«IO LA MUSICA SON…»
«Domani sera si dà la favola di Orfeo. C’è un palchetto allestito nel salone dell’appartamento vedovile di Margherita Gonzaga, la sorella di Vincenzo già sposa di Alfonso d’Este a Ferrara. Esecutori eccellenti, Rasi, Bacchini, Magli e compagni. Parole di Striggio. Penso che sarà una grossa sorpresa per molti. Una commedia in cui tutti gli interlocutori parlano cantando continuamente. Nuovo per Mantova. L’attesa è grande. La sala angusta. Sono sulle spine. Finite le prove, qui mi scarico un po’ i nervi scrivendo».
Il 24 febbraio 1607 rappresenta una data fondamentale nella storia del melodramma. Quella sera di un lontano Carnevale di oltre quattrocento anni fa, nel Palazzo Ducale di Mantova, più precisamente nell’appartamento che era stato della Duchessa di Ferrara, Margherita Gonzaga, vedova di Alfonso II d’Este, gli Accademici degl’Invaghiti, sotto la protezione dei Principi Gonzaga, facevano rappresentare L’Orfeo, favola in musica di Claudio Monteverdi su libretto del conte Alessandro Striggio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e dalle Georgiche di Virgilio con riferimenti, per le scene ambientate negli Inferi, alla Divina Commedia di Dante. Ad interpretarla erano stati chiamati due divi dell’epoca, entrambi cresciuti alla scuola di Giulio Caccini: il castrato Giovan Gualberto Magli, fiorentino, ‘prestato’ per l’occasione ai Gonzaga dalla corte medicea, e il tenore Francesco Rasi, aretino, già fra i protagonisti dell’Euridice di Jacopo Peri e Ottavio Rinuccini. Magli fu la Musica, Proserpina e forse la Messaggera o la Speranza, Rasi ovviamente Orfeo. Il prelato Girolamo Bacchini sostenne probabilmente la parte di Euridice. Le frasi riportate all’inizio, ancorché in prima persona, non sono del compositore ma di Claudio Gallico, il musicologo scomparso nel 2006, il quale nella sua Autobiografia di Claudio Monteverdi pubblicata nel 1995 ricostruisce su basi storiche i fatti di quei giorni come se fosse lo stesso musicista a farlo, in un diario immaginario ma ricco di spunti di riflessione su un capolavoro la cui gestazione resta ancora parzialmente avvolta nel mistero. Rileggere queste pagine è anche un omaggio a chi le ha scritte, autore di ricerche e studi di riferimento per la conoscenza della musica rinascimentale e del primo Seicento.
Dunque, L’Orfeo. Un passo in avanti straordinario rispetto alle Euridici della Camerata de’ Bardi, del Peri e del Caccini, opere in musica alle quali peraltro la partitura di Monteverdi, già ‘melodramma’ nell’accezione più autentica del termine, resta debitrice per molti aspetti. Quelle dei fiorentini, osserva Monteverdi-Gallico, erano «favole sceniche in cui tutti gli attori cantavano. Non mi bastava. Ho in mente una favola fatta concretamente di musica. Un teatro di suoni, in cui la musica non è semplice ornamento in superficie. Il dramma deve germinare dalla musica, ben appoggiata a una poesia giusta. E sia ricco di varietà. Non sospinto soltanto da quella movimentazione recitata delle parole, che alcuni predicano o praticano. Ma fatto di passi aperti declamati, inframezzati da cantabili formati, seguendo le situazioni sceniche; e di cori di vario registro che commentano dallo sfondo o avanzano protagonisti; e di strumenti divisi secondo i loro colori, a dipingere gli ambienti e le posizioni: pastorali, regali, infernali. Non abbiamo noi nuovi trovato e ben provato tanti modi e affetti diversi di musica? Perché non applicarli a fondo utilmente in questo genere di spettacolo?». L’accento viene posto sulle peculiarità della musica, del canto e dell’orchestrazione, ma anche sull’importanza del libretto, per la prima volta scritto appositamente per essere rivestito di note. E la discussione si accende sulla scena conclusiva dell’opera, che avrebbe dovuto essere tragica, persino scioccante in alcune truculente immagini, e che l’inflessibile cerimoniale di corte voleva invece lieta: «Dicono che il finale sanguinoso, con il coro delle Baccanti che ammazzano e fanno a pezzi il corpo di Orfeo, non va bene. Le dame inorridiscono. Un protagonista, un principe, muore in scena.
A parte le ragioni di opportunità qui a Mantova oggi, ripenso al mito antico. Cosa vuol dire quello spargimento delle membra di Orfeo sul terreno, e la testa spiccata dal corpo che continua a cantare portata dalla corrente del fiume. È l’eternità della musica, la sovranità della bellezza. E la terra è fecondata dal corpo del semidio sacrificato. Del figlio di Apollo.
Apollo appunto. L’altra versione che si vuole rappresentare, con l’apparizione del dio consolatore, e la loro salita in cielo cantando, mi lascia un po’ freddo. Va a finire che il pubblico sarà sviato, incantato dalle stregonerie degli scenografi, e l’arte nostra ricacciata sullo sfondo». A Mantova l’attesa per il nuovo lavoro di Monteverdi era spasmodica: «Dimani sera — scrive Carlo Magni al fratello Giovanni — il Ser.mo Signor Principe ne fa recitare una [commedia] nella sala del partimento che godeva Madama Ser.ma di Ferrara che sarà singolare, posciaché tutti li interlocutori parleranno musicalmente, dicendosi che riuscirà benissimo, onde per curiosità dubito che mi vi lascierò ridurre, caso che l’angustia del luogo non mi escluda». Il luogo prescelto per la rappresentazione era piccolo e Magni temeva di non riuscire ad accedervi per assistere a un evento che si preannunciava esclusivo e sensazionale. Lo stesso giorno il Principe Francesco Gonzaga, lo ‘sponsor’ della straordinaria operazione culturale, mandava a dire al fratello Ferdinando, studente a Pisa: «Dimani si farà la favola cantata nella nostra accademia poiché Gio.
Gualberto [Magli] s’è portato così bene, che in questo poco tempo ch’è stato qui non solo ha imparato bene tutta la parte a mente, la dice con molto garbo e con molto effetto, onde ne sono rimasto soddisfattissimo; e perché la favola s’è fatta stampare acciocché ciascuno degli spettatori ne possa avere una da leggere mentre che si canterà, ne mando una copia a V.S.». L’esito della rappresentazione fu così strepitoso che il Duca Vincenzo decise di farla replicare di fronte a un pubblico ancora più numeroso: «Si rappresenta la favola con tanto gusto di chiunque la sente — riferisce Francesco Gonzaga a Ferdinando — che non contento il Signor Duca d’esserci stato presente ed averla udita a provar molte volte, ha dato ordine che di nuovo si rappresenti, e così si farà oggi con l’intervento di tutte le dame di questa città, e per questa cagione si trattiene qui Gio. Gualberto, il quale s’è portato bene et ha dato gran soddisfazione col suo cantare a tutti e particolarmente a Madama».
Il libretto dell’opera, con il titolo La favola d’Orfeo, era stato stampato da Francesco Osanna in contemporanea con la rappresentazione; la partitura vedrà la luce soltanto due anni dopo, nel 1609, a Venezia, per i tipi di Ricciardo Amadino.
Al centro del suo lavoro Monteverdi pone Orfeo, il simbolo dell’Arte che redime il mondo, e non più Euridice, come negli ‘esperimenti’ dei fiorentini: «Alessandro [Striggio] era attirato dalla persona sventurata di Euridice. Io no. Io rispondevo di mirare tutta l’attenzione al dramma e alle pose di Orfeo.
Gli altri si muovono ai fianchi. Come padre e maestro di tutta la musica, Orfeo serve bene ai miei piani.
Grazie a lui, posso dimostrare qualcosa. [...] È Orfeo uomo che merita tutta la luce della ribalta. Che storia grandiosa. E quanti segreti di cose non rivelate. Orfeo perde Euridice due volte. Due volte! Non crede, non ha fede nella promessa del dio oscuro, e rompe la sua legge. Egli ama. Oggi penso che abbia forse ragione chi dice che Euridice è lo specchio, una emanazione necessaria di Orfeo, ossia Orfeo stesso, la sua anima, la sua aura. Quindi l’eroe perde se stesso. È Orfeo che genera la propria morte. La sua anima sarebbe così il mistero di quel volto che non gli è permesso scrutare. Avverrà mai la loro ricomposizione in uno?». Dall’alba del mondo l’Uomo cerca risposta a questa domanda angosciante nella Natura, nella Fede, nell’Arte. Monteverdi indaga, analizza, ma non scioglie l’enigma, anzi: la conclusione dell’opera, tragica o lieta che sia, precipita l’Individuo nell’abisso della propria solitudine. La partitura è strutturata magistralmente, lungo un arco drammatico che si sviluppa con perfetta unità formale e stilistica. Dopo la Toccata iniziale, il solenne inno dei Gonzaga ripetuto tre volte in cui squillano le trombe
e rullano i tamburi, e gli altisonanti ritornelli della Musica, l’opera inizia in un’atmosfera di grande serenità pastorale: «Luminosissima aria di festa, per cominciare. Scattanti movenze di balli. La canzone d’uscita di Orfeo, “Rosa del ciel”, è un giovanile canto del sole e dell’amore. Onde di felicità collettiva.
Natura benigna ride intorno. Di colpo il cielo si oscura. Armonie lacerate. Silvia la messaggera si annuncia da lontano. La macchina della morte si mette in movimento. Racconto e disperazione della compagna di Euridice. Gesti d’orrore dei pastori. Addio al mondo. Qui ho straziato me stesso. Cori lamentosi, come gli antichi treni funebri dei Greci.
Nell’Ade è guidato dalla Speranza. Preghiera del semidio. L’aria “Possente spirto”, pronunciata per incantare Caronte, è il vaso di tutta la musica che so inventare». Pochi compositori sono riusciti a uguagliare il vertice raggiunto da Monteverdi nel canto ammaliante, ipnotico che Orfeo rivolge al nocchiero infernale per ammansirlo e traghettare così sull’altra sponda dell’Acheronte. Siamo soltanto agli albori del melodramma, eppure l’aria contiene in sé i mirabolanti artifici del barocco, la conturbante vertigine del belcanto, gli eroici slanci del romanticismo, le arditezze armoniche del Novecento: una summa di tutto ciò che sarebbe stato, da quel momento in avanti, il canto lirico. Un percorso di quattro secoli di storia viene tracciato in pochi istanti di musica sublime. «Amori e tenerezze di Plutone e Proserpina: l’Inferno è una stanza nobile. Grazie al suo canto che addolcisce e convince, l’eroe ottiene la resurrezione della sposa. Risale. Fragori. Si volta. La perde. Dolce evanescente Euridice: quale buio rimane in scena senza te. Il grido di lui mi cresce nel petto. Emerge sui campi di Tracia, grigi desolati testimoni d’una addolorata e monotona lamentela. Luce morta, dove tutto è rallentato e senza speranza.
Questo deve essere comunicato. Comunque vada a finire.
Questa storia di amore e di morte mi è entrata dentro. E se io perdessi Claudia?». La perfidia del destino era in agguato: Claudia Cattaneo, amatissima consorte di Monteverdi, morì il 10 settembre 1607, pochi mesi dopo la prima dell’Orfeo.
di Giovanni Vitali (Vox Imago - Musicom)
«Domani sera si dà la favola di Orfeo. C’è un palchetto allestito nel salone dell’appartamento vedovile di Margherita Gonzaga, la sorella di Vincenzo già sposa di Alfonso d’Este a Ferrara. Esecutori eccellenti, Rasi, Bacchini, Magli e compagni. Parole di Striggio. Penso che sarà una grossa sorpresa per molti. Una commedia in cui tutti gli interlocutori parlano cantando continuamente. Nuovo per Mantova. L’attesa è grande. La sala angusta. Sono sulle spine. Finite le prove, qui mi scarico un po’ i nervi scrivendo».
Il 24 febbraio 1607 rappresenta una data fondamentale nella storia del melodramma. Quella sera di un lontano Carnevale di oltre quattrocento anni fa, nel Palazzo Ducale di Mantova, più precisamente nell’appartamento che era stato della Duchessa di Ferrara, Margherita Gonzaga, vedova di Alfonso II d’Este, gli Accademici degl’Invaghiti, sotto la protezione dei Principi Gonzaga, facevano rappresentare L’Orfeo, favola in musica di Claudio Monteverdi su libretto del conte Alessandro Striggio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e dalle Georgiche di Virgilio con riferimenti, per le scene ambientate negli Inferi, alla Divina Commedia di Dante. Ad interpretarla erano stati chiamati due divi dell’epoca, entrambi cresciuti alla scuola di Giulio Caccini: il castrato Giovan Gualberto Magli, fiorentino, ‘prestato’ per l’occasione ai Gonzaga dalla corte medicea, e il tenore Francesco Rasi, aretino, già fra i protagonisti dell’Euridice di Jacopo Peri e Ottavio Rinuccini. Magli fu la Musica, Proserpina e forse la Messaggera o la Speranza, Rasi ovviamente Orfeo. Il prelato Girolamo Bacchini sostenne probabilmente la parte di Euridice. Le frasi riportate all’inizio, ancorché in prima persona, non sono del compositore ma di Claudio Gallico, il musicologo scomparso nel 2006, il quale nella sua Autobiografia di Claudio Monteverdi pubblicata nel 1995 ricostruisce su basi storiche i fatti di quei giorni come se fosse lo stesso musicista a farlo, in un diario immaginario ma ricco di spunti di riflessione su un capolavoro la cui gestazione resta ancora parzialmente avvolta nel mistero. Rileggere queste pagine è anche un omaggio a chi le ha scritte, autore di ricerche e studi di riferimento per la conoscenza della musica rinascimentale e del primo Seicento.
Dunque, L’Orfeo. Un passo in avanti straordinario rispetto alle Euridici della Camerata de’ Bardi, del Peri e del Caccini, opere in musica alle quali peraltro la partitura di Monteverdi, già ‘melodramma’ nell’accezione più autentica del termine, resta debitrice per molti aspetti. Quelle dei fiorentini, osserva Monteverdi-Gallico, erano «favole sceniche in cui tutti gli attori cantavano. Non mi bastava. Ho in mente una favola fatta concretamente di musica. Un teatro di suoni, in cui la musica non è semplice ornamento in superficie. Il dramma deve germinare dalla musica, ben appoggiata a una poesia giusta. E sia ricco di varietà. Non sospinto soltanto da quella movimentazione recitata delle parole, che alcuni predicano o praticano. Ma fatto di passi aperti declamati, inframezzati da cantabili formati, seguendo le situazioni sceniche; e di cori di vario registro che commentano dallo sfondo o avanzano protagonisti; e di strumenti divisi secondo i loro colori, a dipingere gli ambienti e le posizioni: pastorali, regali, infernali. Non abbiamo noi nuovi trovato e ben provato tanti modi e affetti diversi di musica? Perché non applicarli a fondo utilmente in questo genere di spettacolo?». L’accento viene posto sulle peculiarità della musica, del canto e dell’orchestrazione, ma anche sull’importanza del libretto, per la prima volta scritto appositamente per essere rivestito di note. E la discussione si accende sulla scena conclusiva dell’opera, che avrebbe dovuto essere tragica, persino scioccante in alcune truculente immagini, e che l’inflessibile cerimoniale di corte voleva invece lieta: «Dicono che il finale sanguinoso, con il coro delle Baccanti che ammazzano e fanno a pezzi il corpo di Orfeo, non va bene. Le dame inorridiscono. Un protagonista, un principe, muore in scena.
A parte le ragioni di opportunità qui a Mantova oggi, ripenso al mito antico. Cosa vuol dire quello spargimento delle membra di Orfeo sul terreno, e la testa spiccata dal corpo che continua a cantare portata dalla corrente del fiume. È l’eternità della musica, la sovranità della bellezza. E la terra è fecondata dal corpo del semidio sacrificato. Del figlio di Apollo.
Apollo appunto. L’altra versione che si vuole rappresentare, con l’apparizione del dio consolatore, e la loro salita in cielo cantando, mi lascia un po’ freddo. Va a finire che il pubblico sarà sviato, incantato dalle stregonerie degli scenografi, e l’arte nostra ricacciata sullo sfondo». A Mantova l’attesa per il nuovo lavoro di Monteverdi era spasmodica: «Dimani sera — scrive Carlo Magni al fratello Giovanni — il Ser.mo Signor Principe ne fa recitare una [commedia] nella sala del partimento che godeva Madama Ser.ma di Ferrara che sarà singolare, posciaché tutti li interlocutori parleranno musicalmente, dicendosi che riuscirà benissimo, onde per curiosità dubito che mi vi lascierò ridurre, caso che l’angustia del luogo non mi escluda». Il luogo prescelto per la rappresentazione era piccolo e Magni temeva di non riuscire ad accedervi per assistere a un evento che si preannunciava esclusivo e sensazionale. Lo stesso giorno il Principe Francesco Gonzaga, lo ‘sponsor’ della straordinaria operazione culturale, mandava a dire al fratello Ferdinando, studente a Pisa: «Dimani si farà la favola cantata nella nostra accademia poiché Gio.
Gualberto [Magli] s’è portato così bene, che in questo poco tempo ch’è stato qui non solo ha imparato bene tutta la parte a mente, la dice con molto garbo e con molto effetto, onde ne sono rimasto soddisfattissimo; e perché la favola s’è fatta stampare acciocché ciascuno degli spettatori ne possa avere una da leggere mentre che si canterà, ne mando una copia a V.S.». L’esito della rappresentazione fu così strepitoso che il Duca Vincenzo decise di farla replicare di fronte a un pubblico ancora più numeroso: «Si rappresenta la favola con tanto gusto di chiunque la sente — riferisce Francesco Gonzaga a Ferdinando — che non contento il Signor Duca d’esserci stato presente ed averla udita a provar molte volte, ha dato ordine che di nuovo si rappresenti, e così si farà oggi con l’intervento di tutte le dame di questa città, e per questa cagione si trattiene qui Gio. Gualberto, il quale s’è portato bene et ha dato gran soddisfazione col suo cantare a tutti e particolarmente a Madama».
Il libretto dell’opera, con il titolo La favola d’Orfeo, era stato stampato da Francesco Osanna in contemporanea con la rappresentazione; la partitura vedrà la luce soltanto due anni dopo, nel 1609, a Venezia, per i tipi di Ricciardo Amadino.
Al centro del suo lavoro Monteverdi pone Orfeo, il simbolo dell’Arte che redime il mondo, e non più Euridice, come negli ‘esperimenti’ dei fiorentini: «Alessandro [Striggio] era attirato dalla persona sventurata di Euridice. Io no. Io rispondevo di mirare tutta l’attenzione al dramma e alle pose di Orfeo.
Gli altri si muovono ai fianchi. Come padre e maestro di tutta la musica, Orfeo serve bene ai miei piani.
Grazie a lui, posso dimostrare qualcosa. [...] È Orfeo uomo che merita tutta la luce della ribalta. Che storia grandiosa. E quanti segreti di cose non rivelate. Orfeo perde Euridice due volte. Due volte! Non crede, non ha fede nella promessa del dio oscuro, e rompe la sua legge. Egli ama. Oggi penso che abbia forse ragione chi dice che Euridice è lo specchio, una emanazione necessaria di Orfeo, ossia Orfeo stesso, la sua anima, la sua aura. Quindi l’eroe perde se stesso. È Orfeo che genera la propria morte. La sua anima sarebbe così il mistero di quel volto che non gli è permesso scrutare. Avverrà mai la loro ricomposizione in uno?». Dall’alba del mondo l’Uomo cerca risposta a questa domanda angosciante nella Natura, nella Fede, nell’Arte. Monteverdi indaga, analizza, ma non scioglie l’enigma, anzi: la conclusione dell’opera, tragica o lieta che sia, precipita l’Individuo nell’abisso della propria solitudine. La partitura è strutturata magistralmente, lungo un arco drammatico che si sviluppa con perfetta unità formale e stilistica. Dopo la Toccata iniziale, il solenne inno dei Gonzaga ripetuto tre volte in cui squillano le trombe
e rullano i tamburi, e gli altisonanti ritornelli della Musica, l’opera inizia in un’atmosfera di grande serenità pastorale: «Luminosissima aria di festa, per cominciare. Scattanti movenze di balli. La canzone d’uscita di Orfeo, “Rosa del ciel”, è un giovanile canto del sole e dell’amore. Onde di felicità collettiva.
Natura benigna ride intorno. Di colpo il cielo si oscura. Armonie lacerate. Silvia la messaggera si annuncia da lontano. La macchina della morte si mette in movimento. Racconto e disperazione della compagna di Euridice. Gesti d’orrore dei pastori. Addio al mondo. Qui ho straziato me stesso. Cori lamentosi, come gli antichi treni funebri dei Greci.
Nell’Ade è guidato dalla Speranza. Preghiera del semidio. L’aria “Possente spirto”, pronunciata per incantare Caronte, è il vaso di tutta la musica che so inventare». Pochi compositori sono riusciti a uguagliare il vertice raggiunto da Monteverdi nel canto ammaliante, ipnotico che Orfeo rivolge al nocchiero infernale per ammansirlo e traghettare così sull’altra sponda dell’Acheronte. Siamo soltanto agli albori del melodramma, eppure l’aria contiene in sé i mirabolanti artifici del barocco, la conturbante vertigine del belcanto, gli eroici slanci del romanticismo, le arditezze armoniche del Novecento: una summa di tutto ciò che sarebbe stato, da quel momento in avanti, il canto lirico. Un percorso di quattro secoli di storia viene tracciato in pochi istanti di musica sublime. «Amori e tenerezze di Plutone e Proserpina: l’Inferno è una stanza nobile. Grazie al suo canto che addolcisce e convince, l’eroe ottiene la resurrezione della sposa. Risale. Fragori. Si volta. La perde. Dolce evanescente Euridice: quale buio rimane in scena senza te. Il grido di lui mi cresce nel petto. Emerge sui campi di Tracia, grigi desolati testimoni d’una addolorata e monotona lamentela. Luce morta, dove tutto è rallentato e senza speranza.
Questo deve essere comunicato. Comunque vada a finire.
Questa storia di amore e di morte mi è entrata dentro. E se io perdessi Claudia?». La perfidia del destino era in agguato: Claudia Cattaneo, amatissima consorte di Monteverdi, morì il 10 settembre 1607, pochi mesi dopo la prima dell’Orfeo.
di Giovanni Vitali (Vox Imago - Musicom)
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