tessuto in cui si tramano le voci dell'orchestra e dei cori. Ma su questo brulicare, anzi in esso stesso, si forma anche per crescita spontanea, che interamente lo pervade, il messaggio estetico e sociale, che Wagner era andato meditando attraverso la osservazione della vita, e i suoi stessi casi personali.
Si sa che ad Hans Sachs Wagner aveva originariamente contrapposto la pedante figura di Beckmesser sotto il nome di Hans Lich; e con questo nome aveva trovato durante la gestazione la concretezza del personaggìo. Ora Eduard Hanslick era quello che egli considerava il suo nemico personale: il teorico della musica pura, autore di quell'aureo saggio che è Vom Musikalisch-Schönen, tradotto in molte lingue e letto con interesse fino ad oggi, intorno all'essenza puramente architetturale delle forme sonore, cariche in sé di vitalità interiore, ma non espressive di sentimenti altri da loro, cioè extra-musicali (di cui cioè la musica sarebbe un veicolo espressivo) come tendeva invece a sostenere la corrente programmatica della concezione romantica della musica. Ma quella nobile figura di critico e cattedratico sbagliava nel ripudiare l'immensa vitalità sonora che era la stessa musica wagneriana, che gli sbaragliava le concezioni formali e puristiche, a cui la sua mentalità era abituata. Di qui la sua ostilità verso Wagner. E come non sapesse superare questa ostilità lo dimostra ciò che, certamente edotto del tiro che Wagner dapprima aveva tramato contro il suo nome, ebbe a scrivere dopo la prima dei Maestri Cantori: «Il preludio è un pezzo musicale di miserevole artificiosità e di effetto puramente e semplicemente brutale... la struttura dello spartito è assolutamente senza nerbo: un mollusco senz'ossa... Se i Maestri Cantori diventassero regola sarebbe la fine di tutta la musica... ».
In ogni tempo vi sono coloro che vogliono isolare: il sesso dall'amore, la fisiologia dalla psicologia, la musica dalla pittura, l'etica dalla logica, la filosofia dalla poesia. Ma Wagner apparteneva alla schiera dei grandissimi che sanno per esperienza interiore come in realtà nulla si possa isolare senza ucciderlo, e come in ogni momento della vita interiore confluisca tutta la vita; come le regole stesse nascano dalla vita e si dissolvano in essa, né si possano isolare i suoni e le forme sonore dalle visioni e dai sentimenti che suscitano proprio perché li contengono in sé transustanziati in suono; perché tutto è un circuito; e l'arte grande ha la sua eccellenza nel non estraniarsi, ma nel vivere nella sigla del simbolo sonoro (nel caso della musica) le universali rispondenze dell'umanità e della natura. Non nella rinuncia ad essere altro da se stessa - cioè in una marmorea nudità formale - ma nell'essere già in sé voce della vita universale consiste la grandezza dell'opera maggiore. Questo appunto è il dilemma che divide Hans Sachs e Walther da Beckmesser. Questo ultimo scorge solo l'astrazione del momento sonoro; è nevroticamente distaccato dell'esistenza e si ferma su un solo punto di essa. Perciò apprezza le regole arginatrici e basta; e naturalmente finisce per sbagliare tutto, come colui che vuol mettere accuratamente il piede sempre soltanto su determinate pietre e non su altre. Beckmesser è pedante perché è nevrotico, e perciò è buffo, e finisce per rivelare che ha perduto ogni contatto con i suoi, simili e con la vita. Ma è anche pericoloso perché pensa solo a se stesso. Su questo egoismo fondamentale si fonda la severità, l'acribia, l'inquisìzione poliziesca stessa nel punire e nel redarguire, senza un briciolo d'amore, che ha sempre caratterizzato la genia dei pedanti e dei professori troppo severi. Wagner, che ne aveva fatto l'esperienza, non li poteva soffrire: ma l'insofferenza era anche compassione, almeno nell'atto della creazione. Altrimenti non avrebbe potuto dipingere Beckmesser con tanta carezza di umanità in fondo serenamente sorridente e benevola, facendone una figura valida per ogni tempo. Ma di fronte alle regole, per esempio, della pedantesca tradizione musicale scolastica che ha imperversato quasi fino ad oggi nelle scuole di musica, non c'era se non da mettere a nudo la fondamentale cecità che vi stava sotto, la bisbeticità, cioè l'egoismo segreto di chi, una volta impossessatosi di un sistema, lo difende ad oltranza come un tesoro chiudendosi in un moralismo estetico che ricompare in ogni tempo, e che è insieme intransigenza, durezza d'animo, incomprensione e malvagità. Come Beckmesser è un egoista geloso nell'arte, così lo è nella vita; non vede Eva che quale oggetto d'acquisto del suo desiderio. E finisce come tutti gli avari e gli egoisti: credendo di tutelare il proprio vantaggio e interesse se ne va povero e scornato. Il trionfatore è Hans Sachs ancora più che Walther, figura un po' melodrammaticamente convenzionale; colui che ha saputo rinunciare anche ad Eva che gli si offriva, per una considerazione di superiore benevolenza, ovvia ma così difficile in certi casi. Sachs, che attraverso i dolori e le disgrazie della vita, ha imparato a rinunciare, vede l'arte e il popolo affluirgli incontro e donarglisi. Perché soltanto chi si sa dimenticare negli altri trionfa nella totalità della vita.
D'altra parte I Maestri Cantori è commedia del popolo, non delle corti, non dell'alta classe, ma del proletariato, allora piccola borghesia, di una città del cinquecento. La vita la sa e vive il popolo più dei privilegiati dell'arte e della vita. Non nell'eccellenza in sé, ma nella comunione è la grandezza; forme e scienza restano astratte se non sono al servizio dell'amore, cioè della comunione. Perciò le regole dei Maestri Cantori devono sgorgare dalla primavera della vita, e in essa sempre reimmergersi. Lo dice a chiare parole Hans Sachs, e in fondo lo stesso Pogner, il magnate del denaro che si fa mecenate dell'arte e dell'amore per non essere quel pescecane, che altrimenti lo reputano altrove. Non perché - come talvolta si sostiene - la regola democratica debba venire dal basso; ma perché deve venire dalla comunione. Wagner esprime in questa grande commedia umana il suo pensiero socialista, che fu la concezione che lo accompagnò per tutta la vita. Anche quando si inchinò ai principi e agli aristocratici disse loro a chiare parole che essi pure solo nell'amore dell'arte e della vita di tutti potevano trovare la consacrazione della loro esistenza e delle loro opere. Sino dal discorso al Vaterlandsverein di Dresda (1848) il suo non era populismo né marxismo, cioè lotta di classe, ma predicazione di comunione e collaborazione socialista fra tutte le classi. Egli sentiva sempre il valore come qualcosa di supremo che sgorga dalla più vaste visioni della vita interiore, anzi addirittura dallo spirito divino, e non dagli interessi o dall'economia soltanto. Ma avvertiva come lo spirito divino non è tirannia del Padre o dei magnati.
E' nel segno di questo amore che si conclude in uno splendore innumerevole la coralità dilagante sul prato della Pegnitz. Tutti che esistiamo non siamo che una muffa su questa palla che corre luminosa nel cosmo in uno spazio sterminato di stelle, pianeti e galassie, che di questa nostra vita terrestre non sanno nulla. Comprendere questo e riempirsi perciò di rinuncia a sé e di generosità universale è vedere oltre il limite.
E' d'altronde in tale spirito di universale comunione che I Maestri Cantori costituiscono anche una vasta contaminazione artistica, in cui il dramma si allea alla commedia, il linguaggio del cinquecento confluisce, come in un grande pasticcio, nel linguaggio di tutti i giorni e in quello dell'ottocento. La musica, per evocare lo spirito dell'antico contrappunto (che poi non era neanche proprio dei Cantori) contamina la cinquecentesca Norimberga con il barocco settecentesco e bachiano, mentre le armonie, i timbri, gli squilli e i modi sono dell'ottocento ed oltre, facendo sostanzialmente di questa vicenda scenica un Sammelsurium di universale umanità, dove vale soltanto l'universalità della vita che non ha limiti temporali. Non che Wagner, come facevano molti, abbia vestito personaggi antichi coi panni dell'ottocento; vero autore tragico, li ha rivestiti, valendosi anche della virtù trasfiguratrice della musica, dei panni di tutti i tempi, pur assumendo il quadro caratteristico di un'epoca e di un'età. Perciò ne è stata anche possibile qualche interpretazione elisabettiana e quasi dei tipo della rivista attuale, come ha fatto Wieland Wagner a Bayreuth. Quel mondo di Norimberga non è mai esistito a quel modo: eppure anche lo spirito rozzo e pretenzioso della musica dotta e popolare dell'antica città tedesca, su cui Wagner tanto si documentò, e il suo parlare ci sono dentro per evocazione e per sigla.
Il parlare popolare e discorsivo, come in ogni epoca, e come particolarmente risulta nelle farse (Fastnachtspiele, Schwänke) dello stesso Hans Sachs storico, non poteva non esprimersi in versi discorsivi, spesso contorti, perennemente allusivi alla facile arguzia attraverso la rima, soprattutto baciata (Knittelverse). E' il modo stesso di esprimersi, lievemente musicale, del popolo di ogni tempo, e soprattutto dei drammi popolari.
Nel tradurre questo grande e gustosissimo poema della commedia umana si pone quindi un problema essenziale. Riprodurre la vivacìtà intrinseca verbale del vero dialetto popolare, intriso di sonorità germanica, senza sciuparlo in un'altra lingua per di più così distante da quella, è impresa in sé disperata e presunzione che può sembrare addirittura dilettantesca. Sarebbe come voler tradurre in italiano le commedie veneziane di Goldoni. Tutti sanno che un riversamento nella lingua nazionale di quel vivacissimo dialetto, che vive soprattutto della sua sonorità specifica, non può che sciupare quelle grandi opere d'arte.
Perciò, quando Severino Pagani mi prospettò il problema di completare la serie dei grandi drammi wagneriani (esclusi, come già d'accordo, i primi, che, se pure eccellenti, hanno carattere specifico di libretti) con I Maestri Cantori, non potei non rispondere a lui, che è felice autore di vivaci e applaudite commedie in dialetto milanese, che, volendo fare qualcosa di diverso dalla traduzione già molto buona dal punto di vista filologico, ma artisticamente pesante e un po' accademica di Guido Manacorda, si incorreva in una difficoltà simile a quella di tradurre le sue stesse commedie milanesi in lingua italiana. Ma poi considerazioni editoriali ci hanno indotto a tentare una traduzione semplicemente onesta, che dapprima voleva essere ìn prosa. Senonché, accintomi al lavoro, ho comunque tentato il verso e la rima, e sono arrivato ìstintivamente a riprodurre, come si vedrà, quasi senza eccezione la struttura stessa delle rime dell'originale e dei loro metri, tolta qualche lieve licenza. Il risultato, che dapprima mi apparve deludente, mi stava inducendo ad abbandonare l'impresa, quando poi, rileggendo il lavoro compiuto, cominciò a sembrarmi che qualcosa del vino originario si fosse, come per istinto, travasato nelle rime e nei ritmi della versione, comunque assai più aderente alla verve dell'originale che non la prosa o gli incauti versi di altri traduttori. Allora mi sono deciso a presentare questo testo, con il semplice avvertimento che qui, se c'è arte, si tratta di un'impresa tecnica di riversamento condotta in porto con la maggiore onestà possibile. L'avvertimento è rivolto al lettore, che comunque ritroverà in questo libro nella parte italiana almeno una dose dello spirito del poema, il quale è certamente un capolavoro letterario del teatro germanico. Il linguaggio di questa commedia naturalmente non ha valore lirico, neanche nell'originale; i pochi squarci lirici delle canzoni di Walther non sono gran cosa neanche nel testo tedesco, ma divengono belli in virtù della musica. Ma come creazione linguistica di una commedia drammatica questa vicenda norimberghese è un grande testo, e lo è proprio perché discorsivo e immediato. Le rime stesse, proprio perché non poetiche ma grossolanamente discorsive, sono talmente essenziali che un esperimento di toglierle nella traduzione dimostra subito come così facendo si sciupi tutto: esse sono consustanziali al parlare dei personaggi; di qui la decisione di conservarle, anche se ciò costasse qualche forzatura. Un lavoro di questo genere è dunque sopratutto un risultato tecnico; e di questo modestamente crediamo di poter essere contenti. L'opera d'arte, risolto questo assunto, vien fuori da sé.
Va naturalmente perduto nella traduzione il linguaggio arcaizzante, di cui Wagner si valse: ma certo non ci sarebbe stato nessun peggiore gusto di una scimmiottatura in lingua arcaizzante italiana; è anche troppo se chi traduce riesce a rendere la spigliatezza popolare, spesso per sua natura alquanto contorta nell'espressione, che brilla ovunque nel vivacissimo originale. La necessità delle, rime e il ritmo tuttavia conferiscono anche al testo italiano una nota d'antico senza tempo preciso. E così è bene che sia.
Forse un paragone con il Falstaff boitiano e il Gianni Schicchi forzaniano - gustosissima commedia originale quest'ultima, matrice della musica - non sarebbe fuor di luogo. E' da questo poema pieno di vita che sgorga la musica, in cui tutto quanto qui è in nuce si allarga verso rive e lontananze di mari sonori, nei quali è dato riposare e sognare la magia delle notti di luna di antiche strade, e il fresco fulgore dei mattini di primavera in cui il mondo risorge sulla buona terra germanica insieme con il sole che raggia fiammante dalle nubi.
Wagner fu d'altronde colui che per primo immerse la musica nella natura, e ne trasse dall'orchestra tutte le voci. Seppe far cantare la materia vivente e cosmica, non soltanto le passioni umane, a cui quasi esclusivamente si era ristretta l'espressione musicale fino a lui. Se nei Maestri Cantori è la commedia umana che prevale, inevitabile era che anche qui il Maestro si valesse della magia di cui era grande evocatore per suscitare dall'orchestra gli incantesimi della notte lunare, le voci - dal coro - della folla discorde, i brusii notturni di una città addormentata. E questo è l'incanto del secondo atto, dove una strada di Norimberga diventa nell'alta notte un pezzo di cosmo in cui la natura vicina e lontana confluisce e si stempera.
Ma sopra l'intera magia di Norimberga si distende, come un diffuso vapore, la visione buddica del mondo; l'occhio del cantore vede dall'alto la città addormentata, e ne contempla poi il risveglio e l'incipiente giornata come una follia del gioco di lila della vita: «Wahn! Wahn! - Uberall Wahn!». E' l'antico saggio che lo dice attraverso Hans Sachs, il quale sta seduto nel mattino di San Giovanni nella grande poltrona della sua contemplazione interiore. Con ciò rivela il senso stesso dell'azione drammatica di ogni tempo, quando rappresenta la commedia umana: una visione ciclica della follia del mondo, speculum vanitatis.
Non è un'opera buffa, e neanche comica, I Maestri Cantori: è una melanconica visione della vita soffusa della sottilissima polvere di un sereno sorriso.
Vi si scarica una gran parte della considerazione che l'autore faceva del mondo. C'è il senso delle masse umane e del popolo, come vita innumerevole che è come una disseminazione di piccole pietre preziose. L'anima totale attraverso innumerevoli vite: non la passione individualista, il dramma di qualche personaggio storico o fantastico dell'opera usuale, ma il dramma ridevole di tutti. La passione di Walther ed Eva è come un bacino d'acqua chiara nel circuito sterminato della natura. Non essa, ma la vita sociale con i dolori e le gioie comuni dei giovani e dei vecchi, degli ambiziosi dei generosi, degli avari e dei bizzosi, degli orgogliosi e dei modesti è il tessuto in cui si tramano le voci dell'orchestra e dei cori. Ma su questo brulicare, anzi in esso stesso, si forma anche per crescita spontanea, che interamente lo pervade, il messaggio estetico e sociale, che Wagner era andato meditando attraverso la osservazione della vita, e i suoi stessi casi personali.
Si sa che ad Hans Sachs Wagner aveva originariamente contrapposto la pedante figura di Beckmesser sotto il nome di Hans Lich; e con questo nome aveva trovato durante la gestazione la concretezza del personaggìo. Ora Eduard Hanslick era quello che egli considerava il suo nemico personale: il teorico della musica pura, autore di quell'aureo saggio che è Vom Musikalisch-Schönen, tradotto in molte lingue e letto con interesse fino ad oggi, intorno all'essenza puramente architetturale delle forme sonore, cariche in sé di vitalità interiore, ma non espressive di sentimenti altri da loro, cioè extra-musicali (di cui cioè la musica sarebbe un veicolo espressivo) come tendeva invece a sostenere la corrente programmatica della concezione romantica della musica. Ma quella nobile figura di critico e cattedratico sbagliava nel ripudiare l'immensa vitalità sonora che era la stessa musica wagneriana, che gli sbaragliava le concezioni formali e puristiche, a cui la sua mentalità era abituata. Di qui la sua ostilità verso Wagner. E come non sapesse superare questa ostilità lo dimostra ciò che, certamente edotto del tiro che Wagner dapprima aveva tramato contro il suo nome, ebbe a scrivere dopo la prima dei Maestri Cantori: «Il preludio è un pezzo musicale di miserevole artificiosità e di effetto puramente e semplicemente brutale... la struttura dello spartito è assolutamente senza nerbo: un mollusco senz'ossa... Se i Maestri Cantori diventassero regola sarebbe la fine di tutta la musica... ».
In ogni tempo vi sono coloro che vogliono isolare: il sesso dall'amore, la fisiologia dalla psicologia, la musica dalla pittura, l'etica dalla logica, la filosofia dalla poesia. Ma Wagner apparteneva alla schiera dei grandissimi che sanno per esperienza interiore come in realtà nulla si possa isolare senza ucciderlo, e come in ogni momento della vita interiore confluisca tutta la vita; come le regole stesse nascano dalla vita e si dissolvano in essa, né si possano isolare i suoni e le forme sonore dalle visioni e dai sentimenti che suscitano proprio perché li contengono in sé transustanziati in suono; perché tutto è un circuito; e l'arte grande ha la sua eccellenza nel non estraniarsi, ma nel vivere nella sigla del simbolo sonoro (nel caso della musica) le universali rispondenze dell'umanità e della natura. Non nella rinuncia ad essere altro da se stessa - cioè in una marmorea nudità formale - ma nell'essere già in sé voce della vita universale consiste la grandezza dell'opera maggiore. Questo appunto è il dilemma che divide Hans Sachs e Walther da Beckmesser. Questo ultimo scorge solo l'astrazione del momento sonoro; è nevroticamente distaccato dell'esistenza e si ferma su un solo punto di essa. Perciò apprezza le regole arginatrici e basta; e naturalmente finisce per sbagliare tutto, come colui che vuol mettere accuratamente il piede sempre soltanto su determinate pietre e non su altre. Beckmesser è pedante perché è nevrotico, e perciò è buffo, e finisce per rivelare che ha perduto ogni contatto con i suoi, simili e con la vita. Ma è anche pericoloso perché pensa solo a se stesso. Su questo egoismo fondamentale si fonda la severità, l'acribia, l'inquisìzione poliziesca stessa nel punire e nel redarguire, senza un briciolo d'amore, che ha sempre caratterizzato la genia dei pedanti e dei professori troppo severi. Wagner, che ne aveva fatto l'esperienza, non li poteva soffrire: ma l'insofferenza era anche compassione, almeno nell'atto della creazione. Altrimenti non avrebbe potuto dipingere Beckmesser con tanta carezza di umanità in fondo serenamente sorridente e benevola, facendone una figura valida per ogni tempo. Ma di fronte alle regole, per esempio, della pedantesca tradizione musicale scolastica che ha imperversato quasi fino ad oggi nelle scuole di musica, non c'era se non da mettere a nudo la fondamentale cecità che vi stava sotto, la bisbeticità, cioè l'egoismo segreto di chi, una volta impossessatosi di un sistema, lo difende ad oltranza come un tesoro chiudendosi in un moralismo estetico che ricompare in ogni tempo, e che è insieme intransigenza, durezza d'animo, incomprensione e malvagità. Come Beckmesser è un egoista geloso nell'arte, così lo è nella vita; non vede Eva che quale oggetto d'acquisto del suo desiderio. E finisce come tutti gli avari e gli egoisti: credendo di tutelare il proprio vantaggio e interesse se ne va povero e scornato. Il trionfatore è Hans Sachs ancora più che Walther, figura un po' melodrammaticamente convenzionale; colui che ha saputo rinunciare anche ad Eva che gli si offriva, per una considerazione di superiore benevolenza, ovvia ma così difficile in certi casi. Sachs, che attraverso i dolori e le disgrazie della vita, ha imparato a rinunciare, vede l'arte e il popolo affluirgli incontro e donarglisi. Perché soltanto chi si sa dimenticare negli altri trionfa nella totalità della vita.
D'altra parte I Maestri Cantori è commedia del popolo, non delle corti, non dell'alta classe, ma del proletariato, allora piccola borghesia, di una città del cinquecento. La vita la sa e vive il popolo più dei privilegiati dell'arte e della vita. Non nell'eccellenza in sé, ma nella comunione è la grandezza; forme e scienza restano astratte se non sono al servizio dell'amore, cioè della comunione. Perciò le regole dei Maestri Cantori devono sgorgare dalla primavera della vita, e in essa sempre reimmergersi. Lo dice a chiare parole Hans Sachs, e in fondo lo stesso Pogner, il magnate del denaro che si fa mecenate dell'arte e dell'amore per non essere quel pescecane, che altrimenti lo reputano altrove. Non perché - come talvolta si sostiene - la regola democratica debba venire dal basso; ma perché deve venire dalla comunione. Wagner esprime in questa grande commedia umana il suo pensiero socialista, che fu la concezione che lo accompagnò per tutta la vita. Anche quando si inchinò ai principi e agli aristocratici disse loro a chiare parole che essi pure solo nell'amore dell'arte e della vita di tutti potevano trovare la consacrazione della loro esistenza e delle loro opere. Sino dal discorso al Vaterlandsverein di Dresda (1848) il suo non era populismo né marxismo, cioè lotta di classe, ma predicazione di comunione e collaborazione socialista fra tutte le classi. Egli sentiva sempre il valore come qualcosa di supremo che sgorga dalla più vaste visioni della vita interiore, anzi addirittura dallo spirito divino, e non dagli interessi o dall'economia soltanto. Ma avvertiva come lo spirito divino non è tirannia del Padre o dei magnati.
E' nel segno di questo amore che si conclude in uno splendore innumerevole la coralità dilagante sul prato della Pegnitz. Tutti che esistiamo non siamo che una muffa su questa palla che corre luminosa nel cosmo in uno spazio sterminato di stelle, pianeti e galassie, che di questa nostra vita terrestre non sanno nulla. Comprendere questo e riempirsi perciò di rinuncia a sé e di generosità universale è vedere oltre il limite.
E' d'altronde in tale spirito di universale comunione che I Maestri Cantori costituiscono anche una vasta contaminazione artistica, in cui il dramma si allea alla commedia, il linguaggio del cinquecento confluisce, come in un grande pasticcio, nel linguaggio di tutti i giorni e in quello dell'ottocento. La musica, per evocare lo spirito dell'antico contrappunto (che poi non era neanche proprio dei Cantori) contamina la cinquecentesca Norimberga con il barocco settecentesco e bachiano, mentre le armonie, i timbri, gli squilli e i modi sono dell'ottocento ed oltre, facendo sostanzialmente di questa vicenda scenica un Sammelsurium di universale umanità, dove vale soltanto l'universalità della vita che non ha limiti temporali. Non che Wagner, come facevano molti, abbia vestito personaggi antichi coi panni dell'ottocento; vero autore tragico, li ha rivestiti, valendosi anche della virtù trasfiguratrice della musica, dei panni di tutti i tempi, pur assumendo il quadro caratteristico di un'epoca e di un'età. Perciò ne è stata anche possibile qualche interpretazione elisabettiana e quasi dei tipo della rivista attuale, come ha fatto Wieland Wagner a Bayreuth. Quel mondo di Norimberga non è mai esistito a quel modo: eppure anche lo spirito rozzo e pretenzioso della musica dotta e popolare dell'antica città tedesca, su cui Wagner tanto si documentò, e il suo parlare ci sono dentro per evocazione e per sigla.
Il parlare popolare e discorsivo, come in ogni epoca, e come particolarmente risulta nelle farse (Fastnachtspiele, Schwänke) dello stesso Hans Sachs storico, non poteva non esprimersi in versi discorsivi, spesso contorti, perennemente allusivi alla facile arguzia attraverso la rima, soprattutto baciata (Knittelverse). E' il modo stesso di esprimersi, lievemente musicale, del popolo di ogni tempo, e soprattutto dei drammi popolari.
Nel tradurre questo grande e gustosissimo poema della commedia umana si pone quindi un problema essenziale. Riprodurre la vivacìtà intrinseca verbale del vero dialetto popolare, intriso di sonorità germanica, senza sciuparlo in un'altra lingua per di più così distante da quella, è impresa in sé disperata e presunzione che può sembrare addirittura dilettantesca. Sarebbe come voler tradurre in italiano le commedie veneziane di Goldoni. Tutti sanno che un riversamento nella lingua nazionale di quel vivacissimo dialetto, che vive soprattutto della sua sonorità specifica, non può che sciupare quelle grandi opere d'arte.
Perciò, quando Severino Pagani mi prospettò il problema di completare la serie dei grandi drammi wagneriani (esclusi, come già d'accordo, i primi, che, se pure eccellenti, hanno carattere specifico di libretti) con I Maestri Cantori, non potei non rispondere a lui, che è felice autore di vivaci e applaudite commedie in dialetto milanese, che, volendo fare qualcosa di diverso dalla traduzione già molto buona dal punto di vista filologico, ma artisticamente pesante e un po' accademica di Guido Manacorda, si incorreva in una difficoltà simile a quella di tradurre le sue stesse commedie milanesi in lingua italiana. Ma poi considerazioni editoriali ci hanno indotto a tentare una traduzione semplicemente onesta, che dapprima voleva essere ìn prosa. Senonché, accintomi al lavoro, ho comunque tentato il verso e la rima, e sono arrivato ìstintivamente a riprodurre, come si vedrà, quasi senza eccezione la struttura stessa delle rime dell'originale e dei loro metri, tolta qualche lieve licenza. Il risultato, che dapprima mi apparve deludente, mi stava inducendo ad abbandonare l'impresa, quando poi, rileggendo il lavoro compiuto, cominciò a sembrarmi che qualcosa del vino originario si fosse, come per istinto, travasato nelle rime e nei ritmi della versione, comunque assai più aderente alla verve dell'originale che non la prosa o gli incauti versi di altri traduttori. Allora mi sono deciso a presentare questo testo, con il semplice avvertimento che qui, se c'è arte, si tratta di un'impresa tecnica di riversamento condotta in porto con la maggiore onestà possibile. L'avvertimento è rivolto al lettore, che comunque ritroverà in questo libro nella parte italiana almeno una dose dello spirito del poema, il quale è certamente un capolavoro letterario del teatro germanico. Il linguaggio di questa commedia naturalmente non ha valore lirico, neanche nell'originale; i pochi squarci lirici delle canzoni di Walther non sono gran cosa neanche nel testo tedesco, ma divengono belli in virtù della musica. Ma come creazione linguistica di una commedia drammatica questa vicenda norimberghese è un grande testo, e lo è proprio perché discorsivo e immediato. Le rime stesse, proprio perché non poetiche ma grossolanamente discorsive, sono talmente essenziali che un esperimento di toglierle nella traduzione dimostra subito come così facendo si sciupi tutto: esse sono consustanziali al parlare dei personaggi; di qui la decisione di conservarle, anche se ciò costasse qualche forzatura. Un lavoro di questo genere è dunque sopratutto un risultato tecnico; e di questo modestamente crediamo di poter essere contenti. L'opera d'arte, risolto questo assunto, vien fuori da sé.
Va naturalmente perduto nella traduzione il linguaggio arcaizzante, di cui Wagner si valse: ma certo non ci sarebbe stato nessun peggiore gusto di una scimmiottatura in lingua arcaizzante italiana; è anche troppo se chi traduce riesce a rendere la spigliatezza popolare, spesso per sua natura alquanto contorta nell'espressione, che brilla ovunque nel vivacissimo originale. La necessità delle, rime e il ritmo tuttavia conferiscono anche al testo italiano una nota d'antico senza tempo preciso. E così è bene che sia.
Forse un paragone con il Falstaff boitiano e il Gianni Schicchi forzaniano - gustosissima commedia originale quest'ultima, matrice della musica - non sarebbe fuor di luogo. E' da questo poema pieno di vita che sgorga la musica, in cui tutto quanto qui è in nuce si allarga verso rive e lontananze di mari sonori, nei quali è dato riposare e sognare la magia delle notti di luna di antiche strade, e il fresco fulgore dei mattini di primavera in cui il mondo risorge sulla buona terra germanica insieme con il sole che raggia fiammante dalle nubi.
Giulio Cogni (introduzione a "I Maestri Cantori" di Wagner, Casa Editice Ceschina, 1972)
Nessun commento:
Posta un commento