Oh' sì! Che grande tragedia!
Sebbene credessi di conoscere benissimo Vladimir Delman, la sua risposta mi lasciò senza fiato. Passeggiavamo sotto i portici di via Po' a Torino. Mi fermai. Delman si fermò.
Tragedia? Forse di Bartolo? O di Berta?
Oh' no. Bartolo mi ispira molta simpatia, e anche Berta. Ma loro sono soltanto gli sconfitti. La tragedia di Rosina.
Beh, proprio tragedia non direi. E' innamorata, vince, si sposa...
E che matrimonio sarà il suo? Senza figli, il Conte che rincorre tutte le gonnelle, lei che soffre. La tragedia comincia nel Barbiere di Siviglia, nelle Nozze di Figaro si sviluppa, e poi...
Lei, scusi l'interruzione, ha diretto il Barbiere di Siviglia?
No, mai.
E se l'avesse diretto, come l'avrebbe impostato, per far capire che è una tragedia? Sebbene non si direbbe...
Avrei certamente avuto dei problemi. Come li ebbi con le Nozze di Figaro, quando le diressi a Roma.
Come li risolse?
Li risolsi quando capii chi è il protagonista delle Nozze. Lei ci ha mai pensato?
Non ci ho mai pensato. O forse mi è sempre sembrato così evidente che non c'era bisogno di pensarci.
In un'opera, badi bene, ci vuole sempre un protagonista. C'è anche quando non sembra. L'opera ci racconta un uomo (o una donna), circondato da altri: quel che importa è ciò che succede dentro quel/quella protagonista. Vediamo, Lei chi crede sia il protagonista delle Nozze di Figaro?
Mi ci lasci pensare.
Delman lo sapevo, era nello stesso tempo serio e giocherellone. Alla storia del protagonista delle Nozze ci credeva davvero, ma si divertiva a farmi rosolare un po', invece di dirmi qual'era la sua idea. Mi concentrai, parlando ad alta voce per cogliere nella sua mimica il riflesso delle sue reazioni.
Dunque, Figaro no, sarebbe troppo banale, e di conseguenza nemmeno Susanna. Il Conte viene menato per il naso dal principio alla fine, e la Contessa lo perdona. Nessuno dei due è il protagonista.
Capivo che stavo andando bene; Delman mi guardava fisso, approvando. Dovevo continuare.
Ci sarebbero Bartolo e Marcellina. Ma si sposano: può essere questa una tragedia, sicuro...
Non si metta a scherzare. Non mi piace. Non mi piace nemmeno che Lei vada per esclusione, invece di puntare subito alla verità. Ma so che prende sempre la via più lunga. Pazienza: l'importante è arrivarci.
Ci sarebbe ancora...
Non mi dica che ci sarebbe Basilio!
Non pensavo a Basilio. Dicevo che ci sarebbe ancora...
...c'è, non ci sarebbe...
...Cherubino.
Cherubino: "Voi che sapete" è il centro dell'opera. Che fatica ho fatto a metterne a punto il colore!
C'è riuscito?
Idealmente sì. E certe sere, non tutte, anche concretamente. Di lì si capiva il senso di tutta la trilogia.
Addirittura di tutta la trilogia? Allora Lei non pensa che Cherubino sia un po' come il giovane Conte!
Assolutamente no. No. E nemmeno come un giovane Don Giovanni. Assurdità. Cherubino cerca l'amore, l'Amore. Lo troverà quando la Contessa si innamorerà di lui. Avranno un figlio, e Cherubino morirà, giovare, in battaglia. Legga la Mère coupable.
L'ho letta.
Allora dovrebbe esserle chiara. La tragedia di Rosina, La Contessa. Peccato che la Mère coupable l'abbia musicata Milhaud. Se l'avesse musicata Verdi, invece del Falstaff...
Che è una grande tragedia.
Immensa.
Vladimir Delman era fatto così. Adorava le opere comiche, anche le opere buffe, ma perché ci vedeva la vita con le sue tragedie, la vita come tragedia e come dispensatrice di saggezza e di morale. Una volta che stavo conversando con lui, a Genova, arrivò il mio assistente, arrabbiatissimo perché aveva ricevuto la cartella delle tasse, perché Pannella lo aveva deluso in non so più che, perché c'era uno sciopero degli autoferrotranvieri.
"In questo paese non funziona niente", fu la sua conclusione.
"Sì", disse serafico Delman, "Però tutte le mattine c'è il pane". Il mio assistente tacque, fulminato. "Lo so che qui non funziona niente", riprese Delman. "Delle volte mi ci arrabbio pure io. Ma io amo questo paese anarchico. Appena possibile chiederò la cittadinanza italiana".
La chiese, e l'ottenne, di lì a qualche anno... dopo essersi messo in regola con le tasse. Perché Delman non conosceva l'imposta sul reddito, e credeva che le tasse consistessero nelle trattenute sugli onorari. "L'avvocato a cui mi sono rivolto mi ha sgridato perché non ho la cartella delle tasse e perché non ho documentato le spese", lui disse. "Come se non avessi pagato abbastanza. Ho pagato somme enormi". "E che cosa Le ha detto l'avvocato?". Divenne, da irato che era, subitamente funereo. "Dovrò racimolare, se bastano, quaranta milioni. E spero che questo non danneggi la pratica per la naturalizzazione. A proposito, avrei già dovuto chiederLe da tempo la dichiarazione che ho lavorato con Lei e che Lei pensa di scritturarmi ancora. Serve per la pratica". "Io, che pago tutte le tasse, non scritturo volentieri quelli che le evadono". "Beh, adesso mi metto in regola. E' che l'Italia mi piace maledettamente, malgrado tutto".
Delman era venuto in Italia da turista, con un viaggio organizzato da un'agenzia, negli anni sessanta. Era venuto, e l'Italia gli si era conficcata nel cuore, e aveva subito desiderato di tornarci.
Ci tornò per caso, o perché così aveva voluto il destino. Delman, come tutti i sovietici della sua generazione, aveva lavorato molto in patria e pochissimo all'estero. Un giorno l'agenzia musicale di stato, il Gaskoncert, lo mandò a Londra, a dirigere la Bella addormentata che una compagnia di balletto sovietica doveva rappresentarvi. Delman chiese molte prove, le ottenne, e fece un'esecuzione che lasciò esterrefatti i londinesi.
Subito un'orchestra sinfonica gli chiese di dirigere dei concerti. Ma le scritture degli artisti sovietici dovevano passare attraverso il Goskoncert, e il Goskoncert, ricevuta ufficialmente la richiesta,... propose un altro direttore, per la buona ragione che l'altro direttore non era mai stato in Occidente e Delman sì. Delman si infuriò, ma non ci fu verso di far cambiare idea al Gaskoncert (né all'orchestra di Londra, che scritturò l'altro direttore). Mentre combatteva l'inutile battaglia con il Gaskoncert Delman ricevette una lettera da una sua sorellastra che era emigrata in Israele prima della guerra. La donna gli diceva di aver letto nei giornali inglesi del successo del fratello, si complimentava, gli chiedeva se non avesse intenzione di stabilirsi a sua volta in Israele. Ci fu un breve scambio di lettere, e Delman, ancora infuriatissimo con il Goskoncert, chiese un visto per l'emigrazione. Gli venne concesso dopo molto tempo, venne portato in aereo a Vienna, fu accompagnato al centro di raccolta israeliano degli emigranti, gli venne ritirato il passaporto. Dal centro telefonò alla sorella. Gli rispose un funzionario, da cui seppe che la sorella era morta anni prima e che le lettere le aveva scritte lui, il funzionario, per aiutarlo ad uscire dall'Unione Sovietica.
Delman troncò la telefonata, andò all'ambasciata sovietica e chiese di rientrane in patria. Gli dissero che non era possibile. Per parecchie settimane Delman rimase al centro di raccolta, senza saper che fare e rifiutandosi comunque di andare in Israele. Ma un dirigente dei centro, amante della musica, ebbe occasione di parlare di Delman ad un grosso personaggio della musica italiana incontrato ad un concerto. Di lì a qualche giorno un direttore, scritturato per l'Eugenio Oneghin in un teatro italiano, si ammalò. Il direttore artistico del teatro chiese aiuto al grosso personaggio, che si ricordò di Delman. Superati di slancio - il grosso personaggio era davvero grosso - i problemi del permesso di soggiorno, Delman arrivò a ***, salì sul podio, cominciò a lavorare con l'orchestra, sentendosi miracolato perché il suo antico sogno si avverava.
Sentendosi miracolato. Il chè non gli impedì, a metà della seconda prova, di raccogliere tutte le sue conoscenze di italiano, puntare il dito contro il primo contrabbasso e gridare con quanto fiato aveva in corpo: "Tu, assassino della musica!".
La prova venne interrotta, l'orchestra si riunì in assemblea... e assolse Delman. Non perché gli desse ragione, ma perché la sua concertazione piaceva, perché non volevano perderlo, perché trovarono la scusante della sua scarsissima conoscenza della lingua. E da quell'Oneghin ebbe inizio la carriera italiana di Delman.
Se l'incidente fosse avvenuto al termine delle prove l'orchestra sarebbe forse stata meno compatta. Delman, che era un grandissimo musicista, non era, almeno all'inizio, un grande educatore. Spiegava la musica, cercava, metteva a punto i colori, e conquistava tutti. Poi si comportava da perfezionista e pretendeva che ogni particolare fosse a posto senza far capire all'orchestra la linea generale che lui aveva in mente, e se qualcosa non andava si fermava con la faccia cupa e faceva ripetere e ripetere e ripetere. Una volta, già vicino all'esecuzione pubblica, si soffermò ossessivamente su un passo dei sassofoni, e alla fine cadde di botto in ginocchio gridando: "Ma quando, quando, signori sassofoni, mi farete la grazia di intonare come si deve questi accordi?". In realtà, due dei tre sassofonisti erano insufficienti. Lui avrebbe dovuto "protestarli" dopo tre prove. Ma Delman non avrebbe mai mandato via nessuno. Si accaniva a lavorare, convinto di poter cavare il sangue anche dalle rape. E quasi sempre ci riusciva. Solo che invece di lavorare a parte con gli elementi claudicanti, lavorava lasciando in attesa l'orchestra: le orchestre, perciò, lo adoravano sempre come musicista e spesso lo sopportavano con fatica come direttore.
Della metodologia di lavoro discussi con lui più volte, ma lo trovai sempre fermo come una roccia. Gli facevo notare che spesso si riduceva con l'acqua alla gola e che purtroppo doveva chiedere prolungamenti e prove straordinarie. Riuscivo a colpevolizzarlo, ma non a smuoverlo. "Io devo pensare all'Arte". diceva. "Sono disposto a rimborsare al teatro il costo dello straordinario, però non posso lasciar correre una bruttura".
"Non è solo questione di costi", ribattevo, "ma di rendimento. L'orchestra si stanca, perde concentrazione, gli sbagli si moltiplicano, il cane si morde la coda". "Se gli orchestrali sono artisti la bruttura spiace a loro come a me". "Sarà", dicevo, "sarà vero. Però i risultati li sente anche Lei". "Li sento", commentava mestamente, "Ma io non posso fare diversamente".
Negli ultimi anni, in cui non ebbi più occasione di vederlo al lavoro, era cambiato, mi si disse. Non so come fosse cambiato. Ma mentre prima avevo sempre sentito delle esecuzioni inferiori alle concertazioni, molte delle ultime esecuzioni che ascoltai da lui erano superbe, senza residui di intenzioni non realizzate. E mentre prima si notava un certo squilibrio di risultati fra le forme semplici e le forme complesse (fra i tempi intermedi e i tempi estremi delle sinfonie, ad esempio) alla fine anche il dominio delle forme molto articolate, e strutturalmente e drammaturgicamente, era completo.
Oggi io ricordo Delman, prima di tutto, come grandissimo interprete di Berlioz, di Mussorgski, di Ciaikovsky, di Bruckner, di Mahler, di Honegger, di Prokofiev, di Shostakovic, e mi auguro che le sue esecuzioni di questi autori vengano un poco alla volta pubblicate in disco. Ricordo però anche interpretazioni di Verdi (l'Otello) e di Puccini (la Manon Lescaut) che mi erano sembrate folgoranti, sebbene mi lasciassero dei dubbi. Ricordo un Le sette parole di Cristo sulla croce di Haydn che mi ossessionò per giorni e giorni. E persino quell'Italiana in Algeri dello scandalo non era affatto "sbagliata", ma solo inattuale.
Forse varrebbe la pena di riascoltarla, di studiarla, di vedere se sia proprio illegittimo spezzare un concertato o esporre cantando, prima della ouverture, la morale dell'opera. Delman usciva dalle quinte con due chitarristi e un flautista, e con voce da taverna intonava come una cantastorie "Le femmine d'Italia". Veniva sommerso dai fischi Eppure quell'Italiana in Algeri era teatro sul serio, elettrizzante teatro. Delman avrebbe detto che era arte, anzi, Arte. Un altro avrebbe saputo volgere a suo vantaggio i fischi, perché lo scandalo può essere importante quanto il successo; lui si bruciò il teatro che per quella produzione lo aveva scritturato. E nello stesso modo aveva bruciato dietro di sé, e continuò a bruciare molti ponti. Era fatto casi, l'ho già detto. E posso aggiungere che la sua vita non fa testo, ma la sua arte sì.
"In questo paese non funziona niente", fu la sua conclusione.
"Sì", disse serafico Delman, "Però tutte le mattine c'è il pane". Il mio assistente tacque, fulminato. "Lo so che qui non funziona niente", riprese Delman. "Delle volte mi ci arrabbio pure io. Ma io amo questo paese anarchico. Appena possibile chiederò la cittadinanza italiana".
La chiese, e l'ottenne, di lì a qualche anno... dopo essersi messo in regola con le tasse. Perché Delman non conosceva l'imposta sul reddito, e credeva che le tasse consistessero nelle trattenute sugli onorari. "L'avvocato a cui mi sono rivolto mi ha sgridato perché non ho la cartella delle tasse e perché non ho documentato le spese", lui disse. "Come se non avessi pagato abbastanza. Ho pagato somme enormi". "E che cosa Le ha detto l'avvocato?". Divenne, da irato che era, subitamente funereo. "Dovrò racimolare, se bastano, quaranta milioni. E spero che questo non danneggi la pratica per la naturalizzazione. A proposito, avrei già dovuto chiederLe da tempo la dichiarazione che ho lavorato con Lei e che Lei pensa di scritturarmi ancora. Serve per la pratica". "Io, che pago tutte le tasse, non scritturo volentieri quelli che le evadono". "Beh, adesso mi metto in regola. E' che l'Italia mi piace maledettamente, malgrado tutto".
Delman era venuto in Italia da turista, con un viaggio organizzato da un'agenzia, negli anni sessanta. Era venuto, e l'Italia gli si era conficcata nel cuore, e aveva subito desiderato di tornarci.
Ci tornò per caso, o perché così aveva voluto il destino. Delman, come tutti i sovietici della sua generazione, aveva lavorato molto in patria e pochissimo all'estero. Un giorno l'agenzia musicale di stato, il Gaskoncert, lo mandò a Londra, a dirigere la Bella addormentata che una compagnia di balletto sovietica doveva rappresentarvi. Delman chiese molte prove, le ottenne, e fece un'esecuzione che lasciò esterrefatti i londinesi.
Subito un'orchestra sinfonica gli chiese di dirigere dei concerti. Ma le scritture degli artisti sovietici dovevano passare attraverso il Goskoncert, e il Goskoncert, ricevuta ufficialmente la richiesta,... propose un altro direttore, per la buona ragione che l'altro direttore non era mai stato in Occidente e Delman sì. Delman si infuriò, ma non ci fu verso di far cambiare idea al Gaskoncert (né all'orchestra di Londra, che scritturò l'altro direttore). Mentre combatteva l'inutile battaglia con il Gaskoncert Delman ricevette una lettera da una sua sorellastra che era emigrata in Israele prima della guerra. La donna gli diceva di aver letto nei giornali inglesi del successo del fratello, si complimentava, gli chiedeva se non avesse intenzione di stabilirsi a sua volta in Israele. Ci fu un breve scambio di lettere, e Delman, ancora infuriatissimo con il Goskoncert, chiese un visto per l'emigrazione. Gli venne concesso dopo molto tempo, venne portato in aereo a Vienna, fu accompagnato al centro di raccolta israeliano degli emigranti, gli venne ritirato il passaporto. Dal centro telefonò alla sorella. Gli rispose un funzionario, da cui seppe che la sorella era morta anni prima e che le lettere le aveva scritte lui, il funzionario, per aiutarlo ad uscire dall'Unione Sovietica.
Delman troncò la telefonata, andò all'ambasciata sovietica e chiese di rientrane in patria. Gli dissero che non era possibile. Per parecchie settimane Delman rimase al centro di raccolta, senza saper che fare e rifiutandosi comunque di andare in Israele. Ma un dirigente dei centro, amante della musica, ebbe occasione di parlare di Delman ad un grosso personaggio della musica italiana incontrato ad un concerto. Di lì a qualche giorno un direttore, scritturato per l'Eugenio Oneghin in un teatro italiano, si ammalò. Il direttore artistico del teatro chiese aiuto al grosso personaggio, che si ricordò di Delman. Superati di slancio - il grosso personaggio era davvero grosso - i problemi del permesso di soggiorno, Delman arrivò a ***, salì sul podio, cominciò a lavorare con l'orchestra, sentendosi miracolato perché il suo antico sogno si avverava.
Sentendosi miracolato. Il chè non gli impedì, a metà della seconda prova, di raccogliere tutte le sue conoscenze di italiano, puntare il dito contro il primo contrabbasso e gridare con quanto fiato aveva in corpo: "Tu, assassino della musica!".
La prova venne interrotta, l'orchestra si riunì in assemblea... e assolse Delman. Non perché gli desse ragione, ma perché la sua concertazione piaceva, perché non volevano perderlo, perché trovarono la scusante della sua scarsissima conoscenza della lingua. E da quell'Oneghin ebbe inizio la carriera italiana di Delman.
Se l'incidente fosse avvenuto al termine delle prove l'orchestra sarebbe forse stata meno compatta. Delman, che era un grandissimo musicista, non era, almeno all'inizio, un grande educatore. Spiegava la musica, cercava, metteva a punto i colori, e conquistava tutti. Poi si comportava da perfezionista e pretendeva che ogni particolare fosse a posto senza far capire all'orchestra la linea generale che lui aveva in mente, e se qualcosa non andava si fermava con la faccia cupa e faceva ripetere e ripetere e ripetere. Una volta, già vicino all'esecuzione pubblica, si soffermò ossessivamente su un passo dei sassofoni, e alla fine cadde di botto in ginocchio gridando: "Ma quando, quando, signori sassofoni, mi farete la grazia di intonare come si deve questi accordi?". In realtà, due dei tre sassofonisti erano insufficienti. Lui avrebbe dovuto "protestarli" dopo tre prove. Ma Delman non avrebbe mai mandato via nessuno. Si accaniva a lavorare, convinto di poter cavare il sangue anche dalle rape. E quasi sempre ci riusciva. Solo che invece di lavorare a parte con gli elementi claudicanti, lavorava lasciando in attesa l'orchestra: le orchestre, perciò, lo adoravano sempre come musicista e spesso lo sopportavano con fatica come direttore.
Della metodologia di lavoro discussi con lui più volte, ma lo trovai sempre fermo come una roccia. Gli facevo notare che spesso si riduceva con l'acqua alla gola e che purtroppo doveva chiedere prolungamenti e prove straordinarie. Riuscivo a colpevolizzarlo, ma non a smuoverlo. "Io devo pensare all'Arte". diceva. "Sono disposto a rimborsare al teatro il costo dello straordinario, però non posso lasciar correre una bruttura".
"Non è solo questione di costi", ribattevo, "ma di rendimento. L'orchestra si stanca, perde concentrazione, gli sbagli si moltiplicano, il cane si morde la coda". "Se gli orchestrali sono artisti la bruttura spiace a loro come a me". "Sarà", dicevo, "sarà vero. Però i risultati li sente anche Lei". "Li sento", commentava mestamente, "Ma io non posso fare diversamente".
Negli ultimi anni, in cui non ebbi più occasione di vederlo al lavoro, era cambiato, mi si disse. Non so come fosse cambiato. Ma mentre prima avevo sempre sentito delle esecuzioni inferiori alle concertazioni, molte delle ultime esecuzioni che ascoltai da lui erano superbe, senza residui di intenzioni non realizzate. E mentre prima si notava un certo squilibrio di risultati fra le forme semplici e le forme complesse (fra i tempi intermedi e i tempi estremi delle sinfonie, ad esempio) alla fine anche il dominio delle forme molto articolate, e strutturalmente e drammaturgicamente, era completo.
Oggi io ricordo Delman, prima di tutto, come grandissimo interprete di Berlioz, di Mussorgski, di Ciaikovsky, di Bruckner, di Mahler, di Honegger, di Prokofiev, di Shostakovic, e mi auguro che le sue esecuzioni di questi autori vengano un poco alla volta pubblicate in disco. Ricordo però anche interpretazioni di Verdi (l'Otello) e di Puccini (la Manon Lescaut) che mi erano sembrate folgoranti, sebbene mi lasciassero dei dubbi. Ricordo un Le sette parole di Cristo sulla croce di Haydn che mi ossessionò per giorni e giorni. E persino quell'Italiana in Algeri dello scandalo non era affatto "sbagliata", ma solo inattuale.
Forse varrebbe la pena di riascoltarla, di studiarla, di vedere se sia proprio illegittimo spezzare un concertato o esporre cantando, prima della ouverture, la morale dell'opera. Delman usciva dalle quinte con due chitarristi e un flautista, e con voce da taverna intonava come una cantastorie "Le femmine d'Italia". Veniva sommerso dai fischi Eppure quell'Italiana in Algeri era teatro sul serio, elettrizzante teatro. Delman avrebbe detto che era arte, anzi, Arte. Un altro avrebbe saputo volgere a suo vantaggio i fischi, perché lo scandalo può essere importante quanto il successo; lui si bruciò il teatro che per quella produzione lo aveva scritturato. E nello stesso modo aveva bruciato dietro di sé, e continuò a bruciare molti ponti. Era fatto casi, l'ho già detto. E posso aggiungere che la sua vita non fa testo, ma la sua arte sì.
Piero Rattalino
(1995, Ermitage, Bologna)
1 commento:
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